Il Nome della Rosa, quando il romanzo storico dimentica la storia


Il Nome della rosa, dato alle stampe per la prima volta nel 1980, è il romanzo di maggior successo di Umberto Eco, critico, saggista e scrittore italiano di fama internazionale candidato l’anno passato al Nobel per la letteratura. Il libro narra le vicende di una non meglio identificata abbazia del Nord Italia nel 1327, quando fu sconvolta da una serie di terribili omicidi. I protagonisti sono Adso, novizio benedettino, e il suo maestro Guglielmo, giunto nel convento per prendere parte ad una disputa sulla povertà di Cristo e, in seguito, incaricato dall’abate di indagare sulla misteriosa morte di un miniatore, alla quale ne seguiranno altre, altrettanto misteriose, nei giorni seguenti. In questo contesto appare Bernardo Gui, inquisitore dell’ordine domenicano, che oltre ad interessarsi alla discussione, improvvisa degli interrogatori sugli oscuri delitti, in seguito ai quali porterà via sulla strada di Avignone due monaci ex-dolciniani accusati di eresia e una ragazza con l’accusa di stregoneria. L’inchiesta di Guglielmo, che si svolge nell’arco di 7 giorni , si conclude con la scoperta dell’assassino, il vecchio Jorge, che, pur di tenere nascosto il manoscritto contenente il secondo libro della Poetica di Aristotele, ne aveva avvelenato le pagine, comportando così la morte dei lettori; la narrazione termina con un incendio che distruggerà l’intera abbazia insieme ai suoi volumi.Il titolo, su cui si sofferma lo stesso autore nelle Postille all’opera, è dovuto a un verso di Bernardo Cluniacense, che Eco rivede variandone il senso: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”[1]. L’esametro originale ha il termine “Roma” al posto di “rosa”, che l’autore ha scelto in quanto “figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno”[2]. Il verso riportato a conclusione del racconto affronta un tema ricorrente nel pensiero medievale, peraltro già trattato nel corso della narrazione da Guglielmo, ovvero il contrasto fra realisti e nominalisti. Guglielmo affronta questo problema quando stupisce i monaci con la puntigliosa descrizione di un cavallo che non ha mai visto; alla richiesta di spiegazioni da parte del suo discepolo, lui afferma che, trovandosi “fra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un’idea universale”[3] ha preferito la prima, accantonando la seconda, poiché ritiene le idee universali “puri segni”[4]. Le idee del frate ricalcano chiaramente quelle di Guglielmo da Occam -di cui si dichiara amico- frate francescano inglese nemico dell’allora pontefice Giovanni XXII, che esprimono un nominalismo relativista per il quale la conoscenza si limita alle realtà individuali e gli universali sono “puri segni”[5]. Il protagonista conclude il pensiero del proprio amico affermando che “l’unica verità è imparare a liberarci dall’insana passione per la verità”[6], enunciando drasticamente le basi del pensiero debole dell’età contemporanea.


Il Nome della rosa può quindi essere letto come romanzo a chiave sull’età contemporanea, di cui esprime il pensiero dominante. Eco nello scrivere questo libro tenta di immedesimarsi nella mens dell’uomo medievale per dare luogo a un’opera che sembri storica, prendendo spunto da un manoscritto medievale. Perciò appare lecito e degno di interesse analizzare l’opera secondo i quattro sensi dell’allegorismo medievale suggeritici da Dante nell’epistola a Cangrande della Scala. A una lettura a livello letterale il romanzo appare come un poliziesco di ambientazione storica, a livello allegorico un romanzo a chiave sull’età contemporanea, mentre risulta difficile darne una lettura di senso morale e, ancor di più, anagogico. Il libro si rivela infatti una critica cieca, negativa e senza prospettive della società medievale che viene descritta; la stessa storia, che narra eventi quanto mai dissoluti, finisce per negare ogni assunto morale. Come si può dunque dare una lettura di senso morale a un’opera che manca di fiducia nella moralità delle azioni dell’uomo? Il romanzo narra di un monastero, luogo della fede per eccellenza, che diviene teatro di azioni empie e peccaminose che vanno contro la stessa fede; è quindi assente qualsiasi senso anagogico, perché relativo ai più profondi misteri di una fede negata. Nel libro, così come manca la fiducia nella moralità delle azioni dell’uomo, manca anche quella nel suo intelletto, perché viene preclusa all’uomo la possibilità di conoscere la verità.

Il genere del libro di Eco è di difficile identificazione ed è stato oggetto di numerose discussioni, ma quello che meno gli si addice è il genere storico. Sono facilmente identificabili all’interno del romanzo numerose incongruenze storiche e grossolani errori -di poco conto per l’evolversi della storia-, ma anche astute manipolazioni, rese ancor più gravi dall’approfondita conoscenza del Medio Evo da parte dell’autore e dalla sua intenzione di scrivere un romanzo storico. Per ben due volte vengono citati nel manoscritto i peperoni, verdura importata dall’America e diffusasi solo due secoli più tardi; nel finale Jorge azzarda un paragone con un violino, strumento inventato solo ai primi del XVI secolo.
Ma oltre a queste piccole imprecisioni, sono presenti errori ben più gravi, che compromettono il carattere storico del romanzo, che difatti descrive una realtà distorta. Uno dei più evidenti riguarda i monaci, che nel racconto censurano i libri più scomodi e tengono quindi celata la cultura; questo errore è figlio di un pensiero contemporaneo molto diffuso, che non rende atto ai monaci di essere stati i salvatori della cultura durante il Medio Evo, non solo conservando e copiando libri, ma anche mettendo in grado la popolazione di conoscerli e apprezzarli, insegnando a leggere e scrivere. Errore piuttosto fuorviante è anche quello circa l’Inquisizione, che nel libro pare un tribunale ideologico, e la figura dell’inquisitore Bernardo Gui, al quale “interessa solo bruciare gli imputati”[7]. Queste tesi si rivelano false e capziose, perché l’Inquisizione assume un ruolo determinante solo alla fine del Medio Evo, per contrapporsi a movimenti quali i catari e i dolciniani, che, con le loro condotte violente, non mettevano in pericolo la solidissima dottrina della Chiesa, ma l’incolumità fisica e la sicurezza di interi paesi. “Sarai dannato e condannato se confesserai e sarai dannato e condannato se non confesserai”[8] afferma all’imputato Bernardo, che viene così descritto ben diversamente da come le fonti storiche ci presentano il personaggio: per anni interi non emise condanne e su oltre 900 casi affrontati in soli 40 rimise gli imputati al braccio secolare. Inverosimile è anche l’elemento di supporto della trama, ovvero l’intenzione della Chiesa di tenere nascosto il secondo libro della Poetica di Aristotele in quanto esaltazione dell’umorismo. Infatti era pensiero diffuso nella Cristianità medievale che l’umorismo vano e malizioso fosse da evitare, ma l’umorismo in sé non fosse peccato, bensì potesse essere virtuoso. Lo stesso “Dottore d’Aquino” più volte citato nel racconto, ma non in questo ambito, afferma nella Summa Theologiae che “in defectu ludi non est aliquod peccatum”[9] e che “defctus ludi magis pertinet ad virtutem quam ad vitium”[10]. Inoltre i monaci, e i benedettini in particolare, hanno conservato moltissime commedie classiche, persino moralmente discutibili ed è proprio grazie a loro che durante il Medio Evo si è avuta una notevole rivalutazione del mondo classico, teatro compreso. Gli ideali anti-cattolici che emergono dall’analisi di questi dati sono confermati anche dalla presenza, fra le pagine del libro, dei giudizi di molti pensatori del nostro secolo ostili alla Chiesa[11].
D’altro canto l’autore cerca di avvalorare questi pensieri introducendo citazioni dalle Sacre Scritture non solo sulla bocca dei monaci, ma anche nella narrazione di Adso, come i primi versetti del Vangelo di San Giovanni in apertura di manoscritto e, poco dopo, la frase dalla lettera di San Paolo ai Corinzi, il cui senso viene però stravolto. L’autore attinge a piene mani non solo dalla Bibbia, ma anche dai classici della letteratura italiana, con citazioni -su tutte, quelle da Dante- e la ripresa di espedienti narrativi, come quello manzoniano del manoscritto ritrovato, presente in molte opere, e il sistema di narrazione divisa per giorni secondo l’impostazione del Decameron di Boccaccio. La lingua che lo scrittore utilizza nel romanzo è particolarmente ampia, intrisa di termini arcaici, latinismi ed intere frasi in latino, francese e tedesco. Ad Eco bisogna però dare merito di essere stato l’iniziatore del genere poliziesco moderno, che, a differenza dei romanzi di Agatha Christie, Conan Doyle, Edgar Allan Poe e altri scrittori di gialli a lui precedenti, non si limita alla narrazione di un intreccio poliziesco, ma è mezzo per esprimere i propri pensieri e i propri interessi. Ciò non autorizza però l’autore a imporre come vera una storia stravolta nel proprio corso per dare credito alle sue opinioni, non rispettando né la verità storica né i lettori, spesso convinti di leggere un romanzo storico basato su fonti solide e certe.

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[1] U.Eco, Il nome della rosa, Bompiani, XXIII ed., p.503
[2] U.Eco, Ivi, Postille, p.508
[3] U.Eco, Ivi, p.36
[4] U.Eco, Ibidem
[5] U.Eco, Ibidem
[6] U.Eco, Ivi, p.394
[7] U.Eco, Ivi, p.397
[8] U.Eco, Ivi, p.384
[9] Tommaso da Aquino, Summa Theologiae, 2a2ae, 168, 4
[10] Ibidem
[11] La teoria secondo la quale chi fosse oggetto di tortura provasse un’estasi mistica appartiene al francese Geoges Bataille; il passo in cui Guglielmo dubita della veridicità delle reliquie è invece tratto da Roger Peyrefitte, peraltro smentito da uno scienziato contemporaneo dichiaratamente agnostico italiano, Pier Luigi Baima Bollone.

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