Dongo, 27 Aprile 1945. A queste
coordinate spazio-temporali è impossibile non associare istantaneamente la
cattura di Mussolini, in ritirata verso il ridotto della Valtellina - o piuttosto
in fuga verso la Svizzera – e la sua barbara uccisione il giorno successivo. Di
inchiostro sull’argomento ne è scorso e ne scorre a fiumi, ad esempio riguardo
l’inspiegabile decisione di Hans Fallmeyer, designato da Hitler “angelo custode
del duce”, di arrestare l’avanzata della colonna, comprendente oltre a 200
soldati tedeschi, armati fino ai denti, anche Mussolini e la Petacci, dinanzi una
timida resistenza dei partigiani, facilmente forzabile, e di scendere a patti
con essi, rivelando la presenza dell’ex duce. In quella data di 67 anni or
sono, giace la verità su molte vicende, tramandate in modo menzognero per
troppo tempo.
Potremmo trovarvi prove del vergognoso tradimento di Mussolini da
parte dei Tedeschi, i quali non hanno mai nascosto di considerare noi Italiani dei traditori, forse ignorando che a Dongo,
quel giorno, a consegnar il duce ai partigiani non fu soltanto il tenente
Fallmeyer ma gli stessi soldati teutonici, che lo smascherarono durante il
controllo che stava eludendo, travestito proprio da uno di loro. Si potrebbe
inoltre far luce sulla reale morte di Mussolini, non fucilato da regolare
plotone come vorrebbero le fonti ufficiali, ma massacrato da un gruppo di partigiani
in seguito al suo rifiuto di consegnar loro una fantomatica lista contenente
l’elenco dei beni trafugati dai nazifascisti in ritirata. Al pittoresco paesino
sul Lago di Como è, ancora, legato il misterioso carteggio della corrispondenza
tra Churchill e Mussolini il quale svelerebbe importanti retroscena sui piani
che il duce aveva, opportunamente, escogitato per mettersi in salvo. Ma insieme
a Mussolini, alla Petacci, agli altri gerarchi fascisti con famiglie e amanti
al seguito e ai documenti Top Secret del duce, a Dongo il 27 aprile giunge
anche il Tesoro del Fascismo. Si tratta, secondo le testimonianze e i verbali
partigiani di 30 chili delle fedi in oro donate alla patria nel 1935, 70 chili
di gioielli e lingotti e ben 475 kg di oro posto in 5 damigiane da 48 lt
ciascuna (per un totale dunque di oltre mezza tonnellata di metallo prezioso);
inoltre un valore stimato attorno ai 600 milioni di Euro in banconote, pellicce
ed altri beni. Sulla scomparsa di questo patrimonio immenso, alla quale sono
legati anche molti omicidi nella zona nell’immediato Dopoguerra, si cercò di
fare chiarezza ben 12 anni dopo con un processo istituito contro 37 partigiani accusati
dell’appropriazione di tale denaro: l’azione giudiziaria non ebbe seguito a causa
del suicidio di uno dei giurati dopo 4 mesi e dell’intercorsa prescrizione per
molti imputati. E’ stato però dimostrato che parte del tesoro di Dongo venne
usato dal PCI per l’acquisto della propria sede in Via delle Botteghe Oscure e
della tipografia per stampare “l’Unità” a Roma, nonché per il finanziamento
delle proprie campagne elettorali nel Dopoguerra, con buona pace delle matrone
che il 18 dicembre ’35 donarono le fedi alla patria, difficilmente immaginando che
sarebbero servite per la propaganda del Partito Comunista, anziché per la
Guerra Abissina.
Qualcuno, volendo dimostrare la
normalità di tale furto, ricorrendo ad un noto precedente letterario, potrebbe
osservare che anche nei poemi omerici il vincitore di un duello era legittimato
a depredare le ricchezze sottratte all’avversario sconfitto (basti ricordare
Ettore con Patroclo): tuttavia, posto che il duello con il Fascismo non lo
vinse il solo PCI, ma tutte le forze democratiche del CLN, il ladrocinio di
Dongo non può essere considerato altrimenti che una delle tante ruberie cui i
partigiani rossi, spesso e volentieri, si abbandonarono durante la Guerra
Civile. Rimanendo nel genere epico, sarebbe più appropriato associare questa
vicenda alla maledizione del Tesoro dei Nibelunghi, l’anatema che condannò il
più grande Partito Comunista d’Europa, quello Italiano, a non vincere nemmeno
una di quelle campagne elettorali, pagate con l’oro nero del Fascismo.
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