Schola magistra vitae, l'esempio di Don Milani


“Se sai sei, se non sai sei in balia altrui”. L’inizio del nuovo anno scolastico, in questi giorni, per milioni di studenti italiani, riporta il pensiero a quest’aforisma di Don Lorenzo Milani, uno dei più grandi educatori del secolo scorso. Spese tutta la propria, breve esistenza al servizio dei giovanissimi parrocchiani, con i quali negli anni ‘50 e ‘60 diede vita alla straordinaria esperienza della scuola di Barbiana, un modello innovativo di insegnamento dedicato agli ultimi, che risuonò nel proprio contesto storico con i caratteri rivoluzionari che sempre si accompagnano alla chiaroveggenza.
Lorenzo Carlo Milani, cresciuto nel raffinato ambiente fiorentino, da rampollo di una ricca famiglia, era un prete alla ricerca di una povertà di francescana memoria, assertore di una religiosità improntata ad un profondo senso del peccato e della primaria importanza del sacramento della Confessione. Appena uscito dal seminario, venne inviato nella parrocchia di San Donato (vicino Firenze), dove la maggior parte degli abitanti era costituita da braccianti poverissimi, assimilabili a quelli del capolavoro di Carlo Levi “Cristo si è fermato ad Eboli”. Lì maturò la convinzione che santificare persone, costrette a vivere un’esistenza tutta dedita alla propria sussistenza, come le bestie, presupponesse che esse prima di tutto divenissero uomini a tutti gli effetti: il mezzo, ovviamente, l’istruzione. Una concezione, basata sulla consapevolezza che la vera ricchezza non è costituita dal denaro ma dalla parola attraverso la quale poter giustificare soprusi, confutare le rivendicazioni dei più deboli, legittimare la propria condizione di superiorità materiale e spirituale. A San Donato, dunque, Don Milani fece il maestro ancor prima che il cappellano e fondò la scuola popolare, in un momento in cui in Italia più della metà della popolazione era priva della licenza elementare, il 13% di essa era ancora analfabeta e la scuola pubblica era come un ospedale che respinge i malati poveri e cura i sani ricchi. Tuttavia l’atteggiamento di critica costruttiva alle istituzioni di “Esperienze Pastorali”, il libro nel quale raccontò gli anni di San Donato, la sua tiepida accoglienza alla Democrazia Cristiana (che, comunque, pubblicamente sostenne), poco attenta a quelle istanze sociali certamente più care alle Sinistre, congiunta con il calo di preferenze scudo crociate alle elezioni del 1953, alla curia fiorentina fecero vedere in Don Milani un “prete rosso”, da ridurre al silenzio. 
Venne trasferito, sotto le mentite spoglie di una promozione a parroco, a Barbiana, un paesino sperduto tra i monti del Mugello di appena 39 anime. Eppure il priore non si scoraggiò e sulla montagna dette vita alla scuola e al modello educativo che per sempre rimarranno legati al suo nome: la scuola di Barbiana. Dedicata a ragazzini di età corrispondente a quella delle Medie, era aperta 12 ore al giorno, 365 giorni all’anno. Le “lezioni” cominciavano sempre con la lettura del giornale , ritenuto il miglior sussidio di studio poiché capace di informare, di mettere al corrente, in nome di quel “I care” – “mi interessa, mi riguarda” – che Don Milani, fece scrivere sulla porta della scuola. Ma le giornate scolastiche a Barbiana erano anche altro: laboratori, i cui strumenti venivano costruiti dagli stessi alunni; una lettura dei Vangeli che non imponeva l’indottrinamento ma invitava alla riflessione interiore; interviste a magistrati, giornalisti, politici, ecc  giacchè ogni ramo del sapere concorre alla formazione umana dei giovani studenti. Gli allievi di Don Lorenzo, studiavano anche le lingue, Inglese e Francese, apprese attraverso l’ascolto di dischi musicali, e poi il Tedesco e addirittura l’Arabo. Non mancavano i c.d. viaggi di studio e di lavoro all’estero, per condividere esperienze con gli oppressi di altri paesi, lezioni di recitazione per sfidare la timidezza e una piscina per vincere la paura dell’acqua. Insomma il principio capace di individuare il filo conduttore del “programma” della scuola di Don Milani è la massima di Terenzio “Homo sum, humani nihil alienum a me puto”. 
Un legittimo interessamento, dunque, a ciò che circonda l’uomo e lo riguarda, concretizzato in un apprendimento, volto all’emancipazione degli ultimi, soprattutto in questo modo il priore di Barbiana concepiva una scuola che, nella sua forma statale, invece, era profondamente classista. Per Don Milani era inammissibile che i figli dei ricchi e dei poveri, fossero trattati allo stesso modo, giacchè non vi è peggior ingiustizia che trattare i diseguali da uguali. Questo pensiero venne espresso nella “Lettera ad una professoressa”, scritta nel 1967, dai suoi stessi allievi, e contenente una costruttiva e doviziosa critica non solo alla scuola ma più in generale alle storture della società italiana. Può essere considerato il suo testamento spirituale, dato che il priore si spense pochi mesi dopo, a soli 44 anni, corroso da un male incurabile. Una vita la sua, spesa, nello specifico, per le anime che gli furono affidate a Barbiana, ma più propriamente per la scuola e l’annuncio della necessità di un sapere critico, che osserva e conosce il mondo, per trasformarlo.