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4. Latino - Tacito: Dialogus de oratoribus

Sulla paternità del Dialogus de oratoribus si è dibattuto a lungo: inizialmente attribuito a Tacito dalla tradizione manoscritta, è stato messo in discussione a partire dall’epoca umanistica per via del suo stile, di chiara imitazione ciceroniana. Tuttavia i sostenitori dell’autenticità hanno motivato la differenza dello stile rispetto alle altre produzioni di Tacito con il diverso genere letterario: se infatti le Historiae, gli Annales, l’Agricola e la Germania appartengono più o meno chiaramente al genere storiografico o etnografico, il Dialogus si inserisce nella tradizione del trattato sull’oratoria, abbandonando così il modello sallustiano e subendo inevitabilmente gli influssi del suo maestro di retorica, Quintiliano, autore anch’egli di un analogo dialogo, il De causis corruptae eloquentiae.


La data ‘drammatica’ del Dialogus, ossia il momento in cui si immagina avvenga l’azione, è il 75: in un passo dell’opera infatti si data la morte di Vespasiano sei anni addietro. La data della stesura si aggira invece intorno al 102, anno del consolato di Fabio Giusto, dedicatario dell’opera. Grazie alla scelta del dialogo Tacito riesce a presentare le opinioni dominanti nella Roma dei Flavi come diverse dalla propria, espressa in seguito dal padrone di casa: l’occasione del confronto fra tali idee è offerto dall’incontro fra Curiazo Materno e i suoi ospiti, Marco Apro e Giulio Secondo, fra i più noti avvocati del tempo. Il padrone di casa è un senatore ed oratore, ritiratosi dall’attività oratoria e forense per dedicarsi alla tragedia: proprio il confronto fra la poesia e la prosa è il primo grande tema dell’opera, che viene sviluppato attraverso due ampi discorsi, quello di Apro prima e di Materno poi. L’arrivo di un terzo ospite, Vipstano Messalla, consente di introdurre il tema principale dell’opera: la differenza fra l’oratoria antica e quella moderna – che tutti, tranne Apro, considerano in declino. Proprio alle idee di Apro viene dedicata la prima parte della trattazione del problema dell’oratoria, occupando i capitoli compresi fra il 16 ed il 23.

La sua difesa dell’oratoria moderna si basa sulla convinzione che nell’età moderna non vi sia decadenza, ma solo evoluzione e trasformazione, che assecondano il mutamento dei tempi, delle procedure giudiziarie, dei gusti e delle competenze del pubblico. Lo stile dell’oratoria moderna deve essere indirizzato ad un pubblico smaliziato, e quindi deve essere scorrevole, brillante, ricco di sententiae, poetico e capace di destare il diletto e l’interesse dell’uditorio. 
Il secondo a prendere la parola è Messalla (capp.25-35), che si oppone fermamente alla posizione di Apro: l’oratoria moderna è in crisi, e le cause di tale decadenza sono esattamente quelle indicate da Quintiliano, ovvero la negligenza dei genitori nell’educazione dei figli, l’inadeguatezza delle scuole e l’incompetenza dei maestri, la futilità e l’assurdità dei temi trattati.

Al capitolo 35 segue una lacuna, in seguito alla quale l’opera si riapre con il discorso del padrone di casa: Materno propone la metafore della fiamma, secondo la quale l’oratoria è come una fiamma che per bruciare necessita di essere alimentata. Nell’età repubblicana la fiamma era tenuta accesa dalla violenta competizione politica, con i confronti in Senato e i dibattiti fra la plebe. La perdita della libertà politica rappresenta dunque secondo Materno – e dunque secondo Tacito – la causa più profonda del declino dell’eloquenza: il discorso di Materno si conclude con la pacata accettazione dello stato delle cose, definendo la grande eloquenza “alumna licentiae, quam stulti libertatem vocant” (“nata dalla licenza, che gli sciocchi chiamano libertà”, che non trova terreno fertile per svilupparsi “in bene constitutis civitatibus” (“negli stati pacifici e ben ordinati”). 
Il pensiero di Tacito è sicuramente espresso dal discorso conclusivo di Materno, nel quale è evidente non l’acuta mentalità dello storico, ma anche la convinzione che l’oratoria del I secolo non può avere lo stesso prestigio di cui godeva ai tempi di Cicerone: Tacito motiva così la scelta di altri generi letterari e anticipa la propria ‘svolta’ verso la storiografia. Così come Materno abbandona l’oratoria per dedicarsi alla tragedia, così Tacito preferisce all’ars dicendi la storiografia, che Quintiliano aveva definito proxima poetis.

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