L’Impresa dei Mille. L’intrigo che generò la questione meridionale


L’Impresa dei Mille, il mitico atto di fondazione dell’Unità d’Italia, descritto dalla retorica unitaria come la leggendaria spedizione con la quale l’eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, “fece l’Italia”, sottraendo il Meridione dal vecchiume borbonico: una vergognosa menzogna, credibile solo per ingenuità o, peggio, per una cieca partigianeria risorgimentale, mossa da un odio viscerale per il mondo che i Borboni rappresentavano. Se abbiamo coraggio di guardare in faccia la verità, anche a costo di perdere delle certezze sulla legittimità della fondazione dello Stato di cui siamo cittadini, scopriremo che,  nel 1860, il Regno delle Due Sicilie era la terza potenza economica a livello europeo, mentre il Piemonte “liberatore” nulla più di una caserma a cielo aperto, coperta di debiti fino al collo (alla faccia della famosa questione meridionale, evidentemente, frutto della politica del Regno d’Italia e non problema preesistente).
La spedizione dei Mille che, oggi, verrebbe considerata quale aggressione ad uno stato sovrano nonché un crimine contro il principio di autodeterminazione dei popoli, fu l’attuazione di un progetto internazionale ordito dalla massoneria e dal governo inglesi, d’accordo con l’alleato piemontese, certamente non finalizzato all’unificazione di un’Italia di cui i Savoia non conoscevano nemmeno la lingua  - idioma ufficiale del Regno di Sardegna era il francese -. L’obiettivo principale era, per il governo inglese, fortemente colluso con la massoneria protestante, distruggere un regno cattolico nonchè economicamente fiorente e, dunque, rivale nei commerci mediterranei, per il Regno Sabaudo, si trattava di rimpinguare le esangui casse con l’incameramento dei beni ecclesiastici situati nel Mezzogiorno e dell’oro borbonico.
Il saggio di Francesco Saverio Nitti, “Scienze delle Finanze” (1903), riporta che, al momento dell’unificazione, il Regno delle Due Sicilie possedeva 443 milioni di monete, una quantità doppia rispetto al restante della penisola. Alla Banca di Parigi la Rendita dello stato borbonico era quotata al 120%, la percentuale più alta d’Europa, e nella Conferenza Internazionale del 1856 il Regno delle Due Sicilie ricevette il premio come terzo paese del mondo, dopo Regno Unito e Francia, per sviluppo industriale. La contemporanea crescita demografica nello stato napoletano testimonia il benessere di un paese dotato di ferrovie, gas e telegrafo e di un apparato industriale da primato europeo nei settori tessile e metalmeccanico (nel quale il numero di addetti era pari a 1.600.000 a dispetto dei 1.100.000 del resto d’Italia). Il fiore all’occhiello del Regno borbonico, però, era la cultura: venne istituita l’istruzione pubblica che, con quella affidata al clero, generò uno slancio intellettuale sull’impulso del quale nacquero il Teatro San Gallo, l’Officina dei Papiri, il Museo Archeologico, il Real Orto Botanico, l’Osservatorio Astronomico, la Biblioteca Nazionale e, soprattutto, l’Osservatorio Sismologico Vesuviano, primo al mondo.
Inaugurazione linea Napoli-Portici, 3/X/1839
Una tale potenza economica, posta in una posizione favorevolissima, costituiva una seria minaccia per la supremazia marittima e commerciale dell’Impero Britannico nel Mediterraneo, vero cuore degli scambi di merci, anche in virtù dell’apertura, in quegli anni, del Canale di Suez. Così la “perfida Albione”, per poter estendere, al pari di Austria e Francia, la propria ingerenza sull’Italia, pensò bene di dare il proprio appoggio al Piemonte, affinchè la sordida manovra avesse le parvenze di una “liberazione” nel nome dell’Italia “calpesta e derisa”. Nonostante questo pretesto, il Regno di Sardegna non azzardò l’aggressione diretta ad uno Stato sovrano, in parte perché sarebbe stata una trasgressione troppo palese di qualsiasi trattato internazionale, in parte perché era una caratteristica propria della politica del secolo XIX quella di operare in modo occulto attraverso intrighi e trattati segreti. Fu così che l’abile Cavour architettò un modo altero di mettere in pratica i disegni di Lord Palmerston, primo ministro britannico, e di Gladstone, il quale aveva diffamato l’immagine del Regno delle Due Sicilie, e ricorse, dunque, a Giuseppe Garibaldi, già condannato a morte in contumacia nel 1834 dal Consiglio Divisionale di Guerra Genovese in quanto nemico della Patria. 
Partenza da Quarto
Il mercenario che passerà alla storia come “eroe dei due mondi”, partì il 5 maggio 1860 da Quarto, Genova, alla testa di 1089 uomini, per lo più criminali comuni provenienti dalla Lombardia, imbarcati sulle due navi “Piemonte” e “Lombardo”, concesse dietro compenso dalla società Rubattino (la versione ufficiale fu quella di un furto). Di questi “mille”, oltre 300, veri repubblicani, scesero a Talamone, Toscana, dopo essere venuti a conoscenza della reale natura di quella spedizione, al soldo della massoneria e della corona sabauda. Lo sbarco, come tutti sanno, avvenne a Marsala l’11 maggio, quello che la maggioranza ignora, però, sono le circostanze sospette di tale episodio: i garibaldini approdarono alle 14, in pieno giorno, mentre il buon senso avrebbe voluto che per via della loro inferiorità numerica avessero cercato di cogliere di sorpresa i Borboni, sbarcando di notte, con il favore delle tenebre.
Sbarco a Marsala
L’arrivo in pieno giorno rivela una sicurezza di fondo, garantita dall’appoggio della marina inglese: Marsala era sede di alcune industrie vinicole britanniche (vi si produceva il liquore omonimo), e le navi inglesi “Argus” e “Intrepid” protessero dalle cannonate borboniche l’approdo dei garibaldini con il pretesto di evitare danneggiamenti alle fabbriche stesse. Alle camicie rosse del mercenario di Caprera si unirono alcuni marinai inglesi (la cui divisa era anch’essa rossa), e, successivamente, a Salemi, alcuni picciotti del signorotto locale, barone Sant’Anna. Si giunse così all’epica battaglia di Calatafimi, quella in cui si vuole che il Generale, ormai auto-dichiaratosi “dittatore delle Due Sicilie in nome di Vittorio Emanuele II, re d’Italia”, abbia pronunciato la famosa frase “Qui si fa l’Italia, o si muore!”. Effettivamente, quel 15 maggio 1860,  i “Mille”, rischiarono di essere spazzata via dall’esercito borbonico, e se non fu così, non lo dovettero alle doti dei loro comandanti (Bixio aveva ordinato la fuga), ma al tradimento del Generale borbonico Landi, corrotto con 14 mila ducati dagli Inglesi. Egli, dopo aver rifiutato il proprio sostegno al generale Sforza, che aveva già decimato l’avanguardia delle camicie rosse, suonò la ritirata, offrendo a Garibaldi la possibilità di colpire l’esercito in fuga e, al contempo, un’insperata vittoria.
Rappresentazione della battaglia di Calatafimi
Verrà condannato dallo stesso Francesco II di Borbone al confino in Ischia, l’anno successivo, dopo essere passato nell’esercito piemontese ed essere andato in pensione, si presenterà al Banco di Napoli per incassare la polizza, ricevuta per mano dello stesso Garibaldi: sarà solo allora che scoprirà che sulla sua copia sono stati aggiunti 3 zeri e, accorgendosi di essere stato ingannato, verrà colto da un ictus mortale. Nell’altra battaglia insulare, quella di Milazzo, gli Inglesi fornirono alle camicie rosse le carabine-revolver americane “Colt” e il fucile rigato inglese “Enfield 53”, garantendogli un equipaggiamento tale da risultare vincitori. Non mancarono altre corruzioni di ufficiali nell’esercito borbonico finalizzata a sapere la dislocazione dell’esercito e le strategie militari, mentre la flotta inglese scortò l’avanzata dei Mille, tanto che il 6 settembre, giorno della partenza di Francesco II da Napoli alla volta di Gaeta, l’Intrepid (lo stesso di Marsala) teneva sotto tiro il Palazzo Reale, da una posizione poco distante dal litorale Santa Lucia. Garibaldi, che quello stesso giorno giunse nella città partenopea con un treno dell’efficiente linea fatta costruire dai Borboni, alla partenza dell’Intrepid, il 18 ottobre, donerà agli Inglesi una parte del suolo pubblico, destinata all’edificazione della cappella anglicana “San Pasquale in Chaia”, mostrando le motivazioni anche religiose dell’odio britannico nei confronti del Regno delle Due Sicilie e il carattere contrattuale del sostegno dato dagli Inglesi alla spedizione dei Mille in nome di un “do ut des”. Il 26 ottobre avvenne a Teano un altro episodio, quello dell’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, che mostra nella semplicità di un’unica parola, “Obbedisco!”, la natura, tutta di mercenario, di un uomo che si è voluto raffigurare come eroe e liberatore.
Francesco II di Borbone
Qualche mese più tardi, la roccaforte borbonica di Gaeta, già rifugio per Pio IX durante la drammatica esperienza della Repubblica Romana, dopo 100 giorni di massacri perpetuati dal Comandante piemontese Cialdini cadrà: è il 13 febbraio 1861, la fine del Regno delle Due Sicilie, ma soprattutto la fine, per il Mezzogiorno, della prosperità che i Borboni gli avevano regalato, e l’inizio di una miseria economica che porterà con sé la detestabile ed infamante accusa di essere dei “fannulloni” rivolta dai Settentrionali ai suoi abitanti. Francesco II, accolto prima a Roma, da Pio IX, e, dopo il 1870, costretto ad emigrare all’estero, morirà in grande ristrettezza di mezzi a causa della confisca di tutti i suoi beni da parte dei Savoia-Carignano innanzi alla proposta dei quali di restituire il mal tolto previo riconoscimento del Regno d’Italia, rispose: “l’onore non è in vendita”. Relegare milioni di persone alla povertà e alla discriminazione, e una terra meravigliosa ad un’indegna condizione di abbandono, anche questo il frutto di un’Unità che oggi, di fatto, con il decentramento amministrativo abbiamo rinnegato, riconoscendo l’identità prevalentemente locale propria della nostra storia, e la cui necessità, all’epoca, era avvertita, solo dal Regno Sabaudo ed esclusivamente per i vantaggi economici derivanti da essa piuttosto che per i timidi slanci patriottici che potevano appartenere ad uno stato francofono, in cui la proclamazione dell’Unità, avvenne con la formula, tuttaltro che italiana:  “Victor-Emmanuel II, Roi d’Italie”.

Claretta Petacci, la prima storica del Duce



Ogni totalitarismo necessita di un forte controllo dell'informazione, della propaganda e della cultura. Ottaviano Augusto si riempì di letterati affinché cantassero la sua gloria e affinché lascassero degna memoria delle sue gesta. Nel secolo scorso il Fascismo si è caratterizzato per una grande attenzione nei confronti della propaganda: nel 1937 Mussolini istituisce il Ministero della Cultura Popolare, al quale attribuiva grandi autonomie in argomento di informazione e propaganda. Ben prima, verso la metà degli anni '20, con l'approvazione delle cosiddette Leggi Fascistissime, il Regime aveva posto sotto il proprio controllo l'intera stampa nazionale, senza farsi scrupolo di censurare le voci non in linea con il Governo. Un grande regime, oltre a preoccuparsi dell'informazione ad esso contemporanea, si preoccupa anche di fare in modo che la storiografia successiva sia benevola nel ricordare il suo governo: in tal senso possono interessare alcune precisazioni sulla storiografia del Ventennio.
Possiamo identificare senza alcun dubbio il primo storico del Duce nella figura di Claretta Petacci: quasi 30 anni più giovane di Mussolini, sarà amante del Duce, condividendone la fine, la cattura a Dongo, l'uccisione e l'esposizione a Piazzale Loreto. Le sue lettere con l'amante costituiscono storicamente la fonte più diretta e sicura circa la vita di chi per oltre 20 anni guidò il nostro paese: Ben - come soleva firmarsi nelle sue lettere confidenziali - non affiderà mai a nessun altro le intime confessioni che scriverà in quelle lettere che, cadute in mani partigiane, saranno viste prima dai servizi segreti di tutto il mondo che dagli italiani.
Mussolini si confida con l'amante comunicandole le proprie ansie prima di discorsi importanti, chiedendo consigli per i discorsi stessi, confessando la propria paura della morte e l'ansiosa consapevolezza del sopraggiungere della vecchiaia; Claretta risponde puntuale con parole di conforto, esortando Mussolini a non cedere nei momenti di difficoltà e di essere orgoglioso di quanto fatto: oltre che prima storica di Mussolini, possiamo indubbiamente considerare la Petacci la prima fascista d'Italia, non in ordine cronologico, ma per la completa adesione ai suoi ideali, che incarna coscientemente e che ricorda coerentemente nientemeno che a Mussolini.

Le lettere della Petacci alternano momenti di passione degni della migliore lettera d'amore a momenti di piena coscienza di poter vivere al fianco dell'uomo che aveva fatto la storia italiana negli ultimi 20 anni: cosciente di questo onore ella si fa carico di fare dei propri diari una cronistoria dettagliatissima delle emozioni e delle sensazioni che il Duce le confidava, con la speranza di poter godere un giorno della sua stessa fama. Arriva ad annotare statisticamente il numero delle telefonate che riceveva, oltre ad una serie di dettagli ben poco utili per descrivere la sua storia d'amore, ma indispensabili per poter dare una fisionomia completa ai sentimenti dell'uomo che - nel bene e nel male - ha deciso per sempre la storia del nostro Paese.

Natale 1914: quello che i libri non scrivono



Tutti noi conosciamo la Prima Guerra Mondiale, dall’attentato all’attentato all’Arciduca Francesco Ferdinando alla disfatta di Caporetto e la battaglia del Piave passando per quelle di Ypres e Verdun. E tuttavia - ancora una volta - esiste quantomeno un episodio di questo terribile conflitto che meriterebbe ben più attenzione di molti altri enfatizzati e commemorati che viene puntualmente ignorato e abbandonato nell’oblio. Si tratta del primo Natale in guerra, il 25 dicembre 1914.
La guerra si trascina ormai da oltre cinque mesi - e tuttavia non è che agli inizi... - e la giornata della vigilia si caratterizza sul fronte occidentale per la prima gelata della stagione che abbassa notevolmente la temperatura rendendo tuttavia più agevole le condizioni in trincea indurendo il fango presente dopo giorni di pioggia. “Durante la giornata ci sono stati scambi di fucileria” scrive in una lettera un soldato inglese trincerato a Ypres; ma il silenzio della sera sembra preannunciare qualcosa: “Speravamo che promettesse una festa tranquilla, ma non ci contavamo”.  Sono i soldati tedeschi i primi a tentare di celebrare - nei limiti del possibile - il Natale, intonando canti natalizi dopo aver addobbato con delle candele degli abeti a mo’ di albero di Natale; gli inglesi rispondono cantando “The first Nowell” tipico canto natalizio della Cornovaglia; i tedeschi contraccambiano ancora intonando “O Tannenbaum”; lo scambio di canzoni continua con “O come, all ye faithful”, corrispettivo inglese del noto “Adeste fideles”, al quale i tedeschi rispondono in latino.
Dopo aver cantato a lungo, i tedeschi prendono ancora una volta l’iniziativa, chiamando i nemici ad uscire promettendo di non sparare. “Nella trincea ci siamo guardati non sapendo che fare. Poi uno ha gridato per scherzo: 'venite fuori voi!'. Con nostro stupore, abbiamo visto due figure levarsi dalla trincea di fronte, scavalcare il filo spinato e avanzare allo scoperto” continua nella sua lettera l’anonimo soldato inglese. Nell’esercito di Sua Maestà si diffonde un misto di timore e stupore, mettendo i soldati - che da mesi non facevano altro che sparare - davanti ad un “incredibile” rapporto umano con i nemici. Fra gli inglesi c’è chi punta il fucile contro il nemico inerme, ma il capitano ordina di non aprire il fuoco ed esce a contrattare. Le due trincee distano al più 50 metri, una striscia di terra chiamata “terra di nessuno”, teatro in quei momenti della cosiddetta “tregua di Natale”, una tregua non ufficiale che riappacificò i contendenti ben più di mille tregue ufficiali: i soldati uscirono dalle trincee, liberandosi per un momento dei fucili e delle baionette che per lunghi giorni avevano costituito e continueranno a costituire la loro unica compagnia. “Abbiamo acceso un gran falò, e noi tutti attorno, inglesi in kaki e tedeschi in grigio. Devo dire che i tedeschi erano vestiti meglio, con le divise pulite per la festa. Solo un paio di noi parlano il tedesco, ma molti tedeschi sapevano l'inglese”. Inglesi e tedeschi, che fino a poche ore prima avevano ferocemente combattuto per avanzare anche solo di pochi metri, si scambiavano doni, i loro sigari con le nostre sigarette, noi il tè e loro il caffè, noi la carne in scatola e loro le salsicce”, ma anche coltelli, mostrine, cinture e tutto ciò che potesse bastare per dare a quella notte l’atmosfera natalizia.
Locandina di Joyeux Noel, film del 2005 sulla Tregua di Natale 1914.
Il contatto inatteso - ed inimmaginabile - con i nemici consente ai soldati di avere notizie sulla guerra tramite fonti diverse, estranee al proprio esercito. “Noi gli abbiamo ribattuto che non era vero, e loro. 'Va bene, voi credete ai vostri giornali e noi ai nostri'. E' chiaro che gli raccontano delle balle, ma dopo averli incontrati anch'io mi chiedo fino a che punto i nostri giornali dicano la verità”.
La tregua fu stipulata indipendentemente in diversi punti del fronte e si protrasse in alcune zone fino a Capodanno, dando la possibilità agli eserciti di recuperare i corpi dei caduti e dar loro degna sepoltura con riti cui assistettero tanto gli inglesi quanto i tedeschi. A Ypres si svolse anche una partita di calcio, fra gli inglesi del reggimento del Scottish Seaforth Highlanders e i tedeschi del reggimento sassone, dando calci ad un pallone fatto di stracci usando cumuli di cappotti per fare i pali.
La notizia della tregua raggiunse immediatamente gli Stati Maggiori degli eserciti, che, scandalizzati, intimarono ai propri eserciti di astenersi da alcuna forma di fraternizzazione col nemico: a tal fine furono attuate frequenti rotazioni affinché i soldati non avessero il tempo di conoscere i nemici. Il Natale 1915 fu ben diverso: i tedeschi trincerati a Wolvertem, nell’attuale Belgio, innalzarono in prima linea una sorta di albero di Natale luminoso, ma i comandanti inglesi ordinarono il fuoco affinché fosse chiara la propria intenzione di non ripetere la tregua natalizia.
La censura colpì anche questo episodio che rappresenta sicuramente uno dei più bei momenti della Grande Guerra e fece sì che le numerose lettere dei soldati che raccontavano ai propri cari questa meraviglia non furono pubblicate se non dopo molti decenni. Una di questa, pubblicata dal Times, ci riporta anche il risultato della partita di Ypres: vinsero i tedeschi per 3 a 2.


La conclusione della lettera del soldato che ci ha accompagnato in questa storia sembra - nella sua semplicità e, forse, utopistica ingenuità - sottolineare ancora una volta l’assurdità della guerra: “Questi soldati sono simpatici, ma eseguono gli ordini e noi facciamo lo stesso. [...] E non si può fare a meno di immaginare cosa accadrebbe se lo spirito che si è rivelato qui fosse colto dalle nazioni del mondo. Che succederebbe se i nostri governanti si scambiassero auguri invece di ultimatum? Canzoni invece di insulti? Doni al posto di rappresaglie? Non finirebbero tutte le guerre?”.

"O tempora, o mores"


“O tempi, O costumi”: non solo le trame di Lucio Sergio Catilina, ma una più generale corruzione morale di Roma, spingevano il grande oratore, Marco Tullio Cicerone, ad usare, dinanzi il Senato, l’8 novembre del 63 a.C., questa altisonante invocazione, cui è sottintesa la crisi valoriale ancor prima che politica di un momento della storia romana, contraddistinto da lotte intestine che ebbero, come estrema conseguenza, la perdita della liberà da parte del Popolo. Il binomio etica-politica, messo in risalto dallo statista arpinate e celebrato da un altro grande pensatore politico quale Dante nella Divina Commedia, non può che ritornare, nostalgicamente, alla memoria, dinanzi i costumi della politica italiana dell’oggi, contraddistinta da ruberie e da una condotta morale affatto rispondente a quei sani principi la cui incarnazione è possibile ritrovare, senza ritornare troppi secoli addietro, già nelle vetuste figure di Padri della Repubblica, quali De Gasperi o Luigi Einaudi.
Sull’esempio dello storico Sallustio che attribuiva la crisi politica alla sostanziale incontinenza di una nobiltà che mangiava senza aver fame, beveva senza aver sete e dormiva senza aver sonno, non si può far a meno di constatare, tra i motivi scatenanti la crisi politica, l’immoralità della classe politica. Come direbbe Seneca dinanzi il buon Fiorito o l’affatto ligio Gianfranco Fini: “Come può governare gli altri chi non è in grado di governare nemmeno se stesso?”.
Clientelismi di vario genere, sezioni di partito affollate da gente scarsamente preparata e poi spedita in vari centri di potere, la concezione della politica come carriera e non come servizio, più che cause sono, a ben vedere, l’effetto di una crisi di valori dei singoli e delle idee, che è arrivata a  mettere il governo del Paese nelle mani di un uomo colluso con il potere finanziario (per non dire peggio…) con un atto la cui contrarietà al democratico principio di sovranità del popolo, ricorda quello con cui Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di costituire un nuovo governo il 30 ottobre 1922.
Il modo in cui i partiti sostengono un governo tecnico affamatore del popolo e, nella sua odiosa spocchia professorale, capace di negare la legittimità del diritto al lavoro, nonché i crescenti consensi per un movimento qualunquista come quello di Grillo, palesa la mollezza stantia di idee che hanno potuto cambiar nomi e simboli (non le facce), ma la cui azione rimane legata ad un’inattuale retorica, buona solo per i tifosi, non per gli elettori pensanti, priva com’è del benché minimo programma o intervento pratico a favore delle reali esigenze del popolo.
E che dire della credibilità di sedicenti politici che, in pubblico, cantano canzoni leggere (vedi Bersani o Letizia Moratti), immemori dell’antica massima “risus abundat in ore stultorum” quanto della serietà confacentesi agli incarichi che furono di Lapira, Spadolini, Moro, Ruini o Don Sturzo, uomini, che al di là dei colori e delle idee, condivisero la medesima specchiata moralità? Tuttavia è innegabile che più che l’assenza di tali uomini di virtù, soffriamo la mancanza di certe virtù negli uomini: giustizia, pudore, temperanza, irrintracciabili nei pranzi luculliani, feste carnevalesche, impegni mondani, vacanze da nababbi, speculazioni immobiliari, cui i nostri politici, alla faccia della cura dello spirito, amano intrattenersi.
Dinanzi l’esercito di novelli Catilina che la nostra classe politica è, non abbiamo che da unirci al grido del grande Cicerone: “Quo usque tandem abutere Catilina patientia nostra?

L'Europa, l'Islam, la Francia e Maometto



Non sarà primavera quest’autunno” dicevamo ormai oltre un mese fa riferendoci alla situazione delle Repubbliche centro-asiatiche, la cui situazione assomiglia a quella del Nord-Africa ma che - per via di ben diverse situazioni politiche a livello internazionale - sono per fortuna ben lontane da una rivoluzione in stile  primavera araba”. Ebbene, l’autunno è arrivato, ed abbiamo avuto conferma - almeno per ora - di quanto affermato. Se tuttavia la temperatura della politica internazionale aumenta sempre di più, i motivi di questa preoccupante situazione sono da ricercare non solo nella vicina Africa Settentrionale, ma in tutto il mondo arabo.
Pochi giorni fa abbiamo fatto nostra la metafora della polveriera per indicare la spinosa situazione mediorientale che oscilla fra le crisi siriane e le mai sufficienti tregue fra israeliani e palestinesi: oggi - peccando probabilmente di poca originalità- paragoniamo la situazione attuale dei Paesi musulmani a delle braci ardenti, resti di un incendio neanche troppo lontano. Abbiamo sotto gli occhi in ogni momento quanto precaria risulti dunque la situazione: durante l’estate dei temibili incidenti diplomatici sono stati fatti cadere accidentalmente mo’ di mozzicone incandescente sulla brace accesa, ed è mancato che l’incesso divampasse ancora una volta.
Questo caldo inizio d’autunno è tuttavia dovuto non alla noncuranza di un pericolo realmente esistente, bensì ad un’esecrabile incoscienza da parte di chi - tramite film e vignette - ha accuratamente riversato benzina in abbondanza per sollevare le fiamme della suscettibilità musulmana.
I “diplomatici” francesi - responsabili dell’ultima scena di questo film vista troppe volte - fanno appello alle libertà di espressione, libertà personale inviolabile, tanto nel Paese del Légalité, Egalité, Fraternité quanto nel resto del mondo.
Si tratta di un diritto sacrosanto - non si mette in dubbio - ma davanti ad una situazione in cui un diritto viene posto come giustificazione di violenze una domanda sorge spontanea: si tratta veramente di libertà di espressione? E se così fosse, dove ci si può spingere all’insegna di tale libertà? Abbiamo definito - senza alcun timor di essere contraddetti - incosciente la pubblicazione da parte dell’ormai celebre rivista francese delle vignette satiriche su Maometto; coscienziosità dunque: ecco ciò che sarebbe bastato per evitare di trovarci ancora una volta a vestire i panni di pompieri di un incendio evitabile che riscalderà nostro malgrado autunno e inverno.

Popolo Italiano: corri alle armi!


Il discorso in analisi è di una tale notorietà che appare superflua ogni precisazione cronologico - temporale se non semplicemente luogo e giorno: Roma, Piazza Venezia, 10 giugno 1940. L’Italia non sarà mai più la stessa dopo questa data, né mai più vedrà una tale partecipazione popolare a decisioni politiche. Il Duce parla alla Nazione, Piazza Venezia è gremita, si riempiono centinaia di piazze in tutto il Paese dove grazie alla radio le parole di Mussolini poterono risuonare anche a centinaia di chilometri di distanza.La decisione di entrare in guerra era stata presa nei giorni immediatamente precedenti e gli italiani ne erano certamente a conoscenza: nonostante ciò furono milioni e milioni le persone che ascoltarono con il cuore in gola il messaggio del Capo del Governo, comprese migliaia di emigrati oltreoceano; la prima figura ad apparire sul celebre balcone non è però quella di Mussolini, bensì quella di Ettore Muti, segretario di Partito, che saluta il Duce.

Facce da Regime

Riscattare l’uomo da un’esistenza mediocre, attraverso l’attivismo di una vita vissuta come una conquista nella più totale esaltazione della propria volontà: questa la quintessenza del Fascismo, questo il motivo dei suoi larghi consensi nel ceto medio, quello, cioè, che meglio di ogni altro, soffriva il grigiore piccolo-borghese. La Marcia su Roma non si limitò a stravolgere l’assetto istituzionale d’Italia: sul piano ideologico, fu, infatti, in grado di rispondere al principio di uguaglianza di tutti i cittadini, ignorato dallo stato liberale, non con la mortificazione dell’individualità, come in Unione Sovietica,  ma con il rivoluzionario progetto di fare di ciascun individuo un’intrepida figura a metà tra il superuomo dannunziano e l’eroe classico. Nacque così il mito dell’uomo fascista che, moschetto in braccio, affronta, sprezzante, il pericolo e la morte. Un mito così permeante il Ventennio da non rimanere semplice tema della propaganda, ma da venir realmente incarnato da molti uomini che del regime furono protagonisti.
"Gim dagli occhi verdi"
Facce di personaggi totalmente votati alla causa fascista, divinità minori di un pantheon dominato, ovviamente, da Benito Mussolini e dal suo carisma. Tra le loro effigi spicca, sbarazzina, quella di Ettore Muti, “Gim dagli occhi verdi”, come lo soprannominò nientemeno che il vate ed ispiratore dei miti dell’Italia fascista, Gabriele D’Annunzio. Classe 1902, Muti, espulso, l’anno prima, da tutte le scuole del Regno per un pugno ad un professore, a 14 anni, dopo un tentativo fallito, riuscì ad arruolarsi negli Arditi sotto falso nome e a prendere parte alla Prima Guerra Mondiale: si sarebbe addirittura guadagnato una medaglia al valore se non fosse stata scoperta la sua vera identità. A guerra finita, partecipò all’Impresa di Fiume durante la quale rimase affascinato proprio da Mussolini che seguirà nella Marcia su Roma. Fu uno dei più grandi aviatori dell’epoca fascista come dimostrò nella campagna di Etiopia, nella Guerra in Spagna (dove meritò il soprannome di “Cid alato”) e nella II Guerra Mondiale. Eloquente la sua morte: venne ucciso il 24 agosto 1943 dai Carabinieri a Fregene per ordine di Badoglio, in quanto sospettato di aver organizzato un golpe per riportare Mussolini a Roma. Una vicenda esistenziale connotata oltre che dalla violenza e dalla follia,  dal coraggio e dall’avventura: caratteristiche tipiche dell’eroe fascista che il mondo intero, non solo la propaganda di regime,  ammirò nella persona di Italo Balbo, il barone rosso italiano, rimasto famoso per le proprie trasvolate oceaniche. A cavallo del 1930-31, dopo aver attraversato il Mediterraneo in aereo, volò da Orbetello a Rio de Janeiro. Due anni dopo, ripetè l’impresa con la Crociera Aerea del Decennale dell’Aviazione Regia: passando per l’Islanda, volò dall’Italia a Chicago, dove gli venne intitolata la 7th Avenue. Sulla via del ritorno passò per New York, dove, oltre ad essergli intitolata un’altra via, incontrò Roosevelt e venne organizzata una parata in suo onore. Ad alimentare il suo mito, la misteriosa morte, la quale coincise con l’ultimo viaggio aereo: il 28 giugno 1940, a Tobruk (Libia), il suo aereo, con a bordo il padre dello scrittore Folco Quilici, scambiato dall’incrociatore “San Giorgio” per un mezzo nemico, venne abbattuto. Gli Inglesi, il giorno dopo, paracadutarono sul campo italiano un messaggio di condoglianze per la morte di un aviatore l’ammirazione per il quale andava anche oltre l’odio per il nemico.
Italo Balbo
Tutt’altro il carattere di Alessandro Pavolini, un uomo a metà strada tra genio e follia, il cui intelletto precoce e brillante sempre si accompagnò ad uno sguardo luciferino, incapace di tradire la crudeltà dell’ideatore dei “franchi tiratori”, i cecchini incaricati di sparare persino alle donne che uscivano di casa a prendere l’acqua, durante l’assedio degli Alleati alle roccaforti fasciste. A soli 8 anni Pavolini scrisse a favore della Guerra di Libia (1911),  mostrando indubbie doti intellettive e letterarie, consacrate dalle due lauree prese in Giurisprudenza e Scienze Sociali. Fu tra i redattori del Manifesto della Razza nel ’38 e Ministro del MINCULPOP a partire dall’anno successivo. Nella totale esaltazione di burattinaio di un’informazione ridotta a propaganda persino la sua grammatica perse i colpi, andando incontro a clamorosi infortuni linguistici, mentre il delirio del potere lo portò ad usare l’incarico pubblico per diffondere notizie che smentissero la sua relazione con Doris Duranti, l’amante che lo seguì anche a Salò. Nella cittadina lombarda fu membro di spicco del Governo Repubblichino per il quale ideò le famigerate Brigate Nere ed organizzò il famoso piano di salvataggio del ridotto della Valtellina, prima di incontrare una fine analoga a quella del duce: il suo cadavere, come quello di Mussolini, venne appeso in Piazzale Loreto. Unico sopravvissuto al duce, tra gli eroi del Ventennio, fu il Generale Rodolfo Graziani: il leone africano italiano degno di essere accostato alla volpe del deserto tedesca, Erwin Rommel. Dalla Libia all’Etiopia, sotto il suo comando le truppe italiane conquistarono il famoso “posto al sole”. La “riconquista della Tripolitania”, nel 1924, valse a lui, membro di una famiglia borghese, la tessera honoris causa del PNF. Nel ’30 venne nominato dal duce governatore della Cirenaica, mentre la sua consacrazione coincise con la Guerra d’Etiopia (1935-36) nella quale si distinse per il cinismo con cui predispose l’uso dell’iprite. 
Rodolfo Graziani
Dell’Etiopia, possedimento del re-imperatore Vittorio Emanuele III, divenne Vicerè, incarico che interpretò con tutta la freddezza marziale che gli apparteneva, non omettendo, anche in questa occasione, di mettere in atto modalità di repressione dell’opposizione indigena, brutale quanto i crimini commessi nella guerra. Scampato miracolosamente a ben 9 bombe in un attentato nel ‘37 ad Addis Abeba, dopo la fallimentare campagna d’Egitto, venne destituito da ogni incarico per circa 2 anni. Fu grande protagonista, invece, della  RSI come Ministro della Difesa e principale promotore dell’esercito repubblicano, predisponendo la condanna a morte per la renitenza alla leva obbligatoria. Catturato dagli Alleati, venne sottoposto, dopo la Guerra, a vari processi per le sue responsabilità nel fascismo, accuse dalle quali venne in parte scagionato giacchè militare, e dunque vincolato all’obbedienza agli ordini dei superiori. Nel ’52, ormai postumo di se stesso, aderì al Movimento Sociale Italiano. Molti altri i volti del regime che in un modo o nell’altro generarono impressione ed ammirazione nelle menti degli Italiani: il generale Emilio De Bono, capace di affrontare la fucilazione con una tale fermezza stoica da dire ai propri giustizieri “Mi fregate di poco: ho 68 anni!”; il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, famoso per l’opposizione “in casa” al duce; il professor Gentile, teorico del regime; Alfredo Rocco, il giurista con la concezione hegeliana dello Stato: uomini nei quali tratti di genio, intraprendenza e patriottismo, convivevano con cecità, follia e un’attrazione per la violenza, priva del benché minimo barlume di carità cristiana.
Questi i frutti di un regime che, come recitava l’inno “Giovinezza”, volle fare degli Italiani un popolo di eroi, riuscendo, meglio di ogni altro, ad incarnare le più segrete ambizioni di una generazione tradita dalla democrazia e dal grigiore borghese, nell’intrepida (ma falsa) immagine di esaltati avventurieri in camicia nera.

Rosario Livatino, martire della giustizia e della fede

Agrigento. La terra dei templi. La terra di Pirandello, Sciascia e Camilleri. Una terra che oggi ricorda il magistrato Rosario Livatino, ucciso 22 anni fa in un agguato di mafia. Era un caldo venerdì di fine estate in quel lontano 1990. Il terribile biennio del '92-'93 era ancora lontano, ma - si sa - nulla nasce dal nulla. La Strada Statale 640 era stata teatro nel 1988 dell'agguato mortale a Antonino Saetta, in cui perse la vita anche il figlio Stefano: questo omicidio non ha avuto alcuna risonanza né l'anniversario della sua morte - 25 settembre - viene ricordato quanto merita. L'omicidio Saetta rappresenta una svolta nelle stragi di mafia, perché per la prima volta Cosa Nostra colpisce un magistrato giudicante, non inquirente; il messaggio è forte e chiaro: anche solamente appartenere ad un organo di giustizia rappresenta un buon motivo per essere uccisi.

Rosario Livatino è al volante della sua Ford Fiesta color amaranto quando viene raggiunto dai suoi killer: la prima pioggia di piombo lo lascia quasi illeso, colpendolo solamente alla spalla e permettendogli di abbandonare la macchina e tentare una disperata fuga oltre il guardrail. Braccato dai suoi killer viene raggiunto da una nuova raffica di proiettili, questa volta fatale. Dietro al Giudice Ragazzino - così fu ribattezzato Livatino dopo la morte - viaggiava sulla sua Lancia Thema Pietro Nava, che poté assistere all'agghiacciante agguato e testimoniare coraggiosamente al processo; la sua testimonianza fu decisiva, ma lui non poté più tornare al suo paese, né il suo nome comparì più negli elenchi telefonici: una storia tutta italiana, di una giustizia che ancora non riesce a protegge chi per amore della giustizia stessa mette a repentaglio la vita propria e dei propri cari.

Quando le forze dell'ordine raggiunsero il luogo dell'omicidio Livatino, vennero ritrovati accanto al corpo del magistrato i suoi occhiali e la sua agenda: sulla prima pagina tre lettere, S.T.D. Gli inquirenti si interrogheranno a lungo sul significato di queste lettere, congetturando ipotesi su ipotesi, mentre a casa sua tutti sapevano benissimo la verità. Sulla sua tesi Rosario aveva voluto ringraziare ovviamente i genitori e i suoi cari, ed aveva aggiunto sotto ai ringraziamenti una giaculatoria: SUB TUTELAM DEI, sotto la tutela di Dio. Chi lo conosceva afferma che lui dava una doppia interpretazione a questa frase; oltre a quella già citata se ne propone un'altra, basata sull'etimologia della parola "tutelam", che proviene dal verbo "tueor", che significa osservare, guardare: Livatino voleva ricordare a sé stesso di essere in ogni istante sotto lo sguardo allo stesso tempo paterno e giudice di Dio, al cospetto del quale non sfugge nulla dell'animo umano. In una delle sue famose agendine - tutte segnate con la stessa sigla - si legge: "Quando moriremo non ci verrà chiesto quanto siamo stati credenti, ma quanto simo stati credibili".

È in corso il processo di beatificazione del Servo di Dio Rosario Livatino, "martire della giustizia e della fede" come lo definì Giovanni Paolo II in occasione di un incontro con i genitori nel 1993.

Aborto: quel miliardo di morti che l'ideologia non riesce a nascondere



La Seconda Guerra Mondiale rappresenta sicuramente gli anni più sanguinosi dell’intera storia umana: oltre agli anni ‘39 - ‘45 - i sei anni di guerra ufficiale - vanno presi in considerazione anche le violente scie di sangue che si sono trascinate a lungo, soprattutto nell’Europa dell’Est, dove prima la dominazione sovietica e poi la caduta stessa dell’URSS non poterono evitare violenze e spargimenti di sangue. I caduti in guerra negli anni ’39 - ’45 rappresentano un tristissimo record, con i suoi 50 milioni di vite spezzate. Si tratta di una cifra raccapricciante, ancor di più alla luce di un recente studio che quantifica le morti causate da guerre, genocidi, stragi e violenze di ogni sorta in tutta la nostra storia, dalla Guerra del Peloponneso a quelle del Golfo, passando per quelle puniche e quelle napoleoniche: i dati più ottimistici stimano 150 morti, quelli più tetri sfiorano i 200 milioni. Quasi un terzo dunque sono state causate dalla Seconda Guerra Mondiale, quasi la metà nell’ultimo secolo, considerando anche la Grande Guerra.
E tuttavia esiste un’altra causa di morte che strappa ai conflitti dell’ultimo secolo questo funereo record: stando ai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 1997 ad oggi nel mondo sono stati autorizzati 53 milioni di aborti l’anno, per un totale in oramai 16 anni di quasi un miliardo di vite spente egoisticamente sul nascere. In ogni singolo anno di questi tre lustri sono stati mandati a morte legalmente lo stesso numero di persone che nell’intera Seconda Guerra Mondiale, senza che nessun Processo di Norimberga emettesse alcuna sentenza né condanna, anzi: questo vero e proprio genocidio è stato autorizzato, legalizzato ed incoraggiato dalle istituzioni civili, con una vergognosa incoerenza che nemmeno una propaganda ideologia riesce a camuffare.
Una propaganda ideologica che non ricorda - o meglio, non vuole ricordare - che l’aborto viene legalizzato in origine nei più terribili totalitarismi dell’ultimo secolo: la nascente URSS e il Terzo Reich nazista. Nel 1917 la rivoluzione comunista, considerando la famiglia come tipica dell’ingiusto e corrotto mondo borghese, non la considera un istituto naturale, ma un bisogno creato dalla storia; l’abolizione della proprietà privata corrisponde - per Lenin, Dom Deschamps, Fourier, Marx, Babeuf, Morelly e via discorrendo - l’abolizione dei rapporti familiari e autorizza quindi tanto l’aborto quanto il divorzio.
La Germania di Hitler sembra avere delle motivazioni probabilmente meno filosofiche e più semplicemente appartenenti ad un’ideologia nazionalistica dominante: la prima famiglia non è quella in senso stretto, ma lo Stato, il Popolo tedesco, la Razza Ariana. Per lo Stato la gioventù deve essere forte, sana e vigorosa: come a Sparta si aveva la barbara consuetudine di esporre i bambini deformi, così Hitler autorizza l’eliminazione di ogni individuo che possa “disonorare” con le sua malformazioni la pura razza ariana.
La strana storia che si narra oggi vede in Hitler e Stalin che legalizzano l’aborto, due pazzi nemici dell’umanità dall’indicibile violenza, mentre quando la stessa scelta viene presa dall’Europa e da tutto il mondo Occidentale si canta la vittoria dei diritti umani e delle libertà personali individuali: incoerenza - diremmo - ma in fondo non è altri che l’ideologia contorta che appanna la nostra vista primeggiando ogni giorno su giornali, televisione, libri, aule di scuola e sale di governo.

La Breccia di Porta Pia: un sopruso mistificato

20 settembre 1870: si consuma la Breccia di Porta Pia, un evento festeggiato dalla retorica risorgimentale come la trionfale battaglia con cui Roma venne restituita alla sua legittima posizione di capitale di un’Italia, di cui poteva essere considerata madre culturale e massima espressione storica. I Romani, invece, non poterono fare a meno di attribuire alla presa di Roma, lo straripamento del Tevere proprio gli ultimi giorni di quel 1870, macchiato dalla profanazione del cuore della Cristianità. Una credenza popolare che testimonia la timida accoglienza da parte dei cittadini romani della “liberazione dal governo dei preti” (come venne presentata dai liberali) nonché la totale mancanza di una reale spinta unitaria dal basso. Il giornalista Ugo Pecci, entrato in Roma con l’esercito piemontese quel giorno, riportò: “Noto prima di ogni altra cosa la mancanza assoluta di qualunque entusiasmo (…) Sette o otto reggimenti di fanteria traversano le strette vie della città colla musica. Nessun saluto, nessun sorriso, pianti si, molti”. Una testimonianza simile a quella del rivoluzionario Vittorio Ferrari, il quale, in riferimento al fallito tentativo di insurrezione interna cui aveva partecipato nel 1867, l’anno della battaglia di Mentana, scrisse: “Verso sera proprio nell'ora in cui il corso di Roma è più animato, lo spettacolo che si offriva al passaggio della berlina papale era quello di un'onda marina procedente e maestosa. Tutta la gente sostava e si sistemava a terra di mano in mano che la carrozza procedeva. E così via fino a Porta del Popolo. Noi ci fissammo in viso l'un l'altro come estatici a quello spettacolo: quando rinvenimmo dallo stupore, ci domandammo: "Che siamo venuti a fare noi ?!?”
Una foto della breccia, visibile a destra
Parole che manifestano l’unilateralità della conquista sabauda a livello sia ideologico che militare, dato che le truppe pontificie avevano ordine di non rispondere al fuoco ma di retrocedere progressivamente difronte al nemico in modo tale da dimostrare il carattere illegittimo dell’aggressione piemontese ad un potere millenario quale quello papale. Rifiutato da parte di Pio IX l’ultimatum del 10 settembre, nel quale Vittorio Emanuele II, facendo buon viso a cattivo gioco, esplicitava: “l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine”, i bersaglieri cinsero d’assedio la città alle 5 del mattino del 20 settembre, in previsione di una trionfale entrata il giorno successivo, il 21, anniversario della prima repubblica giacobina. Le truppe del generale Raffaele Cadorna, cercarono di forzare Porta Pia e Porta San Pancrazio, mentre il generale Bixio, già dirimpettaio di Garibaldi nell’impresa dei Mille, alle 6:35 cominciò a cannoneggiare direttamente San Pietro, tanto che molti proiettili finirono nei giardini vaticani. Il papa, definendolo un “novello Attila, intenzionato a buttare nel Tevere la Curia Romana”, dopo aver annunciato ai rappresentanti delle nazioni cattoliche la decisione di arrendersi per evitare inutili spargimenti di sangue, fece issare la bianca bandiera della resa sopra la cupola di San Pietro.
Ma la Storia aveva bisogno di una presa teatrale, da poter paragonare a quelle di Troia o di Cartagine, e così, mentre Bixio continuava il personale tentativo di ridurre il centro della Cristianità ad un cumulo di macerie (in modo del tutto ingiustificato dagli stessi piemontesi), i bersaglieri, a Porta Pia, anziché usare la maniglia (l’accesso era stato lasciato libero dalle arrese truppe pontificie), vollero aprire una breccia mediante l’uso di esplosivo. Nella calca dell’assalto, venti bersaglieri rimasero sul campo, colpiti dal fuoco amico o calpestati da altri compagni – giacchè Roma andava conquistata di corsa, come nel proverbiale stile del reparto -. Una volta entrati, occuparono le caserme, i ministeri, i tribunali e la zecca, appostando sul Gianicolo e a Castel Sant’Angelo batterie di cannoni puntati sul Vaticano. Il papa era stato fatto prigioniero e la sua Roma ridotta da centro universale dell’orbe cattolico a capitale di uno staterello, messo su dagli intrighi massonici e dotato di norme fortemente anticlericali, con un atto più simile ad un arrembaggio che ad un’azione militare. A tal proposito è significativo ricordare che il generale Raffaele Cadorna, nel 1880, X anniversario della “Breccia di Porta Pia”, si rifiutò categoricamente di partecipare ai festeggiamenti in ricordo di una “battaglia disonorevole, inutile e sacrilega” e che lo stesso Regno d’Italia, in seguito ad un’aggressione oggettivamente illegittima (nessun principe europeo poteva vantare un potere più antico di quello papale), incorse in un lungo isolamento internazionale. Fatti che mostrano la spaccatura tra la realtà dei fatti, avvertita dai diretti osservatori, e la mistificazione che venne fatta dalla retorica risorgimentale di un atto, utile a nulla più che mettere a Roma, depositaria della cultura occidentale, al posto del papa, un re che fece vanto di aver letto un solo libro in vita sua: il regolamento militare. Il risultato lo vediamo nell’ottusa volgarità delle costruzioni spuntate come funghi all’indomani del 1870, in una sfrontata speculazione edilizia che cancellò le forme rinascimentali della Città Eterna e la privò dei suoi verdi e numerosi giardini, facendone la grigia bancarella che è oggi.

Dante il cristiano islamico



L'icona del cristianesimo medievale, il fondatore della letteratura italiana. Se qualcuno ci dicesse che ha subito grandi influssi dalla cultura araba e islamica faremmo fatica a credergli. Forse ne faremmo di meno se a parlarcene fossero i docenti universitari che hanno condotto un approfondito studio a riguardo.
Tuttavia per poter anche solo pensare che il Sommo Poeta abbia avuto contatti con l'Islam risultano necessarie alcune precisazioni. Bisogna in primis ricordare che nel XIII secolo l'Islam non veniva considerato una religione a sé, bensì come una forma di eresia cristiana: avvicinarsi ad esso non era dunque così difficilmente pensabile come avvicinarsi ad una religione diversa dal cristianesimo.
Sorge poi spontanea la domanda sull'anello di congiunzione fra l'Alighieri e la letteratura araba: di anelli ne esistono diversi, che portano Dante a conoscenza del Libro della Scala, libro musulmano che narra il viaggio del profeta Maometto nei regni ultramondani, Inferno e Paradiso - ricordiamo che il Purgatorio fu "invenzione" dantesca. Dante ovviamente non conosceva l'arabo e la sua conoscenza del celebre libro arabo non poté che essere indiretto: venne tradotto in castigliano e poi nel 1264 in latino da un italiano nella scuola di Toledo - voluta e finanziata dal re Alfonso X -, Bonaventura da Siena, che, sebbene italiano e toscano come Dante, non ebbe mai modo di conoscerlo. Ancora una volta la conoscenza di Dante fu indiretta, mediata dal suo maestro, Brunetto Latini: questi conobbe il Libro della Scala quando - grazie alle sue conoscenze in Spagna, sia a Toledo che a Oviedo - risiedette alla corte dell'amico Alfonso in contemporanea con il nostro Bonaventura da Siena. Si chiude così questa catena che lega il fiorentino cattolico Dante con l'arabo islamico Libro delle Scale, con la mediazione di Brunetto Latini, Alfonso X, Bonaventura da Siena ed I traduttori dall'arabo al castigliano rimasto ignoti.
Le analogie fra la Commedia dantesca e il Libro della Scala non si limitano al comune tema del viaggio ultraterreno, ma comprendono anche altri aspetti: su tutti uno dei più evidenti è riscontrabile nel canto XXVI dell'Inferno in occasione dell'incontro fra Dante e Ulisse. La celebre citazione delle colonne d'Ercole, considerate un limite invalicabile, né è una chiara conferma: né i latini né i greci avevano questa idea dello stretto di Gibilterra, furono gli arabi a voler diffondere questa credenza per limitare le zone di rilievo del commercio marittimo al solo Mediterraneo, quasi completamente sotto il controllo arabo.

Oltre a Dante furono in molti a riprendere questa tradizione, fino a farla considerare oggigiorno una tradizione intoccabile della cultura europeo-mediterranea: le prime tracce di tale consolidata usanza nel tardo medioevo nacque in verità da un'enorme statua del profeta Maometto che, indicando con una mano la direzione dello stretto, nega il passo con l'altra mano. Ma d'altronde, se anche l'insospettabile Commedia è penetrata dalla cultura araba, non c'è da stupirsi se abbiamo attribuito per anni agli antichi una credenza araba sorta solo diversi secoli più tardi.

17 settembre 1939: quando la Polonia divenne comunista



Ci siamo già soffermati in più di un’occasione in questo blog sulla triste e dimenticata storia della Polonia durante la Seconda Guerra Mondiale, ma, in occasione del 73° anniversario dell’invasione da parte dei sovietici ci sentiamo in dovere di dedicare ancora una pagina a questa terra di santi dell’ultimo secolo.
L’unica colpa della Polonia era quella di trovarsi fra l’Unione Sovietica e la Germani di Hitler: questa colpa divenne ancor più grave quando il Terzo Reich decise di dare inizio alla Campagna di Polonia il 1° settembre. La facile occupazione nazista della parte occidentale del paese ebbe come reazione l’invasione della parte orientale da parte di 466 000 soldati, 3 470 carri armati e 2 000 aerei sovietici: la motivazione di questa decisione non è data storicamente per certa ma varia fra il timore di un’eccessiva vicinanza delle truppe di Hitler da Mosca - che dimostrerebbe la scarsa fiducia da entrambe le parti circa il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop - e le semplici mire espansionistiche dell’Unione Sovietica; questa seconda tesi sembra più realistica, in quanto, alla fine del conflitto l’URSS fece di tutto per non perdere questo territorio, al pari della Finlandia occupata  negli stessi anni.
La definitiva condanna per la Polonia fu decretata dall’astensione dall’intervenire da parte della Francia e della Gran Bretagna e dal grave errore strategico del già scarso e poco attrezzato esercito polacco che fu distribuito su una linea difensiva troppo ampia, affrontando come guerra di trincea una guerra che si sarebbe invece decisa con un accerchiamento da parte dei tedeschi e dei russi penetrati fino alle retrovie per cogliere alle spalle l’intero esercito.
In rosso i confine fra la Polonia nazista e comunista.
La contemporanea occupazione sovietico-nazista non durò molto e costrinse la popolazione polacca a subire anche le sanguinose conseguenze della guerra che ne scaturì, fra russi e tedeschi in territorio polacco: durante l’intera Seconda Guerra Mondiale perirono oltre sei milioni di polacchi, la cultura e l’intera nazione polacca fu messa a serio rischio dalle intenzioni tanto dei nazisti quanto dei comunisti di cancellare la Polonia dalla geografi europea.

La Polonia, al pari di molte altre nazioni dell’Europa dell’Est visse tragicamente il dopoguerra, soffrendo il controllo comunista fino a quando nel 1989 Solidarnosc non riuscì a vincere le elezioni dopo aver eroso dall’interno l’egemonia del partito comunista in Polonia: nel 1990 Lech Walesa divenne il primo presidente eletto polacco, ma gli strascichi di quasi mezzo secolo di dominio straniero continuarono ancora per molto e forse ancora oggi persistono, soprattutto in un’economia che è stata rifondata dalle origini solo venti anni fa.

Il parto della Repubblica e i brogli del 2 giugno



La nascita della Repubblica Italiana, il sogno politico di Mazzini, il peggior incubo dei Savoia, un evento storico le cui controverse vicende gettano ancora ombre sull’inconfessabile probabilità di un broglio elettorale in occasione del referendum istituzionale che decretò la fine della monarchia. Una data quella del 2 giugno, scelta all’epoca poiché anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, che, nonostante tutto, festeggiamo, riconoscendo in essa la ri-nascita della patria. L’uscita dalla dolorosa esperienza della guerra civile, al contrario di quanto accadde per l’antica Roma, significò per l’Italia il passaggio dalla dittatura alla democrazia nonchè una totale rottura ideologica con un triste passato da dimenticare e riscattare. Tra gli elementi troppo compromessi con il Fascismo da poter passare indenni le epurazioni indette persino contro maestre e segretarie: coloro che di Mussolini avevano permesso l’ascesa: i Savoia. Per questo motivo, Vittorio Emanuele III il 9 maggio abdicò, come Carlo Alberto a Novara nel 1849, a favore del figlio, Umberto II, un nome legato a presagi tutt’altro che  propizi. Il secolo XX, infatti, era stato battezzato funesto per l’Italia, proprio col sangue di re Umberto I, assassinato a Monza nel 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci. Con l’abdicazione la corona sperò di riaccreditarsi agli occhi degli Italiani, attraverso un’immagine più fresca di quella di un re colluso con il Fascismo e fuggito nell’ora della prova per la patria; le forze della Resistenza, invece, considerarono finita la tregua istituzionale aperta da Togliatti a Salerno e indirono il referendum del 2 e 3 giugno, contestualmente all’elezione dei membri dell’Assemblea Costituente. Fu la prima volta alle urne per le donne italiane e si pensò che anche questo avrebbe contribuito ad una vittoria annunciata della Repubblica, dato l’orientamento in tal senso delle maggiori forze politiche: non solo le Sinistre per una lunga tradizione ideologia ma anche la moderata Democrazia Cristiana, come nelle intenzioni di De Gasperi e come emerso da un piccolo referendum interno.
La scheda di voto del Referendum Istituzionale
 A tal proposito lo statista democristiano scommise con Pietro Nenni, leader del Partito Socialista, che il suo Trentino avrebbe portato alla Repubblica più voti dell’Emilia Romagna, regione natale di quest’ultimo: le urne gli dettero ragione, come dettero ragione alla causa repubblicana. Eppure lo scarso margine con la Monarchia, nemmeno 2 milioni di voti, fu minore rispetto alle aspettative, certo più incoraggianti se si considera quel rinnovamento generale preconizzato dalla volontà di rompere con il passato. L’arrivo a Roma, nella notte, dei risultati dello spoglio dei voti nelle circoscrizioni meridionali, fece scrivere a De Gasperi, all’alba del 4 giugno, che sic stantibus rebus era plausibile una vittoria monarchica. Il giorno successivo, tuttavia, il Ministro Giuseppe Romita, annunciò i risultati definitivi: Repubblica 12.182.155 voti, Monarchia 10.362.709. Inizialmente anche i Savoia accettarono con rassegnata accoglienza l’esito elettorale, mentre due giorni dopo alcuni giuristi di Padova presentarono ricorso per i brogli intercorsi nella fase di scrutinio. Si pensò che gli scrutatori inviati nelle varie circoscrizioni dal Ministro di Grazia e Giustizia, Togliatti (convinto repubblicano) avessero, di volta in volta, operato dei piccoli brogli, variando i risultati a favore della Repubblica in modo tale, tuttavia, da non influenzare l’andamento generale della particolare circoscrizione: sommando tutti questi contributi potè essere raggiunta la cifra dei 2/2.5 milioni di voti decisivi. Una simile ricostruzione sarebbe permessa dalla mancanza di supervisori alle operazioni di spoglio che la legge imponeva, in nome di un’assoluta segretezza. Ad alimentarla furono la fretta con cui si bruciarono le schede, la scomparsa di un milione e mezzo di schede bianche (da conteggiare a favore della monarchia così come i voti nulli) e il modo del tutto singolare, benché procedurale, con cui il Presidente della Cassazione, Giuseppe Pagano, il 10 giugno annunciò il risultato: leggendo il totale dei voti a favore dell’una e dell’altra parte ma non proclamando il vincitore. Il segretario di Togliatti, Caprara, racconterà che una simile modalità di annuncio alla nazione era stato ordinato dallo stesso Togliatti, il 5 giugno. 
Umberto II, "il re di maggio"
Ciò potrebbe accreditare la tesi dei brogli, mostrando la coscienza poco pulita del leader del PCI e dunque la necessità di non mostrare troppo il misfatto. Tuttavia Togliatti agì così poiché era pienamente consapevole dell’incertezza del risultato e dunque della necessità di ulteriori verifiche e ricorsi. Andava altresì tenuto conto della delicatezza del momento storico: quasi la metà degli Italiani era fedele ai Savoia e quindi era bene non sbandierare troppo una vittoria repubblicana, consumatasi tra mille sospetti, per evitare l’insorgere di insurrezioni popolari come quelle che effettivamente avvennero nel Meridione e che solo nella monarchica Napoli causarono 4 morti. Inoltre la tesi di tanti piccoli brogli trova un sostanziale ostacolo nel fatto che dei complici e testimoni dell’impercettibile ma costante spostamento dei voti a favore della repubblica nelle varie circoscrizioni, nessuno negli anni successivi confessò il fatto o fece emergere nulla: cosa improbabile dato l’enorme numero di coloro che avrebbero, ipoteticamente, partecipato al broglio e la facile fama che si sarebbero guadagnata con una testimonianza, capace di riscrivere le pagine della Storia Italiana. E ancora, la tesi dei brogli troverebbe un’inimpugnabile confutazione nella contestuale schiacciante vittoria dei partiti repubblicani alle elezioni per l’Assemblea Costituente (2/3 dei voti vennero raccolti da DC, PSUP e PCI). Ciononostante non mancarono certo scelte azzardate e polemiche come la frettolosa cacciata del re quando ancora il risultato del referendum era provvisorio e la Cassazione doveva pronunciarsi sulla denuncia dei brogli. Umberto II, che pure partì in aereo nonostante una tempesta, si disse cacciato da un governo che avrebbe in spregio alle leggi ed al potere sovrano e indipendente della magistratura, compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con atto arbitrario e unilaterale poteri che non gli spettavano. De Gasperi rispose: Un periodo che non fu senza dignità si chiude con una pagina indegna. Un’affermazione che mostra l’asprezza del dibattito politico e la sincera paura da parte della Costituente che il re avrebbe potuto dar vita ad un altro Governo, rigettando il Paese nella Guerra Civile, come quella che si sfiorerà nuovamente, due anni dopo, con l’attentato a Togliatti. Fatti che mostrano il carattere affatto roseo dell’uscita dalla guerra e dal Fascismo e il dramma della costruzione di una nuova Italia che, più di ogni altra nascita, passò per le dolorose doglie del parto.