La Breccia di Porta Pia: un sopruso mistificato

20 settembre 1870: si consuma la Breccia di Porta Pia, un evento festeggiato dalla retorica risorgimentale come la trionfale battaglia con cui Roma venne restituita alla sua legittima posizione di capitale di un’Italia, di cui poteva essere considerata madre culturale e massima espressione storica. I Romani, invece, non poterono fare a meno di attribuire alla presa di Roma, lo straripamento del Tevere proprio gli ultimi giorni di quel 1870, macchiato dalla profanazione del cuore della Cristianità. Una credenza popolare che testimonia la timida accoglienza da parte dei cittadini romani della “liberazione dal governo dei preti” (come venne presentata dai liberali) nonché la totale mancanza di una reale spinta unitaria dal basso. Il giornalista Ugo Pecci, entrato in Roma con l’esercito piemontese quel giorno, riportò: “Noto prima di ogni altra cosa la mancanza assoluta di qualunque entusiasmo (…) Sette o otto reggimenti di fanteria traversano le strette vie della città colla musica. Nessun saluto, nessun sorriso, pianti si, molti”. Una testimonianza simile a quella del rivoluzionario Vittorio Ferrari, il quale, in riferimento al fallito tentativo di insurrezione interna cui aveva partecipato nel 1867, l’anno della battaglia di Mentana, scrisse: “Verso sera proprio nell'ora in cui il corso di Roma è più animato, lo spettacolo che si offriva al passaggio della berlina papale era quello di un'onda marina procedente e maestosa. Tutta la gente sostava e si sistemava a terra di mano in mano che la carrozza procedeva. E così via fino a Porta del Popolo. Noi ci fissammo in viso l'un l'altro come estatici a quello spettacolo: quando rinvenimmo dallo stupore, ci domandammo: "Che siamo venuti a fare noi ?!?”
Una foto della breccia, visibile a destra
Parole che manifestano l’unilateralità della conquista sabauda a livello sia ideologico che militare, dato che le truppe pontificie avevano ordine di non rispondere al fuoco ma di retrocedere progressivamente difronte al nemico in modo tale da dimostrare il carattere illegittimo dell’aggressione piemontese ad un potere millenario quale quello papale. Rifiutato da parte di Pio IX l’ultimatum del 10 settembre, nel quale Vittorio Emanuele II, facendo buon viso a cattivo gioco, esplicitava: “l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine”, i bersaglieri cinsero d’assedio la città alle 5 del mattino del 20 settembre, in previsione di una trionfale entrata il giorno successivo, il 21, anniversario della prima repubblica giacobina. Le truppe del generale Raffaele Cadorna, cercarono di forzare Porta Pia e Porta San Pancrazio, mentre il generale Bixio, già dirimpettaio di Garibaldi nell’impresa dei Mille, alle 6:35 cominciò a cannoneggiare direttamente San Pietro, tanto che molti proiettili finirono nei giardini vaticani. Il papa, definendolo un “novello Attila, intenzionato a buttare nel Tevere la Curia Romana”, dopo aver annunciato ai rappresentanti delle nazioni cattoliche la decisione di arrendersi per evitare inutili spargimenti di sangue, fece issare la bianca bandiera della resa sopra la cupola di San Pietro.
Ma la Storia aveva bisogno di una presa teatrale, da poter paragonare a quelle di Troia o di Cartagine, e così, mentre Bixio continuava il personale tentativo di ridurre il centro della Cristianità ad un cumulo di macerie (in modo del tutto ingiustificato dagli stessi piemontesi), i bersaglieri, a Porta Pia, anziché usare la maniglia (l’accesso era stato lasciato libero dalle arrese truppe pontificie), vollero aprire una breccia mediante l’uso di esplosivo. Nella calca dell’assalto, venti bersaglieri rimasero sul campo, colpiti dal fuoco amico o calpestati da altri compagni – giacchè Roma andava conquistata di corsa, come nel proverbiale stile del reparto -. Una volta entrati, occuparono le caserme, i ministeri, i tribunali e la zecca, appostando sul Gianicolo e a Castel Sant’Angelo batterie di cannoni puntati sul Vaticano. Il papa era stato fatto prigioniero e la sua Roma ridotta da centro universale dell’orbe cattolico a capitale di uno staterello, messo su dagli intrighi massonici e dotato di norme fortemente anticlericali, con un atto più simile ad un arrembaggio che ad un’azione militare. A tal proposito è significativo ricordare che il generale Raffaele Cadorna, nel 1880, X anniversario della “Breccia di Porta Pia”, si rifiutò categoricamente di partecipare ai festeggiamenti in ricordo di una “battaglia disonorevole, inutile e sacrilega” e che lo stesso Regno d’Italia, in seguito ad un’aggressione oggettivamente illegittima (nessun principe europeo poteva vantare un potere più antico di quello papale), incorse in un lungo isolamento internazionale. Fatti che mostrano la spaccatura tra la realtà dei fatti, avvertita dai diretti osservatori, e la mistificazione che venne fatta dalla retorica risorgimentale di un atto, utile a nulla più che mettere a Roma, depositaria della cultura occidentale, al posto del papa, un re che fece vanto di aver letto un solo libro in vita sua: il regolamento militare. Il risultato lo vediamo nell’ottusa volgarità delle costruzioni spuntate come funghi all’indomani del 1870, in una sfrontata speculazione edilizia che cancellò le forme rinascimentali della Città Eterna e la privò dei suoi verdi e numerosi giardini, facendone la grigia bancarella che è oggi.