Un anno di sport


Il 2012 sportivo ha offerto tantissimi spunti, positivi e negativi, da cui ripartire con slancio verso un 2013 sicuramente altrettanto emozionante.

Partiamo con alcune considerazioni in positivo.

Nel calcio non possiamo non citare la Juventus, senza dubbio la migliore squadra in Europa, in quanto ha saputo amalgamare il talento con la fortuna e la continuità. Le zero sconfitte in campionato lo scorso anno servono solo per le statistiche: l’unità della squadra di Conte (che ha scontato una lunga squalifica dovuta agli illeciti commessi per quanto riguarda il CalcioScommesse, di cui parleremo dopo), è stata decisiva: come si suol dire, lo spogliatoio non era diviso.

E poi il calcio che riparte dai giovani, Lamela, El Sharaawi, che prendono il posto nel nostro calcio di “anziani” come Del Piero, Nesta, Di Vaio.

Più in generale lo sport ci ha regalato emozioni con le olimpiadi di Londra, molto appassionanti e di notevole successo per gli azzurri(il blog ha seguito passo passo le emozioni italiane): ben 28 sono state le medaglie azzurre, mentre il solito duello Usa-Cina si è risolto con la vittoria degli americani con 104 a 88. Terza, e- a detta di molti favorita- la Gran Bretagna, padrona di casa, con 65, e 29 ori.

Purtoppo è necessario elencare anche qualche dato negativo.

Primo fra tutti, il calcioscommesse, brutta piaga, bruttissima se si pensa al fatto che non si è stati capaci di imparare la lezione fornitaci dallo scandalo Calciopoli. Sono ancora in corso le indagini, ma le squalifiche sono già tante, e a rimetterci sono le squadre, ma anche e soprattutto i tifosi.

Come non parlare della morte di Piermario Morosini, calciatore del Livorno, morto in campo mentre giocava a Pescara per arresto cardiaco. La sua morte ha riportato al tema della sicurezza nei campi, questione spinosa. Dopo la sua morte si sta tentando di fare qualcosa di concreto per risolvere la situazione. Una soluzione potrebbe essere quella dei defibrillatori nei campi, ormai obbligatori.

Infine lo sport, con la brutta piaga del doping. Fra i nomi pù altisonanti ricordiamo Armstrong, che-scoperto- ha perso tutto. Una carriera esaltante buttata all’aria per la droga. Ma anche il nostro Schwarzer, che durante le olimpiadi è stato scoperto e squalificato per 4 anni. In tutti gli sport è un problema gravissimo, difficilmente risolvibile, e per cui sarebbe necessario solamente un personale e profondo esame di coscienza, che permetterebbe di capire quali sono i pro e quali sono i contro, prima di effettuare una scelta di questo tipo. La giustizia ha i suoi tempi, ma arriva. E punisce.

FLOP 2012

1.Lance Armstrong: un caso di doping fa sempre male a tutti gli sportivi, ma quello di Armstrong è molto più di un caso di doping, e proprio per questo fa molto più male: è la fine si un mito del ciclismo, è la delusione di milioni di sportivi che si sono emozionate all'ennesima maglia gialla, che hanno avuto una stretta al cuore alla notizia della malattia, che hanno esultato alla più grande vittoria, quella con il cancro. È la fine del mito dell'uomo, esempio di sport e di umanità. 2.Federica Pellegrini: il flop delle Olimpiadi sono una grave macchia sulla carriera dell'indiscussa campionessa veneta, ma quello che scotta di più è l'atteggiamento: oltre ad essere state l'ennesima conferma dell'incostanza di questa atleta e del conseguente mancata espressione di potenzialità viste solo parzialmente, le deludenti prestazioni di agosto sono state occasione di evidenziare la scarsa umiltà dimostr ata davanti ai microfoni; le dichiarazioni dopo le gare, in cui annunciava il suo momentaneo ritiro dalla vasca e le successive polemiche con la Federazione non ci sono piaciute affatto, e pensiamo di non essere i soli a non averle gradite. 3.Arien Robben: i demeriti dell'olandese invece sono esclusivamente legati al campo: come ha evidenziato abche un recente sondaggio della Gazzetta dello Sport, Robben era atteso all'anno della grande e definitiva affermazione, una sorta di ultimo treno per chi di primavere sulle spalle ne ha già diverse. E invece è riuscito nell'impresa di passare da quasi uomo mercato dell'estate 2011 - con un probabile passaggio alla Juventus mancato per pochissimo - a fantasma assoluto nel Bayern tritasassi di questi ultimi tempi.

TOP 2012

3.Valentina Vezzali: 38 anni - quasi 39 - e non sentirli. Questo il più grande pregio di questa campionessa eterna, che a Londra è riuscita a guidare magistralmente la nazionale di scherma, innalzandola regina delle olimpiadi azzurre. Non ci sono parole per descrivere questa forza della natura. Ma forse fra 4 anni a Rio lei ci sarà per stupirci ancora. 2.Fernando Alonso: per noi il campione del mondo è lui, perché sé non ci fosse stato Grosjean a Spa Nando avrebbe conquistato il trofeo iridato senza problemi, magari pure con qualche gara d'anticipo. E per di più - impossibile negarlo - anche arrivare a contendere il titolo alla Red Bull a Interlagos con una macchina sviluppata solo fino all'estate è roba da maestri. E Alonso lo è. 1.Andrea Pirlo: come per la Vezzali, neanche per Pirlo la carta d'identità è un problema. La Juve ha puntato sull'usato sicuro e lui la ha ricompensata con una stagione strepitosa; la differenza fra i bianconeri ed il Milan l'ha fatta lui: chissà come sarebbe finito il campionato con un Pirlo fra gli uomini di Allegri e un Nocerino - con tutto rispetto - alla Juve.

28 dicembre 1908. Il terremoto di Messina e Reggio


28 dicembre 1908. Ore 05:21. I sismografi sparsi per la penisola italiana registrano il verificarsi di un terremoto di grande magnitudo. Il sisma è inquadrabile settorialmente in una zona ubicata in Italia. Nessuna più precisa informazione al riguardo è tuttavia disponibile, solo rimangono le tracce marcate dai pennini sui tabulati degli osservatori sismici che gli studiosi cominciano velocemente ad analizzare e interpretare. I telegrafi infatti cominciano a ticchettare, i tecnici rimangono allora in attesa di ottenere e scambiare notizie. Ancor prima di ottenere una qualsivoglia comunicazione ufficiale, tale fu l'intensità del terremoto del 1908 che devastò Messina e Reggio Calabria che molte nazioni del mondo e l’Italia stessa, furono informate attraverso la strumentazione scientifica. I sismografi misero in evidenza solo la grande intensità delle scosse senza consentire però agli specialisti di individuare con certezza la specifica localizzazione e solo di immaginare, ovviamente, i possibili danni provocati da un sisma di quella intensità. Gli addetti all’osservatorio Ximeniano di Firenze annotarono: “Stamani alle 5:21 negli strumenti dell'Osservatorio è incominciata una impressionante, straordinaria registrazione: le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri: misurano oltre 40 centimetri. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave”.
Macerie di Messina
Il terremoto che si è scatenato è quello in cui vengono distrutte Messina e Reggio Calabria. Quel terremoto raggiunge 7.2 punti di magnitudo nonché l’11° della scala Mercalli, accompagnato da un maremoto che mette a soqquadro le coste calabro-sicule con numerose scosse devastanti. Messina viene rasa al suolo: crolla più del 90% degli edifici della città. Reggio Calabria e molti centri limitrofi riportano danni gravissimi. Ai danni provocati dalle scosse sismiche si aggiungono quelli cagionati dal mare. Onde gigantesche raggiungono infatti il litorale, spazzando via tutto: molti, sopravvissuti al terremoto, moriranno affogati a largo.
Il numero delle vittime è altissimo. La notizia del terremoto di Messina viene trasmessa dal Comandante Belleni che descrive la desolazione di un paesaggio devastato che gli fa temere che tutta l'Italia sia in quelle condizioni. Nella serata di quel 28 dicembre alcuni giornali intitolano la prima pagina: 'Messina è morta'. Messina, che all'epoca contava 133 mila abitanti ne perse 80 mila. Reggio Calabria ne perse 15 mila su una popolazione di 45 mila. La relazione in merito al Senato del Regno – datata 1909 – è agghiacciante: «Un attimo della potenza degli elementi ha flagellato due nobilissime province – nobilissime e care – abbattendo molti secoli di opere e di civiltà. Non è soltanto una sventura della gente italiana; è una sventura della umanità, sicché il grido pietoso scoppiava al di qua e al di là delle Alpi e dei mari, fondendo e confondendo, in una gara di sacrificio e di fratellanza, ogni persona, ogni classe, ogni nazionalità. È la pietà dei vivi che tenta la rivincita dell’umanità sulle violenze della terra. Forse non è ancor completo, nei nostri intelletti, il terribile quadro, né preciso il concetto della grande sventura, né ancor siamo in grado di misurare le proporzioni dell’abisso, dal cui fondo spaventoso vogliamo risorgere. Sappiamo che il danno è immenso, e che grandi e immediate provvidenze sono necessarie».
Tra le prime squadre di soccorso che giunsero a Reggio vi fu quella proveniente da Cosenza, guidata dall’esponente socialista Pietro Mancini (padre di Giacomo) che dichiarò: « Le descrizioni dei giornali di Reggio e dintorni sono al di sotto del vero. Nessuna parola, la più esagerata, può darvene l’idea. Bisogna avere visto. Immaginate tutto ciò che vi può essere di più triste, di più desolante. Immaginate una città abbattuta totalmente, degli inebetiti per le vie, dei cadaveri in putrefazione ad ogni angolo di via, e voi avrete un’idea approssimativa di che cos’è Reggio, la bella città che fu. » 
E ancora i giornali scrissero: « Oramai non v’è dubbio che, se a Reggio fossero giunti pronti i soccorsi, a quest’ora non si sarebbero dovute deplorare tante vittime. »
« Si è assodato che Reggio rimase per due giorni in quasi completo abbandono. I primi ad accorrere il giorno 28 in suo soccorso vennero a piedi da Lazzaro – insieme al generale Mazzitelli e a poche centinaia di soldati: furono i dottori Annetta e Bellizzi in unione ai componenti la squadra agricola operaia di Cirò, forte di 150 uomini accompagnati dall’avv. Berardelli di Cosenza. Questa squadra ebbe contegno mirabile e diede aiuto alle migliaia di feriti giacenti presso la stazione. Gli stessi operai provvidero allo sgombero della linea ferroviaria favorendo la riattivazione delle comunicazioni ferroviarie. Appena giunti furono circondati da una turba di affamati e il pane da essi portato veniva loro strappato letteralmente dalle mani. Sicché essi dovettero patire la fame fino al giorno 30 quando cominciò l’arrivo delle navi. »
Macerie della Chiesa del Rosario in Reggio Calabria
A Roma i quotidiani del pomeriggio riportavano ancora la notizia vaga di alcuni morti in Calabria per un terremoto. La prima notizia ufficiale delle vere dimensioni del disastro giunse quindi col telegramma trasmesso da Marina di Nicotera dal comandante della torpediniera Spica. Altre ne seguirono da diverse località e strutture dando un’idea approssimativa della catastrofe. Nella stessa serata del 28, riunito d’urgenza il Consiglio dei ministri, il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti esaminò la situazione emanando di concerto le prime direttive del Governo.
Anche il Re e la Regina partirono il 29 per Napoli; saliti poi sulla "Vittorio Emanuele", in sosta per caricare a bordo anche materiale sanitario e generi di conforto, raggiunsero la Sicilia nelle prime ore della giornata successiva, il giorno 30.
Ma già all'alba del 29, la rada di Messina cominciò ad affollarsi. Una squadra navale russa alla fonda ad Augusta si era diretta a tutta forza verso la città. Subito dopo fecero la loro comparsa le navi da guerra inglesi. Il comandante russo Ammiraglio Ponomareff fece approntare i primi soccorsi prestando anche opera di ordine pubblico. Dopo cominciarono ad arrivare le navi italiane che si ancorarono ormai in terza fila. Malgrado la sorpresa, nessuno se la prese più di tanto anche se, qualche tempo dopo, la stampa intervenne polemicamente. Messe in mare le scialuppe anche gli equipaggi italiani furono sbarcati e impiegati secondo le esigenze del caso. Il Re e la regina arrivarono all’alba del 30. Con una lancia a motore, accompagnati dai ministri Bertolini e Orlando, percorsero la costa per poi fare ritorno a bordo della loro nave. Data la gravità e le difficoltà della situazione, la regina rimasta sulla corazzata contribuì con grande impegno alla cura degli infermi mentre il Re raggiunse la terraferma per portare alle truppe italiane e straniere, impegnate nelle difficili operazioni di prima assistenza, le proprie espressioni di elogio e riconoscenza. Le navi da guerra, trasformate ormai in ospedali e trasporti, caricati i feriti fecero poi la spola con Napoli e altre città costiere occupandosi anche di trasferire le truppe già concentrate nei porti e in attesa di destinazione. Cominciò l’afflusso di uomini tra cui i Carabinieri delle legioni di Palermo e di Bari e molteplici reparti dell’esercito. A chi arrivò di notte la città di Messina apparve illuminata dagli incendi che continuarono ad ardere per parecchi giorni.
La R.N. "Napoli" da Messina si trasferì a Reggio. Il suo comandante Umberto Cagni, assunto provvisoriamente il comando della "piazza" e delle operazioni di soccorso, sbarcò i marinai della nave per organizzare l’assistenza e impiantare un primo ospedale da campo destinato alla medicazione dei feriti leggeri. Quelli più gravi furono trasportati a bordo. Il Cagni divise poi la città in varie zone assegnandole agli uomini della "Napoli" e alle truppe dell’esercito già disponibili in loco tra cui i superstiti del 22º fanteria e alcuni distaccamenti del 2º bersaglieri sopraggiunti nel frattempo. I marinai assieme ad alcuni nuclei di carabinieri organizzarono anche pattuglie di ronda con lo scopo di provvedere anche alle esigenze di Pubblica Sicurezza.
La stampa uscì con le prime edizioni dei giornali riportando dapprima dati sintetici e poi informazioni dettagliate con il sopraggiungere di notizie più certe e particolareggiate.
Il Corriere della Sera, il giorno 30, uscì con questo commosso e drammatico titolo: "ORA DI STRAZIO E DI MORTE. Due città d'Italia distrutte. I nostri fratelli uccisi a decine di migliaia a Reggio e Messina".
L'Italia, sbalordita, seppe così che a Reggio, a Messina, interi quartieri erano crollati, che sotto le macerie di case, ospedali e caserme erano scomparsi interi nuclei familiari, malati, funzionari, guardie e soldati. Venne inoltre a conoscenza della meravigliosa gara di solidarietà internazionale apertasi tra navi straniere e italiane per portare aiuto ai superstiti e trasportare sui luoghi colpiti dal sisma i materiali e gli uomini necessari.
Il mondo intero si commosse: capi di Stato, di Governo e Papa Pio X espressero il loro cordoglio e inviarono notevoli aiuti anche finanziari. Unità da guerra francesitedeschespagnolegreche e di altre nazionalità lasciarono i loro ormeggi e, raggiunte le due sponde dello stretto, misero a disposizione anche i propri equipaggi per provvedere a quanto necessario distinguendosi peraltro nel corso delle azioni cui presero parte.
In tutta Italia, oltre agli interventi organizzati dalla Croce Rossa e dall'Ordine dei Cavalieri di Malta, si formarono comitati di soccorso per la raccolta di denaro, viveri e indumenti. Da molte province, partirono squadre di volontari composte da medici, ingegneri, tecnici, operai, sacerdoti e insegnanti per portare, malgrado le difficoltà di trasferimento esistenti, il loro fattivo sostegno alle zone terremotate. Anche le Ferrovie, ormai dello Stato, inviarono proprio personale: tra questi Gaetano Quasimodo, che raggiunse Messina con al seguito la famiglia e in particolare il figlioletto di soli 7 anni Salvatore, futuro premio Nobel per la letteratura.

Il falso mito della cavalleria polacca



Ci siamo soffermati diverse volte sulla storia della Polonia negli ultimi decenni, sulle mistificazioni che hanno infangato la sua storia e sulle ingiustizie che hanno martoriato la sua popolazione. E tuttavia di tristi spunti per continuare a parlare della terra di Wojtyla ce ne sono purtroppo in abbondanza, e noi non ci esentiamo dall’onere di trattarli a dovere.
La corrispondenza di guerra della Seconda Guerra Mondiale che ha seguito le prime fasi della guerra e gli sviluppi del fronte fra tedeschi e polacchi ha consegnato alla storia un’immagine dei Polacchi e del loro esercito che, canonizzato dalla propaganda nazista, domina su tutti i testi di storia: la risposta all’invasione nazista viene rappresentata nella forma di uno “stupido e sterile” attacco con la cavalleria ai Panzer tedeschi. Furono proposti addirittura falsi filmati in cui comparse tedesche simulavano un improbabile attacco della cavalleria polacca contro i carri armati tedeschi: la superiorità razziale dei tedeschi sui polacchi era la logica e scontata conclusione di questa propaganda.
Dopo i primi scontri del 1° settembre 1939 nei pressi di Krojanty le perdite polacche ammontavano a circa 30 uomini su 250: nella zona giunse la corrispondenza di guerra italiana, nella persona di Indro Montanelli, che testimoniò l’incoscienza della cavalleria polacca che aveva caricato i carri armati con sciabole e lance. La verità tuttavia dista notevolmente da tutto ciò: le cariche della cavalleria polacca contro i tedeschi furono 16, di cui molte raggiunsero lo scopo prefisso di disperdere i tedeschi.
Quella del 1° settembre non fu contro i carri armati, in quanto questi ultimi giunsero molto dopo la fine degli scontri: gli ulani - i cavalieri polacchi - si allontanarono proprio al fine di evitare l’impari confronto. Nemmeno le successive 15 cariche furono rivolte contro i Panzer: russi e tedeschi, durante e dopo il conflitto, pubblicizzarono una diversa versione dei fatti per i propri interessi, chi per stigmatizzare l’incompetenza della classe dirigente polacca che aveva tento di annientare, chi per dimostrare al mondo la propria superiorità tecnologica.

Le persecuzioni del terzo millennio



Mi chiamo Asia Noreen Bibi. Scrivo agli uomini e alle donne di buo­na volontà dalla mia cella senza finestre, nel modulo di isolamen­to della prigione di Sheikhupura, in Pakistan, e non so se leggerete mai questa lettera. Sono rinchiusa qui dal giugno del 2009. Sono stata con­dannata a morte mediante impiccagione per blasfemia contro il profe­ta Maometto. Dio sa che è una sentenza ingiusta e che il mio unico de­­litto, in questo mio grande Paese che amo tanto, è di essere cattolica”.
Inizia così la lettera di Asia Noreen Bibi, imprigionata in Pakistan a causa della sua fede cristiana: la sua vicenda è solo parzialmente nota, ma ciò che è evidente agli occhi di tutti è la grave violazione dei più basilari diritti dell’uomo, primo su tutti la libertà di religione. Il caso di Bibi non è l’unico, purtroppo, ma è solamente uno dei 200 milioni di casi di cattolici perseguitati nel mondo.
Il rapporto dell’associazione internazionale ACS (aiuto alla Chiesa che Soffre) di oltre due anni fa lancia l’allarme, dovuto alla facilità con cui si ridicolizza la Chiesa in alcuni Paesi del mondo sviluppato: si è spesso sentito dire che la cosiddetta “primavera araba” ha avuto come conseguenza un “autunno” per i cristiani di quelle zone: difatti buona parte delle violenze è localizzata nei Paesi a maggioranza musulmana che vivono in questi ultimi mesi instabili situazioni a livello politico e sociale. In particolare vengono considerati ad alto rischio i cristiani in Siria, Libia, Egitto e Tunisia, dove i gruppi integralisti islamici rischiano di prendere il sopravvento sulle forze più moderate che avevano consentito di mantenere la calma negli ultimi anni.
E tuttavia se le zone più calde sono il Nordafrica, il Medioriente, l’Africa Centrale e il subcontinente indiano, anche il Vecchio Continente lancia segnali allarmanti: il ministro Terzi, in una recente intervista, ha affermato che “deve essere parte dell’azione dell’UE una campagna a difesa della libertà religiosa, oltre che della libertà in genere. Una campagna di cui devono esser protagonisti non solo i governi, ma anche i media e i grandi centri studi. Perché il fatto che in Europa molti credenti si rivelino timorosi di professare in pubblico i propri convincimenti è un elemento molto negativo per le nostre società, che finisce con il toccare proprio i diritti umani e le libertà fondamentali”.
E’ dunque compito di ogni parte dell’informazione nazionale, in ogni sua forma, proteggere la libertà di religione, di espressione, all’insegna di una cultura del rispetto che sembra sempre più lontana dalla nostra società.

Auguri di un Santo Natale

"Per il clima che lo contraddistingue, il Natale è una festa universale. Anche chi non si professa credente, infatti, può percepire in questa annuale ricorrenza cristiana qualcosa di straordinario e di trascendente, qualcosa di intimo che parla al cuore. È la festa che canta il dono della vita"

Benedetto XVI

Aboliamo il Natale



C’era una volta un Paese in cui il Natale era Natale di Qualcuno, dove fare il presepe ad inizio dicembre era abitudine consolidata, dove la notte del 24 non era la notte dei bagordi e della bella vita ma la Notte Santa. Sorvolando su ogni giudizio su quei tempi così lontani - che tuttavia risulta facile intuire - vogliamo porre la nostra attenzione nel giorno della Vigilia su che cosa è diventata oggigiorno la festa del 25 dicembre.
In una società che si vanta di essere laicista (inteso nel senso di rifiuto di ogni forma di credo religioso) non sarebbe più consono festeggiare solo le feste civili? Il 1° dicembre non sarà più Maria Santissima Madre di Dio, ma il giorno dell’entrata in vigore della Costituzione, il 15 agosto non più l’Assunzione della Beata Vergine Maria ma l’anniversario della soppressione degli enti ecclesiastici e la liquidazione dei loro beni da parte del neonato governo piemontese e magari il 6 gennaio diventerà la festa del tricolore, usato per la prima volta nel lontano 6 gennaio 1797 dalla Repubblica Cisalpina.
E allora viene spontaneo chiedersi che senso abbia festeggiare il Natale se oramai non è “di nessuno”; se non sia forse anacronistico continuare a tagliare pandori e panettoni, se non sia meglio abolirlo e magari trovare qualche altra festa invernale per staccare dal lavoro e farsi la settimana in montagna. Nell’attesa però - affinché siamo noi a dargli un senso - auguri di Buon Santo Natale!

25 Dicembre 800. Il regalo di Leone III a Carlo Magno


San Pietro. Messa di Natale del 800 d.C. Al termine della propria preghiera dinnanzi l’altare dell’Apostolo, Carlo Magno, già Re dei Franchi, viene incoronato “Imperatore dei Romani” da papa Leone III con la formula «Carlo Augusto, grande e pacifico imperatore dei Romani». E’ l’atto fondativo del Sacro Romano Impero, destinato,  insieme e in concorrenza con il Papato, a decidere le sorti d’Europa per ben 500 anni, fino a quando, cioè, un re regionale, Filippo IV il Bello, non si permetterà, in quel di Anagni, di mettere le mani addosso a Bonifacio VIII, sancendo, non solo metaforicamente, la fine dell’universalismo medievale.
La storiografia ha spesso sottolineato l’assoluta arbitrarietà del gesto del pontefice - volto a dimostrare la subordinazione del potere temporale a quello spirituale, secondo la teoria per la quale le spade temporale e spirituale appartengono entrambe al Vicario terreno di Cristo, il quale semplicemente delega la prima all’autorità secolare - e la furia con cui Carlo abbandonò la basilica, sussurrando a denti stretti, che, avesse saputo, non sarebbe nemmeno entrato in chiesa, nonostante la solennità religiosa. In realtà, questa versione, presente nella “Vita Karoli”, redatta da Eginardo tra l’814 e l’830, non sarebbe altro che una ricostruzione affatto veritiera, architettata con il fine politico di redimere l’immagine di Carlo agli occhi dell’Imperatore Bizantino, legittimo depositario delle insegne imperiali a partire dal 476 d.C., data di deposizione dell’ultimo imperatore occidentale Romolo Augustolo. 
Da allora in poi, i sovrani di Italia avevano esercitato tale ufficio con il semplice titolo di prefetti dell’imperatore bizantino, senza alcuna pretesa di esser riconosciuti forieri di un titolo attribuito, ormai, alla “seconda Roma”, Bisanzio. La falsità di tale rivisitazione, volta a stemperare post eventum l’irritazione bizantina, oltre ad esser suggerita dalla data di redazione di essa, una trentina di anni dopo i fatti, è confermata dalle testimonianze parallele degli “Annales Regni Francorum” e del “Liber Pontificalis” i quali riportano la grande cordialità tra il papa e il sovrano, il carattere festante della folla accorsa numerosa in San Pietro, nonché i numerosi regali portati in dono al pontefice da parte di Carlo, in occasione di una cerimonia, organizzata – non di certo improvvisata – al fine di innalzare Roma ai fasti dell’antica grandezza. La continuità con l’Impero Romano, garantita dal pontefice, rimasto dall’Editto di Costantino in poi, fermo governatore de facto della città, come sarà per un altro millennio e simboleggiata dal vestiario di Carlo il Grande - non le solite braghe e stivali barbarici usati usualmente dai Franchi, ma tunica bianca e calzari ai piedi, tradizionali vesti dei patrizi romani – si riscontrerà nel fasto di un’istituzione universale e teocraticamente legittimata, il cui carattere, tuttavia, sostanzialmente barbarico, non riporterà ai fasti del cesareo splendore un popolo, quello italiano, il cui dramma in un passivo passaggio da una dominazione ad un’altra è ben compendiato da Manzoni nel coro dell’Adelchi.


“Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de’ padri la fiera virtù:
Ne’ guardi, ne’ volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra sema e desire, s’avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De’ crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.


E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D’un volgo disperso che nome non ha.”




Il Papa editorialista sul Financial Times, tema: il Natale




 Il Papa ha scritto un articolo per il "Financial Times" rispondendo a una richiesta in tal senso della redazione del giornale, che, dopo la pubblicazione del suo libro sulla infanzia di Gesù,ha chiesto a Benedetto XVI un commento in occasione del Natale. L'articolo si intitola «Tempo di impegno nel mondo per i cristiani».

«Nonostante si trattasse di una richiesta insolita», spiega una nota della sala stampa vaticana, «il Santo Padre ha accettato con disponibilità». La nota ricorda inoltre la «disponibilità con cui il Papa aveva risposto anche in passato ad alcune richieste fuori del comune», e cita la richiesta di intervento alla Bbc, proprio in occasione del Natale alcuni mesi dopo il viaggio nel Regno Unito, o la richiesta di intervista televisiva per il programma «A sua immagine» della Rai, rispondendo a domande in occasione del Venerdì santo. In tutte queste occasioni, spiega la sala stampa vaticana, «si è trattato di occasioni per parlare di Gesù e del suo messaggio ad un ampio uditorio, nei momenti salienti dell'anno liturgico cristiano».

L'articolo. I cristiani devono lasciarsi coinvolgere nel mondo, impegnarsi anche nella vita politica e nell'economia, tuttavia dovrebbero «trascendere ogni forma di ideologia», scrive il Papa. «È nel Vangelo - afferma Benedetto XVI - che i cristiani trovano ispirazione per la vita quotidiana e per il loro coinvolgimento negli affari del mondo, sia che ciò avvenga nel Parlamento o nella Borsa». «I cristiani - aggiunge - non dovrebbero sfuggire il mondo; al contrario, dovrebbero impegnarsi in esso. Ma il loro coinvolgimento nella politica e nell'economia dovrebbe trascendere ogni forma di ideologia».

I cristiani combattono la povertà e lo sfruttamento perchè difendono la dignità umana. «I cristiani - spiega Benedetto XVI - combattono la povertà perchè riconoscono la dignità suprema di ogni essere umano, creato a immagine di Dio e destinato alla vita eterna». «I cristiani - aggiunge - operano per una condivisione equa delle risorse della terra perchè sono convinti che, quali amministratori della creazione di Dio, noi abbiamo il dovere di prendersi cura dei più deboli e dei più vulnerabili». «I cristiani - rileva ancora il Pontefice - si oppongono all'avidità e allo sfruttamento nel convincimento che la generosità e un amore dimentico di sè, insegnati e vissuti da Gesù di Nazareth, sono la via che conduce alla pienezza della vita. La fede cristiana nel destino trascendente di ogni essere umano implica l'urgenza del compito di promuovere la pace e la giustizia per tutti». «Poichè tali fini vengono condivisi da molti - afferma il Papa - è possibile una grande e fruttuosa collaborazione fra i cristiani e gli altri».

da ilmessaggero.it

I Maya ed il 21 dicembre: la resa dei conti


Sia come sia, ormai dal web alle tv alla stampa, teorie e contro-teorie si sono fatte spazio e il tema ha trovato posto nelle battute tra amici o in quelle dei comici più che nei convegni scientifici. Inutile fingere: tutti, in un modo o nell'altro ne parlano, personaggi famosi e gente comune. Chi ci crede davvero (una minoranza, s'intende) ha prenotato una stanza a Bugarach, paesino francese sui Pirenei che, secondo gli esperti di esoterismo sará l'unico luogo del pianeta a scampare all'Apocalisse. Disponibilità esaurite da tempo, così chi non ce l'ha fatta ha acquistato, a caro prezzo, kit di sopravvivenza oppure ha deciso di partire per altri luoghi dove evidentemente si immagina di godersi al meglio gli ultimi giorni: incredibile ma vero, secondo gli operatori di viaggio nell'ultima settimana si registrato un aumento di prenotazioni di voli aerei di sola andata. Per chi fosse interessato, un aggiornamento profetico dell'ultima ora salva anche la Valle d'Itria, in Puglia. Con grande gioia del sindaco di Cisternino che conta, più che sulla salvezza del mondo, su quella del turismo locale.

Dei timori irrazionali si può sorridere, ma non dappertutto: ci sono luoghi dove qualcuno prende le cose un po' troppo sul serio. In Cina, per esempio, sono stati arrestati 500 esponenti di una setta che diffondevano volantini, manifesti, sms e messaggi Internet nei quali si annunciava la fine del mondo. In Argentina è stato deciso che tra il 20 e il 21 dicembre interdetta una zona della provincia di Cordoba, dopo la convocazione via Facebook da parte di un gruppo di 150 persone che, sembra, programmano un suicidio di gruppo. Gli italiani ci credono poco, ma insomma... Uno su dieci un brivido ce l'ha, senza nemmeno sapere se debba aspettarsi un «big bang» o l'arrivo di Et. L'argomento però da noi sembra più fornire spunto per feste a tema, rappresentazioni teatrali e appuntamenti artistici: negli ultimi giorni gli annunci e gli inviti si sono moltiplicati. La scaramanzia costa infinitamente meno di un rifugio a prova di bomba che, tra l'altro, se davvero avessero ragione i Maya, potrebbe pure essere del tutto inutile. Redazione online

Polonia 1970: il sangue delle contraddizioni socialiste



La storia della Polonia rappresenta per molti di noi un grande punto interrogativo, nonostante questo paese svolse un ruolo fondamentale nella storia dell’Europa nel secondo dopoguerra. La dominazione comunista che seguì la guerra e che si protrasse fino al 1989 non solo ha dilaniato - o quantomeno tentato di dilaniare - il tessuto sociale e culturale di un intera nazione, ma ha dimostrate esso stesso la propria incapacità a livello politico e soprattutto economico.
Nel dicembre 1970 la Polonia fu oggetto di grandi movimenti, sorti dalle classi operaie e proletarie: la rivolta, scoppiata a Varsavia, fece pagare alla Polonia un altissimo tributo di sangue e raggiunse il suo apice nella città di Gdynia, sul mar Baltico, dove il 17 dicembre avvenne la più sanguinosa delle stragi causate dalla feroce repressione del governo. A Danzica e a Stettino sussistevano già da diversi giorni scioperi operai per ottenere aumenti salariali, ma il motivo contingente fu l’improvviso aumento dei prezzi del 20%, che causava una repentina perdita di valore del salario reale.
La rivolta non coinvolse le classi medio-alte né la borghesia, e assunse i caratteri tipici di una rivolta popolare mirata alla lotta proletaria: per due settimane in ogni città della Polonia si cantava l’Internazionale, si attaccavano gli uffici pubblici e la polizia e gli scioperi erano all’ordine del giorno. E tuttavia la rivolta non può essere definita una “sommossa della fame”: si tratta di una delle manifestazioni più evidenti delle contraddizioni interne di un paese in forte sviluppo economico ed industriale (all’epoca 11° paese industrializzato del mondo) dominato da un ferreo regime comunista, che cerca di divincolarsi dal social-imperialismo russo per trovare spazio nell’economia capitalista occidentale.

L'alba di un Astro di Pace



“Gaudete in Domino semper. Iterum dico: Gaudete!” (San Paolo, Lettera ai Filippesi 4,4). Il carattere gioioso con cui si apre (e si chiude) questo invito paolino, e che domani, nella liturgia della III Domenica di Avvento, sarà sottolineato dalla tinta rosea dei sacri paramenti, risveglia nel cuore del fedele il dolce tepore di speranzosa attesa del Redentore, che accompagna questa ultima decade prima del Santo Natale. Un’atmosfera di preparazione dello spirito che più che dai colori con cui si sono già da tempo accese le strade, al solo scopo di lucro, o dai preparativi con cui ci si accinge al trionfo della corporeità persino nella più santa delle notti, è ben testimoniata dalla muta e trepidante sospensione che alberga nella penombra dei presepi allestiti nelle nostre case, affinchè i nostri cuori divengano delle novelle Betlemme.
P. Joseph Mohr
Nella veracità di questo spirito di speranzosa attesa, vogliamo rimembrare la poetica e singolare vicenda della genesi del tanto noto quanto toccante canto natalizio “Stille Natch!”, meglio conosciuto, nella variante italiana (una delle trecento esistenti in altrettante lingue), con il nome di “Astro del Ciel”.
Il canto venne alla luce in nemmeno un giorno: la Vigilia di Natale del 1818, al solo fine di essere cantato la sera stessa, durante la funzione religiosa, nella chiesa di San Niccolò ad Obendorf (vicino Salisburgo). Il suo, autore, il curato della chiesa, Joseph Mohr, il quale aveva redatto il testo in forma di poesia già due anni prima, portò, quella mattina, a musicare il testo dal collaboratore della parrocchia Franz Xaver Gruber, insegnante ad Arnsdorf, pregandolo di comporre una melodia a due voci, con coro, accompagnato dalla chitarra, nel più breve tempo possibile affinchè si potessero effettuare le dovute prove. Il magistrale risultato, quello di un motivo dolce e orecchiabile, è con ogni probabilità da ascriversi proprio alla strettezza dei tempi a disposizione del compositore che, durante la Messa della Notte, duettò con lo stesso curato, nel ruolo, quegli, di basso e chitarrista, questi, di tenore.
Franz Xaver Gruber
L’enorme popolarità del canto fu invece frutto della fortunata coincidenza per la quale esso stesso nacque. La diffusione della canzone, infatti, fu merito delle coppie di sorelle canterine Strasser e Rainer le quali, cantandola per le valli dello Ziller e del Leipzig,  le permisero di essere inserita nei libri di canti liturgici e di lì di arrivare addirittura a New York nel 1839, non prima di essere stata cantata persino innanzi ai reali di Russia e Austria. Purtuttavia il terzo uomo, per usare un espressione aristotelica, tra le sorelle Strasser e la strana coppia formata dal prete e dal maestro di musica che, per prima, cantò “Stille Natch!” fu nientemeno che il mastro, costruttore di organi, Karl Mauracher, giunto dalla valle dello Ziller ad Obendorf, per riparare proprio quell’organo della chiesa, che, inutilizzabile a causa dei danni in esso cagionati da alcuni topi, aveva reso necessaria l’invenzione ex novo di questo nuovo canto natalizio a due voci.
Il ruolo svolto dalla Provvidenza nella vicenda cui abbiamo elevato il nostro sguardo pare non potersi che attribuire all’eterno messaggio di Redenzione insito nell’evento natalizio, mirabilmente espresso dalle parole della versione italiana del canto, la già citata “Astro del Ciel”, la quale, in quanto composizione originale – non semplice traduzione - del sacerdote bergamasco Angelo Meli, che la diede alla pubblicazione nel 1937, è pienamente conforme allo spirito creativo di un canto dato alla luce in una sola giornata.
 “Astro del Ciel, pargol divin,
Mite agnello, Redentor,
Tu che i Vati da lungi sognâr,
Tu che angeliche voci nunziâr,
Luce dona alle menti,
Pace infondi nei cuor.”


Benedetto XVI per la Giornata della Pace: non è un sogno

 1. Ogni anno nuovo porta con sé l’attesa di un mondo migliore. In tale prospettiva, prego Dio, Padre dell’umanità, di concederci la concordia e la pace, perché possano compiersi per tutti le aspirazioni di una vita felice e prospera.

A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, che ha consentito di rafforzare la missione della Chiesa nel mondo, rincuora constatare che i cristiani, quale Popolo di Dio in comunione con Lui e in cammino tra gli uomini, si impegnano nella storia condividendo gioie e speranze, tristezze ed angosce [1], annunciando la salvezza di Cristo e promuovendo la pace per tutti.

In effetti, i nostri tempi, contrassegnati dalla globalizzazione, con i suoi aspetti positivi e negativi, nonché da sanguinosi conflitti ancora in atto e da minacce di guerra, reclamano un rinnovato e corale impegno nella ricerca del bene comune, dello sviluppo di tutti gli uomini e di tutto l’uomo.

Allarmano i focolai di tensione e di contrapposizione causati da crescenti diseguaglianze fra ricchi e poveri, dal prevalere di una mentalità egoistica e individualista espressa anche da un capitalismo finanziario sregolato. Oltre a svariate forme di terrorismo e di criminalità internazionale, sono pericolosi per la pace quei fondamentalismi e quei fanatismi che stravolgono la vera natura della religione, chiamata a favorire la comunione e la riconciliazione tra gli uomini.

E tuttavia, le molteplici opere di pace, di cui è ricco il mondo, testimoniano l’innata vocazione dell’umanità alla pace. In ogni persona il desiderio di pace è aspirazione essenziale e coincide, in certa maniera, con il desiderio di una vita umana piena, felice e ben realizzata. In altri termini, il desiderio di pace corrisponde ad un principio morale fondamentale, ossia, al dovere-diritto di uno sviluppo integrale, sociale, comunitario, e ciò fa parte del disegno di Dio sull’uomo. L’uomo è fatto per la pace che è dono di Dio.

Tutto ciò mi ha suggerito di ispirarmi per questo Messaggio alle parole di Gesù Cristo: « Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » (Mt 5,9).

La beatitudine evangelica

2. Le beatitudini, proclamate da Gesù (cfr Mt 5,3-12 e Lc 6,20-23), sono promesse. Nella tradizione biblica, infatti, quello della beatitudine è un genere letterario che porta sempre con sé una buona notizia, ossia un vangelo, che culmina in una promessa. Quindi, le beatitudini non sono solo raccomandazioni morali, la cui osservanza prevede a tempo debito – tempo situato di solito nell’altra vita – una ricompensa, ossia una situazione di futura felicità. La beatitudine consiste, piuttosto, nell’adempimento di una promessa rivolta a tutti coloro che si lasciano guidare dalle esigenze della verità, della giustizia e dell’amore. Coloro che si affidano a Dio e alle sue promesse appaiono spesso agli occhi del mondo ingenui o lontani dalla realtà. Ebbene, Gesù dichiara ad essi che non solo nell’altra vita, ma già in questa scopriranno di essere fi gli di Dio, e che da sempre e per sempre Dio è del tutto solidale con loro. Comprenderanno che non sono soli, perché Egli è dalla parte di coloro che s’impegnano per la verità, la giustizia e l’amore. Gesù, rivelazione dell’amore del Padre, non esita ad offrirsi nel sacrificio di se stesso. Quando si accoglie Gesù Cristo, Uomo-Dio, si vive l’esperienza gioiosa di un dono immenso: la condivisione della vita stessa di Dio, cioè la vita della grazia, pegno di un’esistenza pienamente beata. Gesù Cristo, in particolare, ci dona la pace vera che nasce dall’incontro fiducioso dell’uomo con Dio.

La beatitudine di Gesù dice che la pace è dono messianico e opera umana ad un tempo. In effetti, la pace presuppone un umanesimo aperto alla trascendenza. È frutto del dono reciproco, di un mutuo arricchimento, grazie al dono che scaturisce da Dio e permette di vivere con gli altri e per gli altri. L’etica della pace è etica della comunione e della condivisione. È indispensabile, allora, che le varie culture odierne superino antropologie ed etiche basate su assunti teorico-pratici meramente soggettivistici e pragmatici, in forza dei quali i rapporti della convivenza vengono ispirati a criteri di potere o di profitto, i mezzi diventano fini e viceversa, la cultura e l’educazione sono centrate soltanto sugli strumenti, sulla tecnica e sull’efficienza. Precondizione della pace è lo smantellamento della dittatura del relativismo e dell’assunto di una morale totalmente autonoma, che preclude il riconoscimento dell’imprescindibile legge morale naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo. La pace è costruzione della convivenza in termini razionali e morali, poggiando su un fondamento la cui misura non è creata dall’uomo, bensì da Dio. « Il Signore darà potenza al suo popolo, benedirà il suo popolo con la pace », ricorda il Salmo 29 (v. 11).

La pace: dono di Dio e opera dell’uomo

3. La pace concerne l’integrità della persona umana ed implica il coinvolgimento di tutto l’uomo. È pace con Dio, nel vivere secondo la sua volontà. È pace interiore con se stessi, e pace esteriore con il prossimo e con tutto il creato. Comporta principalmente, come scrisse il beato Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris, di cui tra pochi mesi ricorrerà il cinquantesimo anniversario, la costruzione di una convivenza fondata sulla verità, sulla libertà, sull’amore e sulla giustizia [2]. La negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’essere umano, nelle sue dimensioni essenziali, nella sua intrinseca capacità di conoscere il vero e il bene e, in ultima analisi, Dio stesso, mette a repentaglio la costruzione della pace. Senza la verità sull’uomo, iscritta dal Creatore nel suo cuore, la libertà e l’amore sviliscono, la giustizia perde il fondamento del suo esercizio.

Per diventare autentici operatori di pace sono fondamentali l’attenzione alla dimensione trascendente e il colloquio costante con Dio, Padre misericordioso, mediante il quale si implora la redenzione conquistataci dal suo Figlio Unigenito. Così l’uomo può vincere quel germe di oscuramento e di negazione della pace che è il peccato in tutte le sue forme: egoismo e violenza, avidità e volontà di potenza e di dominio, intolleranza, odio e strutture ingiuste.

La realizzazione della pace dipende soprattutto dal riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana. Essa si struttura, come ha insegnato l’Enciclica Pacem in terris, mediante relazioni interpersonali ed istituzioni sorrette ed animate da un « noi » comunitario, implicante un ordine morale, interno ed esterno, ove si riconoscono sinceramente, secondo verità e giustizia, i reciproci diritti e i vicendevoli doveri. La pace è ordine vivificato ed integrato dall’amore, così da sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui, fare partecipi gli altri dei propri beni e rendere sempre più diffusa nel mondo la comunione dei valori spirituali. È ordine realizzato nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di persone, che per la loro stessa natura razionale, assumono la responsabilità del proprio operare [3].

La pace non è un sogno, non è un’utopia: è possibile. I nostri occhi devono vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio e chiamato a crescere, contribuendo all’edificazione di un mondo nuovo. Infatti, Dio stesso, mediante l’incarnazione del Figlio e la redenzione da Lui operata, è entrato nella storia facendo sorgere una nuova creazione e una nuova alleanza tra Dio e l’uomo (cfr Ger 31,31-34), dandoci la possibilità di avere « un cuore nuovo » e « uno spirito nuovo » (cfr Ez 36,26).

Proprio per questo, la Chiesa è convinta che vi sia l’urgenza di un nuovo annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore dello sviluppo integrale dei popoli e anche della pace. Gesù, infatti, è la nostra pace, la nostra giustizia, la nostra riconciliazione (cfr Ef 2,14; 2 Cor 5,18). L’operatore di pace, secondo la beatitudine di Gesù, è colui che ricerca il bene dell’altro, il bene pieno dell’anima e del corpo, oggi e domani.

Da questo insegnamento si può evincere che ogni persona e ogni comunità – religiosa, civile, educativa e culturale –, è chiamata ad operare la pace. La pace è principalmente realizzazione del bene comune delle varie società, primarie ed intermedie, nazionali, internazionali e in quella mondiale. Proprio per questo si può ritenere che le vie di attuazione del bene comune siano anche le vie da percorrere per ottenere la pace.

Operatori di pace sono coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua integralità

4. Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale. Veri operatori di pace sono, allora, coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente. La vita in pienezza è il vertice della pace. Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita.

Coloro che non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana e, per conseguenza, sostengono per esempio la liberalizzazione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria. La fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace. Come si può, infatti, pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri? Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita.

Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale.

Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace.

Perciò, è anche un’importante cooperazione alla pace che gli ordinamenti giuridici e l’amministrazione della giustizia riconoscano il diritto all’uso del principio dell’obiezione di coscienza nei confronti di leggi e misure governative che attentano contro la dignità umana, come l’aborto e l’eutanasia.

Tra i diritti umani basilari, anche per la vita pacifica dei popoli, vi è quello dei singoli e delle comunità alla libertà religiosa. In questo momento storico, diventa sempre più importante che tale diritto sia promosso non solo dal punto di vista negativo, come libertà da – ad esempio, da obblighi e costrizioni circa la libertà di scegliere la propria religione –, ma anche dal punto di vista positivo, nelle sue varie articolazioni, come libertà di: ad esempio, di testimoniare la propria religione, di annunciare e comunicare il suo insegnamento; di compiere attività educative, di beneficenza e di assistenza che permettono di applicare i precetti religiosi; di esistere e agire come organismi sociali, strutturati secondo i principi dottrinali e i fini istituzionali che sono loro propri. Purtroppo, anche in Paesi di antica tradizione cristiana si stanno moltiplicando gli episodi di intolleranza religiosa, specie nei confronti del cristianesimo e di coloro che semplicemente indossano i segni identitari della propria religione.

L’operatore di pace deve anche tener presente che, presso porzioni crescenti dell’opinione pubblica, le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali. Ora, va considerato che questi diritti e doveri sono fondamentali per la piena realizzazione di altri, a cominciare da quelli civili e politici.

Tra i diritti e i doveri sociali oggi maggiormente minacciati vi è il diritto al lavoro. Ciò è dovuto al fatto che sempre più il lavoro e il giusto riconoscimento dello statuto giuridico dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati, perché lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati. Il lavoro viene considerato così una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari. A tale proposito, ribadisco che la dignità dell’uomo, nonché le ragioni economiche, sociali e politiche, esigono che si continui « a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti » [4]. In vista della realizzazione di questo ambizioso obiettivo è precondizione una rinnovata considerazione del lavoro, basata su principi etici e valori spirituali, che ne irrobustisca la concezione come bene fondamentale per la persona, la famiglia, la società. A un tale bene corrispondono un dovere e un diritto che esigono coraggiose e nuove politiche del lavoro per tutti.

Costruire il bene della pace mediante un nuovo modello di sviluppo e di economia

5. Da più parti viene riconosciuto che oggi è necessario un nuovo modello di sviluppo, come anche un nuovo sguardo sull’economia. Sia uno sviluppo integrale, solidale e sostenibile, sia il bene comune esigono una corretta scala di beni-valori, che è possibile strutturare avendo Dio come riferimento ultimo. Non è sufficiente avere a disposizione molti mezzi e molte opportunità di scelta, pur apprezzabili. Tanto i molteplici beni funzionali allo sviluppo, quanto le opportunità di scelta devono essere usati secondo la prospettiva di una vita buona, di una condotta retta che riconosca il primato della dimensione spirituale e l’appello alla realizzazione del bene comune. In caso contrario, essi perdono la loro giusta valenza, finendo per assurgere a nuovi idoli.

Per uscire dall’attuale crisi finanziaria ed economica – che ha per effetto una crescita delle disuguaglianze – sono necessarie persone, gruppi, istituzioni che promuovano la vita favorendo la creatività umana per trarre, perfino dalla crisi, un’occasione di discernimento e di un nuovo modello economico. Quello prevalso negli ultimi decenni postulava la ricerca della massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica, intesa a valutare le persone solo per la loro capacità di rispondere alle esigenze della competitività. In un’altra prospettiva, invece, il vero e duraturo successo lo si ottiene con il dono di sé, delle proprie capacità intellettuali, della propria intraprendenza, poiché lo sviluppo economico vivibile, cioè autenticamente umano, ha bisogno del principio di gratuità come espressione di fraternità e della logica del dono [5]. Concretamente, nell’attività economica l’operatore di pace si configura come colui che instaura con i collaboratori e i colleghi, con i committenti e gli utenti, rapporti di lealtà e di reciprocità. Egli esercita l’attività economica per il bene comune, vive il suo impegno come qualcosa che va al di là del proprio interesse, a beneficio delle generazioni presenti e future. Si trova così a lavorare non solo per sé, ma anche per dare agli altri un futuro e un lavoro dignitoso.

Nell’ambito economico, sono richieste, specialmente da parte degli Stati, politiche di sviluppo industriale ed agricolo che abbiano cura del progresso sociale e dell’universalizzazione di uno Stato di diritto e democratico. È poi fondamentale ed imprescindibile la strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali; essi vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri. La sollecitudine dei molteplici operatori di pace deve inoltre volgersi – con maggior risolutezza rispetto a quanto si è fatto sino ad oggi – a considerare la crisi alimentare, ben più grave di quella finanziaria. Il tema della sicurezza degli approvvigionamenti alimentari è tornato ad essere centrale nell’agenda politica internazionale, a causa di crisi connesse, tra l’altro, alle oscillazioni repentine dei prezzi delle materie prime agricole, a comportamenti irresponsabili da parte di taluni operatori economici e a un insufficiente controllo da parte dei Governi e della Comunità internazionale. Per fronteggiare tale crisi, gli operatori di pace sono chiamati a operare insieme in spirito di solidarietà, dal livello locale a quello internazionale, con l’obiettivo di mettere gli agricoltori, in particolare nelle piccole realtà rurali, in condizione di poter svolgere la loro attività in modo dignitoso e sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale ed economico.

Educazione per una cultura di pace: il ruolo della famiglia e delle istituzioni

6. Desidero ribadire con forza che i molteplici operatori di pace sono chiamati a coltivare la passione per il bene comune della famiglia e per la giustizia sociale, nonché l’impegno di una valida educazione sociale.

Nessuno può ignorare o sottovalutare il ruolo decisivo della famiglia, cellula base della società dal punto di vista demografico, etico, pedagogico, economico e politico. Essa ha una naturale vocazione a promuovere la vita: accompagna le persone nella loro crescita e le sollecita al mutuo potenziamento mediante la cura vicendevole. In specie, la famiglia cristiana reca in sé il germinale progetto dell’educazione delle persone secondo la misura dell’amore divino. La famiglia è uno dei soggetti sociali indispensabili nella realizzazione di una cultura della pace. Bisogna tutelare il diritto dei genitori e il loro ruolo primario nell’educazione dei figli, in primo luogo nell’ambito morale e religioso. Nella famiglia nascono e crescono gli operatori di pace, i futuri promotori di una cultura della vita e dell’amore [6].

In questo immenso compito di educazione alla pace sono coinvolte in particolare le comunità religiose. La Chiesa si sente partecipe di una così grande responsabilità attraverso la nuova evangelizzazione, che ha come suoi cardini la conversione alla verità e all’amore di Cristo e, di conseguenza, la rinascita spirituale e morale delle persone e delle società. L’incontro con Gesù Cristo plasma gli operatori di pace impegnandoli alla comunione e al superamento dell’ingiustizia.

Una missione speciale nei confronti della pace è ricoperta dalle istituzioni culturali, scolastiche ed universitarie. Da queste è richiesto un notevole contributo non solo alla formazione di nuove generazioni di leader, ma anche al rinnovamento delle istituzioni pubbliche, nazionali e internazionali. Esse possono anche contribuire ad una riflessione scientifica che radichi le attività economiche e finanziarie in un solido fondamento antropologico ed etico. Il mondo attuale, in particolare quello politico, necessita del supporto di un nuovo pensiero, di una nuova sintesi culturale, per superare tecnicismi ed armonizzare le molteplici tendenze politiche in vista del bene comune. Esso, considerato come insieme di relazioni interpersonali ed istituzionali positive, a servizio della crescita integrale degli individui e dei gruppi, è alla base di ogni vera educazione alla pace.

Una pedagogia dell’operatore di pace

7. Emerge, in conclusione, la necessità di proporre e promuovere una pedagogia della pace. Essa richiede una ricca vita interiore, chiari e validi riferimenti morali, atteggiamenti e stili di vita appropriati. Difatti, le opere di pace concorrono a realizzare il bene comune e creano l’interesse per la pace, educando ad essa. Pensieri, parole e gesti di pace creano una mentalità e una cultura della pace, un’atmosfera di rispetto, di onestà e di cordialità. Bisogna, allora, insegnare agli uomini ad amarsi e a educarsi alla pace, e a vivere con benevolenza, più che con semplice tolleranza. Incoraggiamento fondamentale è quello di « dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza cercarle, e infine di perdonare » [7], in modo che gli sbagli e le offese possano essere riconosciuti in verità per avanzare insieme verso la riconciliazione. Ciò richiede il diffondersi di una pedagogia del perdono. Il male, infatti, si vince col bene, e la giustizia va ricercataimitando Dio Padre che ama tutti i suoi fi gli (cfr Mt 5,21-48). È un lavoro lento, perché suppone un’evoluzione spirituale, un’educazione ai valori più alti, una visione nuova della storia umana. Occorre rinunciare alla falsa pace che promettono gli idoli di questo mondo e ai pericoli che la accompagnano, a quella falsa pace che rende le coscienze sempre più insensibili, che porta verso il ripiegamento su se stessi, verso un’esistenza atrofizzata vissuta nell’indifferenza. Al contrario, la pedagogia della pace implica azione, compassione, solidarietà, coraggio e perseveranza.

Gesù incarna l’insieme di questi atteggiamenti nella sua esistenza, fi no al dono totale di sé, fino a « perdere la vita » (cfr Mt 10,39; Lc 17,33; Gv 12,25). Egli promette ai suoi discepoli che, prima o poi, faranno la straordinaria scoperta di cui abbiamo parlato inizialmente, e cioè che nel mondo c’è Dio, il Dio di Gesù, pienamente solidale con gli uomini. In questo contesto, vorrei ricordare la preghiera con cui si chiede a Dio di renderci strumenti della sua pace, per portare il suo amore ove è odio, il suo perdono ove è offesa, la vera fede ove è dubbio. Da parte nostra, insieme al beato Giovanni XXIII, chiediamo a Dio che illumini i responsabili dei popoli, affinché accanto alla sollecitudine per il giusto benessere dei loro cittadini garantiscano e difendano il prezioso dono della pace; accenda le volontà di tutti a superare le barriere che dividono, a rafforzare i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri e a perdonare coloro che hanno recato ingiurie, così che in virtù della sua azione, tutti i popoli della terra si affratellino e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace [8].

Con questa invocazione, auspico che tutti possano essere veri operatori e costruttori di pace, in modo che la città dell’uomo cresca in fraterna concordia, nella prosperità e nella pace.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2012



BENEDICTUS PP XVI



[1] Cfr CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 1.

[2] Cfr Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963): AAS 55 (1963), 265-266.

[3] Cfr ibid.: AAS 55 (1963), 266.

[4] BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666-667.

[5] Cfr ibid., 34 e 36: AAS 101 (2009), 668-670 e 671-672.

[6] Cfr GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1994 (8 dicembre 1993): AAS 86 (1994), 156-162.

[7] BENEDETTO XVI, Discorso in occasione dell’Incontro con i membri del Governo, delle istituzioni della Repubblica, con il corpo diplomatico, i capi religiosi e rappresentanze del mondo della cultura, Baabda-Libano (15 settembre 2012): L’Osservatore Romano, 16 settembre 2012, p. 7.

[8] Cfr Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963): AAS 55 (1963), 304.

A 43 anni da Piazza Fontana

A 43 anni dalla strage di Piazza Fontana riportiamo un articolo del 27 marzo 2012 a firma di Antonio Maria Mura sul film di Marco Tullio Giordana sulla strage, dal titolo Il romanzo di una strage.
«Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Ma non ho le prove». Così scriveva Pier Paolo Pasolini il 14 novembre 1974, a proposito della strage di piazza Fontana. «Oggi invece abbiamo le prove, possiamo fare i nomi dei responsabili, ma la giustizia è ormai chiusa». Così ragiona il regista Marco Tullio Giordana. E così lo racconta il suo bel film, Il romanzo di una strage, che da quello scritto di Pasolini mutua il titolo. Romanzo, dunque, e non documentario, anche se personaggi, intrecci, ricostruzioni offrono davvero quelle prove che Pasolini non aveva. Tentando anche di sciogliere quell’intreccio di "verità" sovrapposte che hanno caratterizzato inchieste lunghe quaranta anni. Due frasi che sintetizzano la vicenda della "madre di tutte le stragi", il "giorno dell’innocenza perduta" del Paese. «Giustizia chiusa» come si legge nei titoli di coda del film. Non solo per la strage del 12 dicembre 1969, ma anche per l’omicidio del commissario Calabresi e di Aldo Moro, personaggi centrali (i giusti) della trama del film, ma anche della trama reale. Chiusa e non riapribile. Neofascisti sicuramente responsabili di quella bomba e di quelle che l’avevano preceduta. Ma riconosciuti fuori tempo massimo, in quanto precedentemente assolti nei tre gradi di giudizio. Verità storica. Bombe per spingere la politica verso una svolta autoritaria. Non colpo di Stato alla greca, ma leggi speciali. Ne ha immediata e tremenda contezza Aldo Moro, allora ministro degli Esteri, riuscendo a convincere il capo dello Stato, Giuseppe Saragat a non imboccare questa strada. Quella che il "nero" Franco Freda nel film sintetizza nella frase «ci verranno tutti dietro». Il colloquio tra Moro e Saragat è, evidentemente, una ricostruzione ipotetica, ma basta leggere quanto lo statista Dc scrive dalla "prigione del popolo" delle Br per comprendere che le sue idee sulla strage erano chiarissime. «La pista era vistosamente nera, come si è poi rapidamente conosciuto. Fino a questo momento non è stato compiutamente definito il ruolo (preminente) del Sid (il servizio segreto militare, <+corsivo>ndr<+tondo>) e quello (pur esistente) delle forze di Polizia. Ma che questa implicazione ci sia non c’è dubbio». E sempre nella stesso memoriale Moro ne spiega anche il perché: «La cosiddetta strategia della tensione ebbe la finalità di rimettere l’Italia nei binari della "normalità" dopo le vicende del ’68 e il cosiddetto autunno caldo». Con l’inquietante ruolo di Paesi stranieri. Sembra proprio di leggere parti del copione di Fabrizio Gifuni, il Moro del film.
Una ricostruzione, quella di Giordana e degli sceneggiatori, precisa e documentata. Depistaggi, spostamenti dei processi, bombe anarchiche "potenziate" da quelle neofasciste (è la tesi del doppio ordigno in piazza Fontana), prove scomparse. Per bloccare le indagini quando imboccano la strada giusta. Quella che vorrebbe prendere Calabresi, malgrado i consigli dei suoi superiori, poco prima di venire ucciso. Colpito per quello che stava scoprendo o per la morte dell’anarchico Pinelli? Il film sembra propendere per la prima ipotesi, confermata anche dall’eccessiva fretta, denunciata anche dal figlio Mario, con cui affronta il linciaggio di Calabresi da parte di Lotta continua, movimento del quale facevano parte Sofri, Pietrostefani e Bompressi, condannati definitivamente per l’omicidio. Tesi un po’ partigiana. Piuttosto non è da escludere che il loro progetto assassino fosse ben noto (Lotta continua era sicuramente infiltrata), ma nessuno intervenne per bloccarlo. E il cerchio si chiuderebbe. Visto che anche il progetto di piazza Fontana era ben noto. Ma nessuno lo fermò. Pensando di utilizzare "neri" e "rossi".