Libertà di Parola e Formazione dell'Opinione

3. Greco 

“ GIOCASTA: Prima la cosa che voglio sapere. Cos’è l’assenza della patria? È grave?
POLINICE: È gravissima, nel fatto più che a dirsi.
GIOCASTA: Cos’è l’esilio? Di cosa soffre l’esule?
POLINICE: Peggio di tutto è non poter parlar franco.
GIOCASTA: È da schiavo, non dire ciò che pensi.
POLINICE: Piegarsi all’idiozia di chi comanda…
GIOCASTA: Eh già, fare gli stolti con gli stolti.
POLINICE: Per interesse, si violenta l’indole.„
Euripide, Le Fenicie, vv.386-394

“ FEDRA È proprio questo che mi fa morire: paura che mi colgano in flagrante mentre reco vergogna a mio marito e ai figli miei. No! Vivano nella splendida Atene, felici e liberi di dire la verità (eleuqeroi parrhsia qallonteV); la fama della madre li rischiari. Ché quando la coscienza di una colpa del padre o della madre interviene, dell’uomo anche più ardito fa uno schiavo. „ 
Euripide, Ippolito, vv.420-425

Il cittadino greco dell’Atene del V secolo aveva il diritto di esprimere ciò che riteneva giusto - e conseguentemente vero - in un regime considerato di assoluta libertà di parola, assumendosi tuttavia dei rischi qualora la propria opinione fosse contraria alla situazione politica. Questo sacrosanto diritto della democrazia greca è detto parresia e chi la esercita, il parresiastes, non la considera un semplice diritto, ma la percepisce come un dovere morale, sebbene comporti talvolta l’esporsi al giudizio e dunque mettere a rischio la propria stessa libertà. L’azione del parresiastes si muove intorno alla pratica della verità, ambito intorno al quale, storicamente, si è organizzata la resistenza ai soprusi dei regimi dittatoriali e delle oppressioni governative.


La parresia è dunque ben più di un mero diritto sancito da un accordo fra uomini; è percepita come un obbligo morale e rappresenta dunque una qualità morale richiesta a tutti coloro intendano far sentire la propria voce in pubblico: si tratta di un atteggiamento fondamentale dell’uomo verso la realtà reso necessario non tanto dalla sua utilità, ma semplicemente dalla veridicità dei suoi contenuti.

Il termine parresia sopravvive a quasi un millennio di storia: coniato da Euripide, viene utilizzato per l’ultima volta da San Giovanni Crisostomo nel V sec. d.C. sebbene già prima di Euripide fosse stato utilizzato da Erodoto, ma con lo stesso significato di isegoria, ovvero il diritto di tutti i cittadini greci di prendere parola durante le pubbliche assemblee, mancando quindi della successiva accezione di franchezza nei modi e veridicità nei contenuti che caratterizza il termine parresia.

Il parresiastes è tale solo quando detiene determinate qualità morali: ha dunque accesso alla verità e ne diviene allora garante; di conseguenza, una volta entrato in possesso della verità, il cittadino greco, nonostante sia libero di stare zitto, sente che è suo dovere parlare. Libertà e dovere sono dunque i due valori di riferimento, il cui indissolubile rapporto caratterizza la parresia greca: la traduzione latina difatti, resa dal solo termine libertas, trascura il concetto di dovere ed obbligo morale.

La parresia è indipendente dalle circostanze storico-sociali, in quanto è dettata da una scelta etica scaturita da un senso individuale del dovere che va oltre il rischio che essa comporta, perché basata su una considerazione della libertà tanto elevata da consentirne anche la messa in questione: il cittadino diventa parresiastes quando rinuncia alla sicurezza del silenzio per esprimere una verità altrimenti inespressa, anteponendo il dovere morale all’apatia. I pericoli derivanti dal vivere nel vero piuttosto che nel falso è presupposto indispensabile per la parresia: è necessario che il cittadino impegni sé stesso, leghi indissolubilmente la propria sorte alla verità di cui si fa portatore. Logos e bios tendono ad identificarsi nel parresiastes, le cui azioni sono coerenti con le proprie parole; la verità non è tale nella cultura greca se è semplicemente pensata o espressa, ma solo se realmente vissuta: il parresiastes dunque prende coscienza che le conseguenze della verità possono ricadere sulla sua persona.

Un importante cambiamento nella concezione di parresia si ha nel V sec a.C.: dopo la scomparsa di Pericle (429 a.C.) le relazioni fra libertà, potere, democrazia, educazione e verità si fanno in Atene ben più problematiche che in precedenza. La crisi delle poleis pone difatti il cittadino greco di fronte ad interrogativi prima di allora inimmaginabili sulla democrazia e sulla libertà: la democrazia è in grado di stabilire chi possiede le specifiche qualità per dire la verità? La risposta è ovviamente negativa, e la società greca elabora un nuovo attributo indispensabile al parresiastes: la mathesis, ovvero l’insieme di conoscenze ottenute tramite la paideia, intesa non solo come processo educativo, ma soprattutto come formazione intellettuale e morale. La crisi della polis altro non è che la crisi della parresia: esporre le proprie idee non è più un dovere, né un obbligo morale, ma un passatempo; si passa dal parresiastes all’athuroglottos, colui che “ha una lingua senza porte”, cioè che non sa cogliere il kairos, la giusta occasione, per far sentire la propria voce: la libertà di parola degenera così nel malcostume del parlare per parlare.

La risposta alla crisi del V secolo è offerta dal pensiero socratico-platonico, che, di fatto, segna la fine della parresia politica e dà  inizio ad una visione più prettamente filosofica; la centralità dell’epimeleia heautou, la cura sui latina, rende la parresia una soggettivazione della verità: ogni uomo, plasmando se stesso, agendo coerentemente con le teorie sostenute, “si rende statua scolpita dai ripetuti atti di farsi verità”. Il primo passo dunque per il buon governo è saper governare se stessi: la parresia diventa così la pratica del dire la verità su se stessi per poter giungere poi, raggiunti ruoli di rilevanza politica, alla verità sul mondo.

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