Riscattare
l’uomo da un’esistenza mediocre, attraverso l’attivismo di una vita vissuta
come una conquista nella più totale esaltazione della propria volontà: questa
la quintessenza del Fascismo, questo il motivo dei suoi larghi consensi nel
ceto medio, quello, cioè, che meglio di ogni altro, soffriva il grigiore
piccolo-borghese. La Marcia su Roma non si limitò a stravolgere l’assetto
istituzionale d’Italia: sul piano ideologico, fu, infatti, in grado di
rispondere al principio di uguaglianza di tutti i cittadini, ignorato dallo
stato liberale, non con la mortificazione dell’individualità, come in Unione
Sovietica, ma con il rivoluzionario
progetto di fare di ciascun individuo un’intrepida figura a metà tra il
superuomo dannunziano e l’eroe classico. Nacque così il mito dell’uomo fascista
che, moschetto in braccio, affronta, sprezzante, il pericolo e la morte. Un
mito così permeante il Ventennio da non rimanere semplice tema della
propaganda, ma da venir realmente incarnato da molti uomini che del regime
furono protagonisti.
"Gim dagli occhi verdi" |
Facce di personaggi totalmente votati alla causa fascista,
divinità minori di un pantheon dominato, ovviamente, da Benito Mussolini e dal
suo carisma. Tra le loro effigi spicca, sbarazzina, quella di Ettore Muti, “Gim
dagli occhi verdi”, come lo soprannominò nientemeno che il vate ed ispiratore
dei miti dell’Italia fascista, Gabriele D’Annunzio. Classe 1902, Muti, espulso,
l’anno prima, da tutte le scuole del Regno per un pugno ad un professore, a 14
anni, dopo un tentativo fallito, riuscì ad arruolarsi negli Arditi sotto falso
nome e a prendere parte alla Prima Guerra Mondiale: si sarebbe addirittura
guadagnato una medaglia al valore se non fosse stata scoperta la sua vera
identità. A guerra finita, partecipò all’Impresa di Fiume durante la quale
rimase affascinato proprio da Mussolini che seguirà nella Marcia su Roma. Fu
uno dei più grandi aviatori dell’epoca fascista come dimostrò nella campagna di
Etiopia, nella Guerra in Spagna (dove meritò il soprannome di “Cid alato”) e
nella II Guerra Mondiale. Eloquente la sua morte: venne ucciso il 24 agosto
1943 dai Carabinieri a Fregene per ordine di Badoglio, in quanto sospettato di
aver organizzato un golpe per riportare Mussolini a Roma. Una vicenda
esistenziale connotata oltre che dalla violenza e dalla follia, dal coraggio e
dall’avventura: caratteristiche tipiche dell’eroe fascista che il mondo intero,
non solo la propaganda di regime, ammirò
nella persona di Italo Balbo, il barone rosso italiano, rimasto famoso per le
proprie trasvolate oceaniche. A cavallo del 1930-31, dopo aver attraversato il
Mediterraneo in aereo, volò da Orbetello a Rio de Janeiro. Due anni dopo,
ripetè l’impresa con la Crociera Aerea del Decennale dell’Aviazione Regia:
passando per l’Islanda, volò dall’Italia a Chicago, dove gli venne intitolata
la 7th Avenue. Sulla via del ritorno passò per New York, dove, oltre ad
essergli intitolata un’altra via, incontrò Roosevelt e venne organizzata una
parata in suo onore. Ad alimentare il suo mito, la misteriosa morte, la quale
coincise con l’ultimo viaggio aereo: il 28 giugno 1940, a Tobruk (Libia), il
suo aereo, con a bordo il padre dello scrittore Folco Quilici, scambiato
dall’incrociatore “San Giorgio” per un mezzo nemico, venne abbattuto. Gli
Inglesi, il giorno dopo, paracadutarono sul campo italiano un messaggio di
condoglianze per la morte di un aviatore l’ammirazione per il quale andava
anche oltre l’odio per il nemico.
Italo Balbo |
Tutt’altro
il carattere di Alessandro Pavolini, un uomo a metà strada tra genio e follia,
il cui intelletto precoce e brillante sempre si accompagnò ad uno sguardo
luciferino, incapace di tradire la crudeltà dell’ideatore dei “franchi
tiratori”, i cecchini incaricati di sparare persino alle donne che uscivano di
casa a prendere l’acqua, durante l’assedio degli Alleati alle roccaforti
fasciste. A soli 8 anni Pavolini scrisse a favore della Guerra di Libia
(1911), mostrando indubbie doti
intellettive e letterarie, consacrate dalle due lauree prese in Giurisprudenza
e Scienze Sociali. Fu tra i redattori del Manifesto della Razza nel ’38 e
Ministro del MINCULPOP a partire dall’anno successivo. Nella totale esaltazione
di burattinaio di un’informazione ridotta a propaganda persino la sua grammatica
perse i colpi, andando incontro a clamorosi infortuni linguistici, mentre il
delirio del potere lo portò ad usare l’incarico pubblico per diffondere notizie
che smentissero la sua relazione con Doris Duranti, l’amante che lo seguì anche
a Salò. Nella cittadina lombarda fu membro di spicco del Governo Repubblichino
per il quale ideò le famigerate Brigate Nere ed organizzò il famoso piano di
salvataggio del ridotto della Valtellina, prima di incontrare una fine analoga
a quella del duce: il suo cadavere, come quello di Mussolini, venne appeso in
Piazzale Loreto. Unico
sopravvissuto al duce, tra gli eroi del Ventennio, fu il Generale Rodolfo
Graziani: il leone africano italiano degno di essere accostato alla volpe del
deserto tedesca, Erwin Rommel. Dalla Libia all’Etiopia, sotto il suo comando le
truppe italiane conquistarono il famoso “posto al sole”. La “riconquista della Tripolitania”,
nel 1924, valse a lui, membro di una famiglia borghese, la tessera honoris
causa del PNF. Nel ’30 venne nominato dal duce governatore della Cirenaica,
mentre la sua consacrazione coincise con la Guerra d’Etiopia (1935-36) nella
quale si distinse per il cinismo con cui predispose l’uso dell’iprite.
Rodolfo Graziani |
Questi
i frutti di un regime che, come recitava l’inno “Giovinezza”, volle fare degli
Italiani un popolo di eroi, riuscendo, meglio di ogni altro, ad incarnare le
più segrete ambizioni di una generazione tradita dalla democrazia e dal
grigiore borghese, nell’intrepida (ma falsa) immagine di esaltati avventurieri
in camicia nera.