30 aprile '45: la morte di Hitler, l'ultima farsa del Terzo Reich

Il 30 aprile 1945 è stata sicuramente una delle date più importanti della storia recente del Vecchio Continente: proprio in quel lunedì - un lunedì di guerra fra itanti che la Germania viveva oramai da oltre 5 anni - nel Führerbunker di Berlino Adolf Hitler compiva l'estremo folle gesto di un'esistenza altrettanto folle, ponendo fine alla sua vita ed a quella della mogli Eva Braun. Si concludeva così, dopo soli 12 anni, il Terzo Reich, nato dalle ambizioni del dittatore con speranze di una millenaria sopravvivenza; lo stesso Hitler era probabilmente convinto delle possibilità della sua creazione di sopravvivere a lungo alla sua morte, ma così non fu: ottennero difatti il titolo di Cancelliere del Terzo Reich solamente Joseph Goebels e Lutz Graf Scwerin von Krosigk. Quest'ultimo fu costretto alla resa incondizionata il 23 maggio, solo tre settimane dopo la morte di Hitler. Joseph Goebbels invece mantenne il titolo per meno di 48 ore: già Ministro plenipotenziario per la mobilizzazione alla guerra totale e generale della Wehrmacht con l'incarico della difesa di Berlino, divenne a tutti gli effetti Cancelliere alla morte di Hitler, per poi suicidarsi insieme alla moglie e ai suoi 6 figli: fu l'ultimo gesto di un uomo devoto al suo Fuhrer, in onore del quale aveva chiamato tutti i suoi figli con nomi che inziassero con la lettera H di Hitler, di un uomo che nel suo testamento scrisse di aver disobbedito al Fuhrer solo abbandonando la carica di Cancelliere con quella capsula di cianuro il 1° maggio 1945.

Solo due giorni prima Adolf Hitler aveva fatto lo stesso, manifestando tuttavia anche in quest'ultimo gesto la follia del suo ego: egli muore infatti non per effetto del cianuro, ma per un colpo di rivoltella che si rivolse alla tempia, non fidandosi del veleno portatogli. Le ultime ore della vita del Fuhrer sono le ore di un uomo che si avvicina alla morte certa con lo stesso atteggiamento con cui ha trascorso i precedenti 53 anni: complici sicuramente i pesanti farmaci anfetaminici di cui faceva uso da mesi, alternava brevi momenti di lucidità a ascessi di ira e manifestazioni di una pazzia oramai innegabile, senza però lasciare mai il suo bunker, se non per pochi minuti, per assistere a qualche parata degli uomini che la sua follia stava portando alla morte sul fronte di una guerra che nessuno in Germania credeva di poter vincere.
In una tale situazione è facile immaginare l'effetto che possa aver avuto in Hitler la notizia della resa firmata a sua insaputa da Himmler il 23 aprile: la condanna a morte dell'ex capo della polizia e delle forze di sicurezza è immediata, ma la sua fuga ne impedisce l'esecuzione. Muore suicida il 23 maggio, caduto in mani alleate. La malsana mente di Hitler accelera i tempi di un epilogo della sua vita probabilmente già da tempo prevista: il 29 aprile sposa l'amante Eva Braun, nell'ultima farsa orchestrata da un uomo che ha fatto della sua stessa vita una tragica commedia: il 1° maggio - la festa dei lavoratori nella quale Stalin vuole a tutti i costi festeggiare una vittoria in guerra - la radio del Reich annuncia che "Il nostro amato Führer, Adolf Hitler, è morto combattendo fino all' ultimo per la difesa di Berlino". In vita come nella morte, nella persone come nel mito da lui stesso creato, Adolf Hitler ha rappresentato, esasperandolo, il potere della menzogna, mostrandoci dove può tristemente spingersi l'odio umano in un ambiente fatto di falsi ideali.

Regola 4: equipaggiamento dei calciatori


Sicurezza 
I calciatori non devono utilizzare un equipaggiamento o indossare qualunque cosa che sia pericolosa per loro stessi o per gli altri calciatori (incluso ogni tipo di gioiello - monile).

Equipaggiamento di base
L’equipaggiamento di base obbligatorio di un calciatore comprende i seguenti e separati indumenti:

• maglia con maniche (se si indossa una sottomaglia, il colore delle maniche deve essere dello stesso colore dominante delle maniche della maglia);
• calzoncini (se si indossano cosciali, scaldamuscoli o calzamaglie devono essere dello stesso colore dominante dei calzoncini);
• calzettoni;
• parastinchi;
• scarpe.

Parastinchi
• devono essere coperti completamente dai calzettoni;
• devono essere di materiale idoneo (gomma, plastica o materiali similari);
• devono offrire un grado di protezione adeguato.

Colori

• le due squadre devono indossare colori che le distinguano una dall’altra e anche dagli ufficiali di gara;
• ciascun portiere deve indossare colori che lo distinguano dagli altri calciatori e anche dagli ufficiali di gara.

Infrazioni e sanzioni 
Nel caso di un’infrazione a questa regola:

• non è necessario interrompere il gioco;
• il calciatore non in regola deve essere invitato dall’arbitro ad uscire dal terreno di gioco per regolarizzare il suo equipaggiamento;
• il calciatore dovrà uscire dal terreno alla prima interruzione di gioco, a meno che non abbia già provveduto a regolarizzare il suo equipaggiamento;
• un calciatore uscito dal terreno di gioco per regolarizzare il suo equipaggiamento non potrà rientrarvi senza l’autorizzazione dell’arbitro;
• l’arbitro controllerà la regolarità dell’equipaggiamento del calciatore prima di autorizzarlo a rientrare sul terreno di gioco;
• il calciatore potrà rientrare sul terreno di gioco solo durante un’ interruzione di gioco.
Un calciatore, invitato ad uscire dal terreno di gioco per una infrazione a questa regola, che rientra sul terreno stesso senza la preventiva autorizzazione dell’arbitro, dovrà essere ammonito.

Ripresa del gioco
Se il gioco è stato interrotto dall’arbitro per comminare un’ammonizione:

• la gar
a riprenderà con un calcio di punizione indiretto in favore della squadra avversaria eseguito dal punto in cui si trovava il pallone quando il gioco è stato interrotto (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).

Giordano Bruno. Mago e cospiratore


9 giugno 1889. A Campo de’ Fiori viene inaugurato il monumento a don Giordano Bruno, morto sul rogo il 16 febbraio 1600 nel medesimo luogo. Nella seconda metà del XIX secolo era divenuto simbolo della massoneria che fortissimamente volle l’erezione di un monumento celebrativo fino ad ottenerne l’autorizzazione dall’allora presidente del consiglio Francesco Crispi. È un aneddoto che, oltre a fotografare il periodo storico cui appartiene, è emblematico di una dialettica anticlericale, volta a fare, nel contesto dei rapporti tra scienza e Chiesa, di Bruno un martire del libero pensiero.
A tal proposito occorre, da subito, dichiarare che ad alimentare tale mito ha contribuito maggiormente la morte romanzesca da ribelle impenitente, del filosofo nolano piuttosto che la solidità razionale della sua dottrina. Una fama, ottenuta dopo la morte, ma cercata con ossessione durante tutta la vita, con una presunzione astrale, "accentuata dalle pratiche magiche cui Bruno si dedica con crescente intensità e che sviluppano in lui un senso di onnipotenza materiale e intellettuale assoluta" (Matteo D'Amico, "Giordano Bruno", Piemme). Tutta la sua esistenza, infatti, è in vista di una affermazione personale, per sé e per la sua visione del mondo, contro avversari di tutti i paesi e di tutte le confessioni, che divengono via via "porci", "pedanti", "barbari e ignobili".
Dopo un primo scontro teologico con un confratello riguardo la dottrina di Ario, nel 1576, nel 1579 Bruno inizia a dimostrare la propria indole facendosi condannare dal Concistoro calvinista, non cattolico, per aver pubblicato un libello contro un professore, sembra, peraltro affermando delle calunnie menzognere.
Lasciata Ginevra, Bruno approda a Parigi nel 1581: la sua fama di esperto nell'ars memoriae gli vale la convocazione del re Enrico III, di cui diviene in breve intimo confidente. Dopo soli due anni Bruno finisce a Londra, presso l'ambasciatore francese Castelnau, in Salisbury Court, vicino al Tamigi. Qui, secondo le recenti indagini di John Bossy ("Giordano Bruno e il mistero dell'ambasciata", Garzanti) svolge un lavoro di spionaggio contro l'ambasciatore francese di cui è ospite, a tutto svantaggio dei cattolici, arrivando addirittura a rivelare i segreti carpiti in confessione. Infatti, pur essendo già da tempo un feroce nemico del cattolicesimo e della Chiesa, considerati la causa della decadenza dell'Europa, Bruno si finge zelante sacerdote e celebra riti in cui non crede, nell'ambasciata francese, vantando d'altra parte la propria apostasia presso la corte di Elisabetta. Nel suo arrivismo giunge a svelare alla regina l'esistenza di un complotto catto-spagnolo, in realtà inesistente, contro di lei: scrive di esserne venuto a conoscenza in confessione. Nessuno gli crede.  
A tal punto lo scalpitante ed ambizioso Bruno tenta di ottenere una cattedra ad Oxford, presentandosi come: "Professore di una sapienza più pura e innocua, noto nelle migliori accademie europee, filosofo di gran seguito, ricevuto onorevolmente dovunque, straniero in nessun luogo, se non tra barbari e gli ignobili... domatore dell'ignoranza presuntuosa e recalcitrante... ricercato dagli onesti e dagli studiosi, il cui genio è applaudito dai più nobili...". Alla terza lezione verrà accusato di plagio e invitato a togliere il disturbo; le sue invettive feroci contro i londinesi, e contro il prossimo suo in genere, gli procurano, probabilmente, un breve arresto e determinano il ritorno precipitoso a Parigi. Ma qui, nel frattempo, il clima politico è cambiato, e i Guisa, la nobile famiglia a capo della Lega Cattolica, ha sempre maggior potere: Bruno non esita a mettersi al suo servizio, e a chiedere di essere riaccolto "nel grembo della Chiesa catholica". In realtà, ancora una volta, fa il doppio gioco, tessendo rapporti con i protestanti, benché nello "Spaccio della bestia trionfante" del 1584 avesse deprecato violentemente, in mille maniere, la figura di Lutero. Nello stesso periodo viene accusato da Fabrizio Mordente, inventore del compasso differenziale, di volergli carpire l'invenzione: Bruno infatti ne è entusiasta, ma come già per Copernico, ritiene che ai disprezzati matematici sfugga il valore magico ed ermetico delle loro scoperte, che lui solo, invece, ha la capacità di comprendere! 
Scomunicato dalla Chiesa cattolica e dai calvinisti di Ginevra, cacciato da Oxford e da Londra, Giordano Bruno, nel 1586, dopo l'ennesima disputa finita in rissa, deve abbandonare anche Parigi, perché neppure il vecchio amico Enrico III è più intenzionato ad accoglierlo. La destinazione, questa volta, è la Germania, e in particolare la città protestante di Marburgo. Ancora una volta il filosofo di Nola ottiene, dietro pressanti richieste, una cattedra universitaria, ma, detto fatto, entra in conflitto col rettore, Petrus Nigidius, che lo aveva assunto e che ora lo licenzia. Con la grinta di sempre Bruno riparte, per approdare a Wittenberg, città simbolo del luteranesimo, dove, tanto per cambiare, ottiene il diritto di tenere corsi universitari. È qui che Bruno cambia ancora casacca: in occasione del discorso di addio, dopo soli due anni di permanenza, polemiche, e tanti nemici, l'8 marzo 1588 tiene davanti ai professori e agli alunni dell'università un elogio smaccato della figura di Lutero, contrapposta a quella del papa, presentato, secondo le migliori tradizioni del luogo, come un vero anticristo. "Come ha usato Calvino contro la Chiesa, così adesso usa Lutero: il cattolicesimo emerge come il vero grande nemico" (Matteo D'Amico, "Giordano Bruno", Piemme). Chiaramente il gioco può riuscire sperando che a Wittenberg non si conosca il libello bruniano di soli quattro anni prima, e cioè lo "Spaccio". In esso infatti Bruno auspicava che Lutero e i suoi seguaci fossero "sterminati ed eliminati dalla faccia della terra come locuste, zizzanie, serpenti velenosi", essendo causa di guerre, disordini e discordie senza fine.  Inoltre, tanto per toccare con mano la "scientificità" del personaggio, Bruno spiegava la metempsicosi, affermando che coloro i quali abbiano "viso, volto, voci, gesti, affetti ed inclinazioni, altri cavallini, altri porcini, asinini, aquilini (...), sono stati o sono per essere porci, cavalli, asini, aquile, o altro che mostrano"!
Lasciata Wittenberg, Giordano Bruno approda a Praga, la città dell'imperatore Rodolfo II, che ne sta facendo una centrale di maghi, alchimisti e occultisti da tutta Europa. Rodolfo è un tipo bizzarro, preda, spesso di allucinazioni e di crisi depressive. Ancora una volta Bruno cerca il potere, aspira a coniugare le arti magiche, di cui si ritiene in possesso, con alleanze potenti e concrete. C'è ormai in lui il desiderio di non rimanere un teorico, ma di passare all'azione, di essere ispiratore di un rinnovamento del mondo, di una palingenesi, che i segni dei tempi gli dicono vicina, e che lui vuole guidare, con compiti e ruoli non secondari.
Ma, vuoi per il suo caratteraccio, vuoi perché le vantate arti magiche in suo possesso non danno i frutti sperati e promessi, anche Praga viene presto abbandonata per la città protestante di Helmstadt, nel 1589. Brigando a suo modo, Bruno ottiene di poter insegnare nell'università locale, e per l'ennesima volta, pur fingendosi protestante e scagliandosi contro la Chiesa cattolica, suo bersaglio preferito, viene in breve scomunicato dal pastore della locale chiesa luterana! Ciò nonostante neppure in questa occasione gli viene a mancare quella disponibilità di denari "che gli permette di fare lunghi viaggi, di affittare appartamenti, di tenere a suo servizio, regolarmente, segretari diversi, di pubblicare opere voluminose, di vivere infine per lunghi periodi senza alcun lavoro fisso": denari, ipotizza il D'Amico, che potrebbero giungere da quell'attività così redditizia di informatore segreto che aveva appreso a Londra.
Nel 1590 Bruno è a Francoforte, senza grande entusiasmo dei suoi allievi, che non riescono a comprendere quanto la miracolosa mnemotecnica bruniana sia da lui mal insegnata e quanto essa sia invece mal conosciuta. Dopo Francoforte, Zurigo, Padova e, infine, nel 1591, Venezia. Nella città veneta è accolto con curiosità da una cerchia di nobili da salotto, e in particolare da Giovanni Mocenigo, che è disposto a ospitarlo e nutrirlo in cambio dei suoi "segreti". Ma Giordano Bruno non è certo incline a fare il precettore privato: il suo desiderio sembra essere quello di usare le sue conoscenze magiche, espresse nei testi "De magia" e "De Vinculis", per assoggettare nientemeno che il pontefice Gregorio XIV ai suoi disegni di riforma religiosa e politica universale! Ritiene infatti di saper controllare e dominare le forze demoniche presenti nella natura e di poter soggiogare il prossimo con messaggi subliminali, formule magiche non percepibili dagli incantati: "Ritmi e canti che racchiudono efficacia grandissima, vincoli magici che si realizzano con un sussurro segreto..." ("De Vinculis").
Giordano Bruno concepisce a Venezia il folle disegno di "portare cambiamenti (politici) significativi, quantomeno nello scacchiere italiano". A tal fine progetta di rientrare nella Chiesa, di recarsi a Roma dal pontefice Clemente VIII, per dedicargli un'opera, e, come si diceva, probabilmente, per riuscire a condizionarlo tramite le arti magiche. Non c'è grande nobiltà nei mezzucci con cui, contraddicendo patentemente il suo credo, persegue i propri fini. Ma nello stesso 1591 viene denunciato al Santo Uffizio dal suo stesso ospite: al Mocenigo è bastato un attimo per rimanere deluso dagli insegnamenti di Bruno, e scandalizzato dalle sue bestemmie. Dopo i sogni di potenza, il filosofo nolano precipita sul banco degli imputati, ma è già abituato ai processi, alle abiure, alle fughe, e forse pensa, in cuor suo, di farla nuovamente franca. La sua tattica difensiva consiste nell'ammettere alcune accuse, nell'attenuarne altre, e nel negare, infine, le più infamanti. Negare tutto sarebbe troppo sciocco, vista la possibilità per il tribunale di venire in possesso dei suoi scritti, e di indagare sul suo passato. Lo scopo è quello di "apparire persona rispettosa della autorità della Chiesa e della sua dottrina, anche se momentaneamente posto al di fuori di essa" (D'Amico).
Arriva così a rinnegare alcune sue opere, e a presentare i suoi passati riavvicinamenti alla Chiesa, compiuti sempre e solo per convenienza politica, come testimonianza della sua sostanziale "ortodossia". Il filosofo degli "eroici furori", in realtà, non ha nulla di eroico: "tutti li errori che io ho commesso... et tutte le heresie... hora io le detesto et abhorrisco...". Come già coi calvinisti di Ginevra, il ribelle, la spia, l'arrivista in cerca di poltrone universitarie, dopo aver attaccato e inveito, si inginocchia e abiura, con pari teatralità e finta compunzione. Ma Roma sospetta, e nel febbraio 1593 avoca a sé il processo, che durerà otto lunghi anni. Il tribunale inquisitoriale non emette condanne frettolose, ma procede con precisione e scrupolo, convocando testimoni, compulsando le opere, rispettando tutte le procedure, invitando ripetutamente ad abiurare. Bruno si dichiara disposto in più occasioni a cedere: la condanna, e l'affido al braccio secolare, arrivano dopo varie promesse di abiura, e altrettanti ripensamenti.
Nel giorno della condanna giunge al Papa un memoriale di Bruno: perché, se aveva già deciso di affrontare la morte? Probabilmente il memoriale, che non conosciamo, conteneva l'ennesima disponibilità all'abiura: forse Bruno credeva di poter ancora dire e disdire, senza conseguenze. A cosa si deve, allora, questa improvvisa accelerazione del processo? Secondo la Yates, a un evento contemporaneo: l'arresto di un altro domenicano ribelle, Tommaso Campanella. Non bisogna infatti dimenticare l'epoca in cui ci troviamo: la Riforma ha portato alla ribalta prima Lutero, con le conseguenti guerre dei cavalieri e dei contadini, e le relative mattanze, e poi millenaristi come Matthison di Haarlem, un capo anabattista che si sentiva "incaricato della esecuzione del castigo divino contro gli empi, e mirava semplicemente al massacro universale", o il "profeta Hofmann" di Strasburgo, "il quale andava dicendo di voler fondare la Nuova Gerusalemme" e si accingeva a preparare la mobilitazione "dei cavalieri della strage che con Elia e Enoch appariranno impugnando la spada e vomitando fiamme per sterminare i nemici del Signore".
Campanella è filosoficamente molto vicino a Bruno. Anch'egli ritiene che stia giungendo l'ora dei "grandi mutamenti, l'avvento dell'età dell'oro". Organizza così una congiura, in meridione, cercando l'alleanza dei Turchi, e in particolare di feroci pirati come Bassàn Cicala, per realizzare uno Stato magico, dittatoriale, di impostazione comunista. La congiura viene sventata nel 1599 (Francesco Forlenza, "La congiura antispagnola di Tommaso Campanella", Temi). Tale nuova minaccia, religiosa e politica insieme, accelera forse la condanna di Bruno, che morirà, alla fine, con dignità. Ma dopo essere stato scacciato da almeno dieci città diverse, condannato da cattolici, calvinisti, protestanti e professori universitari; dopo essere stato spia, aver violato il segreto confessionale, aver ripudiato se stesso, per convenienza, innumerevoli volte, e, infine, dopo aver cercato, attraverso la magia e l'intrigo, di rovesciare l'ordine politico, non solo quello religioso, del suo tempo. Significativo, in tal senso, ciò che fece Leone XIII il giorno dell’inaugurazione del monumento a questo criminale internazione: dopo aver minacciato di lasciare Roma, rimase tutto il giorno assorto in preghiera in Vaticano davanti la statua di San Pietro, pregando per la fine della “lotta ad oltranza contro la religione cattolica” e - aggiungiamo noi - alla vera ragione.

da F. AGNOLI, Giordano Bruno "santino" dei liberi pensatori, Il foglio, 2005

Il coraggio di scegliere

Ogni uomo, prima o poi, si troverà costretto a fare delle scelte importanti nella propria esistenza.
Gli esempi si sprecano: quale università scegliere? Che lavoro? E poi ancora la casa, la scuola per i bambini, la macchina. Ma si può trattare anche di piccole scelte legate alla più pragmatica quotidianità. Grandi o piccole che siano, sono comunque accomunate da quella sensazione di fastidio che innescano in noi: ci pongono di fronte ad un bivio e ci obbligano a prendere una decisione, alcune volte anche irreversibile. Peregrini nel tortuoso sentiero della vita, siamo costretti a prendere una risoluzione, pur senza avere la certezza di quale sia la scelta giusta.

Potrebbe apparire uno scenario un po’ catastrofico, se non si focalizza bene il concetto di “scelta”.
Scegliere non significa semplicemente preferire un qualcosa: una tale definizione non riesce a ben renderne il significato. Ciascuna nostra deliberazione, più o meno radicale, ha come immediata conseguenza l’espunzione di una miriade di possibilità.
Pensiamoci bene. Scelgo una facoltà? Allora non potrò frequentare tutte le altre. Decido di sposarmi con una ragazza? Implicitamente rinuncio a tutte le altre: “Omnis determinatio est negatio”. Una piccola frase che racchiude al suo interno un’enorme e profonda verità.

Forse oggigiorno siamo un po’ tutti tentati a sbilanciarci meno; non abbiamo il coraggio di prendere delle scelte definitive. Esitiamo, vorremmo abbracciare l’intero orizzonte dell’essere senza rinunciare a niente. Ci piace questo, ma ci attrae anche quell’altro. Il risultato? Decidiamo di non scegliere affatto, e questo proprio per lasciare aperte tutte le porte che la vita ci offre. Ma, cosa facile a prevedersi, un tale comportamento ci lascia ristagnare in uno stato d’incertezza, d’instabilità… di nausea. L’uomo per sua natura aspira a mete grandi, per cui non si sente realizzato agendo in questo modo, quando tarpa le ali della sua smisurata potenzialità.

Altre volte ci pentiamo di alcune scelte fatte in passato: ci sentiamo quasi ingannati quando un qualcosa che prima ci aggradava, in seguito, quando lo scorrere del tempo adombra quello che prima risplendeva di una luce fulgente, ci risulta sgradevole. Le difficoltà soffocano immediatamente il nostro slancio iniziale, ci spingono a ritrattare: torniamo così al punto di partenza e, rassegnati, preferiamo chiuderci nel nostro cantuccio.

Alcuni potrebbero dire che i giorni nostri siano particolarmente afflitti da questa piaga, cioè l’eccessiva indecisione. I più venerandi sottolineano come i ragazzi maturino sempre più tardi. E’ probabilmente un’analisi un po’ troppo pessimistica, che si riversa sul presente in cui si vive, idealizzando un passato che appare roseo proprio perché mai conosciuto direttamente.

E’ ovvio che l’uomo, per ritenersi tale, debba avere il coraggio di fare delle scelte nella propria vita e che queste acquistino maggior valore proprio nel momento in cui risultano più dure e sgradite da prendere.
Vero uomo è chi indirizza la propria esistenza al perseguimento di alcuni valori, abbattendo ogni ostacolo pur di ottenerli. Un ideale molto arduo, ma prezioso. D’altronde, tutte le cose preziose si acquistano con fatica.

25 aprile, solo San Marco

La vita
San Marco è uno dei quattro evangelisti. Fu discepolo di Paolo, è venerato da più Chiese Cristiane. La chiesa copta lo considera patriarca.
Della sua vita sappiamo quasi nulla. Sappiamo che era ebreo, di stirpe levitica.
Non si sa se conobbe direttamente Gesù. Di sicuro sappiamo che, pochi anni dopo la morte del Maestro, gli apostoli e i discepoli si riunivano a casa di sua madre.
Il fatto che sia l'unico evangelista a menzionare la fuga di un giovinetto che seguiva da lontano gli avvenimenti della cattura di Cristo nell'orto degli ulivi fa supporre fondatamente che sia egli stesso questo giovinetto.

« Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo » (Marco 14,1.51.52)

Dagli Atti apprendiamo che partì insieme a Paolo e a suo cugino per Antiochia. Viene indicato come aiutante di Paolo quando egli predicava a Salamina (Cipro). In seguito, lo stesso libro ci riferisce che abbandona Paolo.
Dopo la morte a Roma di Paolo non vi sono più notizie certe su Marco. La tradizione lo vuole evangelizzatore in Egitto e fondatore della chiesa di Alessandria.
Nella Basilica di Aquileia (la cui cripta è affrescata con il ciclo della Predicazione di San Marco) e poi nella sede patriarcale di Cividale del Friuli si conservava il "Vangelo di San Marco", attribuito dalla tradizione alla stessa mano dell'Evangelista. Il testo è ripartito in tre parti: una conservata nel Museo archeologico nazionale di Cividale; la seconda nell'Archivio Capitolare del Duomo di Praga; la terza nella Biblioteca Marciana di Venezia.
Non vi sono notizie certe su dove, come e quando Marco morì. Eusebio sostiene che la sua morte sia avvenuta ad Alessandria, dove venne ucciso facendo trascinare il suo corpo per la città.
Le sue spoglie vengono trafugate con uno stratagemma da due mercanti veneziani nell'anno 828 e trasportate, dopo averle nascoste in una cesta di ortaggi e di carne di maiale, a Venezia, dove pochi anni dopo verrà dato inizio alla costruzione della Basilica che ancora oggi ospita le sue reliquie.
La memoria religiosa è il 25 aprile, in occasione della ricorrenza del martirio. Nell'antica Repubblica di Venezia, tuttavia erano dedicati a San Marco anche il 31 gennaio, ricordo della traslazione a Venezia delle reliquie, e il 25 giugno, data del rinvenimento, nel 1094, del luogo in cui esse erano state occultate.

Il simbolo del leone
Tutti e quattro gli Evangelisti hanno un simbolo iconico che generalmente viene raffigurato vicino o al posto del santo nelle pitture e nelle sculture. Questi simboli sono associati al Vangelo proprio del santo ed al verso dell'Apocalisse 4,7, dove vengono descritti quattro esseri viventi, un leone, un uomo, un vitello ed uno «simile ad aquila mentre vola», i quali, attorno a Dio, sono intenti a cantarne le lodi. Il simbolo di san Marco è il leone, perché il suo Vangelo inizia con la voce di san Giovanni Battista che,
nel deserto, si eleva simile a un ruggito, preannunciando agli uomini la venuta del Cristo.
In seguito anche Venezia e il Veneto hanno adottato questo simbolo. A tutt'oggi sul gonfalone della regione v'è un leone.
Il vangelo secondo Marco
Si tratta del secondo dei quattro vangeli canonici. Il Vangelo racconta la vita di Gesù dal suo battesimo per mano di Giovanni Battista alla sua resurrezione, ma si concentra principalmente sui fatti dell'ultima settimana della sua vita. La narrazione concisa rappresenta Gesù come un uomo d'azione, un esorcista, un guaritore e un operatore di miracoli.
Due temi importanti del Vangelo secondo Marco sono il segreto messianico e la difficoltà dei discepoli nel comprendere la missione di Gesù. Riguardo al primo aspetto, Gesù ordina frequentemente di mantenere il segreto riguardo aspetti della sua identità e di particolari azioni. Le difficoltà dei discepoli appaiono invece, ad esempio, nel comprendere le parabole.
Il testo è composto da 16 capitoli con un'appendice di dodici versetti, considerata dalla maggioranza degli studiosi non autentica.
La data di composizione potrebbe variare dal 65 dc al 71 dc.L'opera è scritta in lingua greca, ma presenta influssi semitici ed è caratterizzata dalla presenza di vari latinismi. Il lessico si presenta privo di ricercatezza stilistica tipica del linguaggio popolare. Lo stile del vangelo è vivace e simile alla lingua parlata.
Quello di Marco, con le sue circa 11.230 parole, è il più corto dei vangeli.A differenza di Matteo e Luca, Marco non riporta alcuna informazione sulla vita di Gesù prima del suo ministero. In Marco non compare neanche il Padre nostro, riportato dagli altri sinottici. Dei 662 versetti totali di Marco, 406 sono in comune con Matteo e Luca, 145 con il solo Matteo e 60 con il solo Luca.

Verso il Giro. Le maglie di quest'edizione

A 10 giorni dal via del Giro d'Italia, la nostra rubrica si sofferma sulle maglie simbolo dei vari primati in quest'edizione.
Per disegnare le maglie di leader delle classifiche individuali del Giro d'Italia 2013 è stato scelto da Rcs Sport lo stilista inglese Paul Smith. Conosciuto nel mondo per la sua "estetica creativa", Paul Smith ha disegnato le quattro maglie, partendo dall’ambitissima Maglia Rosa, simbolo del primato in classifica generale. Smith ha precisatola sua passione: "Ho iniziato a pedalare quando avevo 12 anni e ho corso in bici fino a 18. Un grave incidente mi costrinse poi a passare alcuni mesi in ospedale. Dopo questo periodo, scoprii il mondo della creatività, del design e della moda e da lì ebbe inizio la mia carriera che, fortunatamente, mi ha portato a dove sono oggi. 
In tutti questi anni non ho mai smesso di seguire il ciclismo e questo mi ha portato a costruire amicizie con campioni del calibro di Bradley Wiggins, Mark Cavendish, David Millar e molti altri. Conservo una grande collezione di maglie da ciclista fin dagli anni 70, tutte rigorosamente firmate dai campioni.
Per queste ragioni, è per me davvero un grande onore poter disegnare le quattro Maglie del Giro e spero che l’approccio di semplicità da me applicato venga apprezzato da tutti; mettendo i bordini rossi alla Rosa, cercando di pulire e semplificare quanto più possibile ho cercato di trasferire un po' del ciclista che è in me nelle maglie".


La maglia rosa, - vinta nella passata edizione da Ryder Hesjedal - come ben visibile nell'immagine, è sponsorizzata da Balocco anzichè Estathè come è stato per 17 anni consecutivi e riporta nella parte interna del colletto il nome di Fiorenzo Magni, scomparso nel dicembre scorso e vincitore di 3 giri. Smith ha disegnato anche la maglia rossa (un tempo ciclamino) che va al leader della classifica generale individuale a punti ed è sponsorizzata da Italo, come nella passata edizione quando la vinse Joaquim Rodriguez, benchè , a differenza dell'anno scorso, presenti bordini rosa anzichè arancioni . Azzurra e sponsorizzata da Banca Mediolanum è la maglia per il primato nella classifica dei gran premi della montagna, che è stata a lungo tempo verde, e l'anno passato venne vinta da Matteo Rabottini. 
Infine bianca, così come al Tour, la maglia per il miglior giovane (meno di 25 anni) nella classifica generale individuale che sarà sponsorizzata da F.lli Orsero, come l'anno passato quando venne vinta da Rigoberto Uràn.

Napolitano commosso: "Niente inciucio, collaborazione per il bene del Paese"

"Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservarne lealmente la Costituzione". Così il Presidente Napolitano ha giurato dinanzi alle Camere riunite in seduta comune con i delegati delle Regioni, per poi rivolgere il suo messaggio al paese, "innanzitutto esprimendo - insieme con un omaggio che in me viene da molto lontano alle istituzioni che voi rappresentate, la gratitudine per il così largo suffragio" con cui è stato eletto Presidente della Repubblica. "E' un segno - ha detto il Capo dello Stato - di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso, anche se sottopone a seria prova le mie forze : e apprezzo in modo particolare che mi sia venuto da tante e tanti nuovi eletti in Parlamento, che appartengono a una generazione così distante, e non solo anagraficamente, dalla mia".
"Come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in quest'aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da Presidente della Repubblica. Avevo già nello scorso dicembre - ha ricordato il Presidente Napolitano - pubblicamente dichiarato di condividere l'autorevole convinzione che la non rielezione, al termine del settennato, è 'l'alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica'. Avevo egualmente messo l'accento sull'esigenza di dare un segno di normalità e continuità istituzionale con una naturale successione nell'incarico di Capo dello Stato. A queste ragioni e a quelle più strettamente personali, legate all'ovvio dato dell'età, se ne sono infine sovrapposte altre, rappresentatemi - dopo l'esito nullo di cinque votazioni in quest'aula di Montecitorio, in un clima sempre più teso - dagli esponenti di un ampio arco di forze parlamentari e dalla quasi totalità dei Presidenti delle Regioni. Ed è vero che questi mi sono apparsi particolarmente sensibili alle incognite che possono percepirsi al livello delle istituzioni locali, maggiormente vicine ai cittadini, benché ora alle prese con pesanti ombre di corruzione e di lassismo. Istituzioni che ascolto e rispetto, signori delegati delle Regioni, in quanto portatrici di una visione non accentratrice dello Stato, già presente nel Risorgimento e da perseguire finalmente con serietà e coerenza. E' emerso da tali incontri, nella mattinata di sabato, un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento in seduta comune nell'inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell'elezione del Capo dello Stato. Di qui l'appello che ho ritenuto di non poter declinare - per quanto potesse costarmi l'accoglierlo - mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del paese. La rielezione, per un secondo mandato, del Presidente uscente, non si era mai verificata nella storia della Repubblica, pur non essendo esclusa dal dettato costituzionale, che in questo senso aveva lasciato - come si è significativamente notato - 'schiusa una finestra per tempi eccezionali'. Ci siamo dunque ritrovati insieme in una scelta pienamente legittima, ma eccezionale. Perché senza precedenti è apparso il rischio che ho appena richiamato : senza precedenti e tanto più grave nella condizione di acuta difficoltà e perfino di emergenza che l'Italia sta vivendo in un contesto europeo e internazionale assai critico e per noi sempre più stringente".
"Bisognava dunque - ha aggiunto il Presidente Napolitano - offrire, al paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi : passando di qui una ritrovata fiducia in noi stessi e una rinnovata apertura di fiducia internazionale verso l'Italia. E' a questa prova che non mi sono sottratto. Ma sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità". Il Capo dello Stato ne ha proposto una sommaria rassegna: "Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti - che si sono intrecciate con un'acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale - non si sono date soluzioni soddisfacenti : hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento. Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica è stato dunque facilmente ignorato o svalutato : e l'insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento, sono state con facilità (ma anche con molta leggerezza) alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono. Attenzione : quest'ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell'amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme".
"Imperdonabile - ha rilevato il Capo dello Stato - resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005. La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell'abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti. Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario".
"Molto si potrebbe aggiungere ma mi fermo qui perché - ha sottolineato il Presidente Napolitano - su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale. Ma ho il dovere di essere franco : se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese. Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana".
Il Capo dello Stato ha quindi richiamato il suo discorso a Rimini nell'agosto 2011, quando volle "rendere esplicito il filo ispiratore delle celebrazioni del 150° della nascita del nostro Stato unitario : l'impegno a trasmettere piena coscienza di 'quel che l'Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato', e delle 'grandi riserve di risorse umane e morali, d'intelligenza e di lavoro di cui disponiamo'. E aggiunsi di aver voluto così suscitare orgoglio e fiducia 'perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto. Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l'Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo bagaglio di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile'. Ecco, posso ripetere quelle parole di un anno e mezzo fa, sia per sollecitare tutti a parlare il linguaggio della verità - fuori di ogni banale distinzione e disputa tra pessimisti e ottimisti - sia per introdurre il discorso su un insieme di obbiettivi in materia di riforme istituzionali e di proposte per l'avvio di un nuovo sviluppo economico, più equo e sostenibile. E' un discorso che - anche per ovvie ragioni di misura di questo mio messaggio - posso solo rinviare ai documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo scorso. Documenti di cui non si può negare - se non per gusto di polemica intellettuale - la serietà e concretezza".
Il Presidente Napolitano ha quindi formulato due osservazioni: "La prima riguarda la necessità che al perseguimento di obbiettivi essenziali di riforma dei canali di partecipazione democratica e dei partiti politici, e di riforma delle istituzioni rappresentative, dei rapporti tra Parlamento e governo, tra Stato e Regioni, si associ una forte attenzione per il rafforzamento e rinnovamento degli organi e dei poteri dello Stato. A questi sono stato molto vicino negli ultimi sette anni, e non occorre perciò che rinnovi oggi un formale omaggio, si tratti di forze armate o di forze dell'ordine, della magistratura o di quella Corte che è suprema garanzia di costituzionalità delle leggi. Occorre grande attenzione di fronte a esigenze di tutela della libertà e della sicurezza da nuove articolazioni criminali e da nuove pulsioni eversive, e anche di fronte a fenomeni di tensione e disordine nei rapporti tra diversi poteri dello Stato e diverse istituzioni costituzionalmente rilevanti. Né si trascuri di reagire a disinformazioni e polemiche che colpiscono lo strumento militare, giustamente avviato a una seria riforma, ma sempre posto, nello spirito della Costituzione, a presidio della partecipazione italiana - anche col generoso sacrificio di non pochi nostri ragazzi - alle missioni di stabilizzazione e di pace della comunità internazionale. La seconda osservazione riguarda il valore delle proposte ampiamente sviluppate nel documento da me già citato, per 'affrontare la recessione e cogliere le opportunità' che ci si presentano, per 'influire sulle prossime opzioni dell'Unione Europea', 'per creare e sostenere il lavoro', 'per potenziare l'istruzione e il capitale umano, per favorire la ricerca, l'innovazione e la crescita delle imprese'".
Su questi ultimi punti, il Presidente Napolitano ha osservato di essersi "fortemente impegnato in ogni sede istituzionale e occasione di confronto, e continuerò a farlo. Essi sono nodi essenziali al fine di qualificare il nostro rinnovato e irrinunciabile impegno a far progredire l'Europa unita, contribuendo a definirne e rispettarne i vincoli di sostenibilità finanziaria e stabilità monetaria, e insieme a rilanciarne il dinamismo e lo spirito di solidarietà, a coglierne al meglio gli insostituibili stimoli e benefici. E sono anche i nodi - innanzitutto, di fronte a un angoscioso crescere della disoccupazione, quelli della creazione di lavoro e della qualità delle occasioni di lavoro - attorno a cui ruota la grande questione sociale che ormai si impone all'ordine del giorno in Italia e in Europa. E' la questione della prospettiva di futuro per un'intera generazione, è la questione di un'effettiva e piena valorizzazione delle risorse e delle energie femminili. Non possiamo restare indifferenti dinanzi a costruttori di impresa e lavoratori che giungono a gesti disperati, a giovani che si perdono, a donne che vivono come inaccettabile la loro emarginazione o subalternità".
"Volere il cambiamento ciascuno interpretando a suo modo i consensi espressi dagli elettori - ha rilevato il Capo dello Stato - dice poco e non porta lontano se non ci si misura su problemi come quelli che ho citato e che sono stati di recente puntualizzati in modo obbiettivo, in modo non partigiano. Misurarsi su quei problemi perché diventino programma di azione del governo che deve nascere e oggetti di deliberazione del Parlamento che sta avviando la sua attività. E perché diventino fulcro di nuovi comportamenti collettivi, da parte di forze - in primo luogo nel mondo del lavoro e dell'impresa - che 'appaiono bloccate, impaurite, arroccate in difesa e a disagio di fronte all'innovazione che è invece il motore dello sviluppo'. Occorre un'apertura nuova, un nuovo slancio nella società ; occorre un colpo di reni, nel Mezzogiorno stesso, per sollevare il Mezzogiorno da una spirale di arretramento e impoverimento".

"Apprezzo l'impegno - ha aggiunto il Presidente Napolitano - con cui il movimento largamente premiato dal corpo elettorale come nuovo attore politico-parlamentare ha mostrato di volersi impegnare alla Camera e al Senato, guadagnandovi il peso e l'influenza che gli spetta : quella è la strada di una feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento. Non può, d'altronde, reggere e dare frutti neppure una contrapposizione tra Rete e forme di organizzazione politica quali storicamente sono da ben più di un secolo e ovunque i partiti. La Rete fornisce accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all'aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma non c'è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all'imperativo costituzionale del 'metodo democratico'. Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono comunque dare ora - nella fase cruciale che l'Italia e l'Europa attraversano - il loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del paese. Senza temere di convergere su delle soluzioni, dal momento che di recente nelle due Camere non si è temuto di votare all'unanimità. Sentendo voi tutti - onorevoli deputati e senatori - di far parte dell'istituzione parlamentare non come esponenti di una fazione ma come depositari della volontà popolare. C'è da lavorare concretamente, con pazienza e spirito costruttivo, spendendo e acquisendo competenze, innanzitutto nelle Commissioni di Camera e Senato. Permettete che ve lo dica uno che entrò qui da deputato all'età di 28 anni e portò giorno per giorno la sua pietra allo sviluppo della vita politica democratica".

Il Capo dello Stato ha rilevato che "lavorare in Parlamento sui problemi scottanti del paese non è possibile se non nel confronto con un governo come interlocutore essenziale sia della maggioranza sia dell'opposizione. A 56 giorni dalle elezioni del 24-25 febbraio - dopo che ci si è dovuti dedicare all'elezione del Capo dello Stato - si deve senza indugio procedere alla formazione dell'Esecutivo. Non corriamo dietro alle formule o alle definizioni di cui si chiacchiera. Al Presidente non tocca dare mandati, per la formazione del governo, che siano vincolati a qualsiasi prescrizione se non quella voluta dall'art. 94 della Costituzione : un governo che abbia la fiducia delle due Camere. Ad esso spetta darsi un programma, secondo le priorità e la prospettiva temporale che riterrà opportune. E la condizione è dunque una sola : fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto, sapendo quali prove aspettino il governo e quali siano le esigenze e l'interesse generale del paese. Sulla base dei risultati elettorali - di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no - non c'è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto - se si preferisce questa espressione - si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale. D'altronde, non c'è oggi in Europa nessun paese di consolidata tradizione democratica governato da un solo partito - nemmeno più il Regno Unito - operando dovunque governi formati o almeno sostenuti da più partiti, tra loro affini o abitualmente distanti e perfino aspramente concorrenti. Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell'idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione - fino allo smarrimento dell'idea stessa di convivenza civile - come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti".
Il Presidente Napolitano ha quindi ricordato quando diceva già sette anni fa nella medesima occasione auspicando che "fosse finalmente vicino 'il tempo della maturità per la democrazia dell'alternanza' : che significa - ha puntualizzato il Presidente - anche il tempo della maturità per la ricerca di soluzioni di governo condivise quando se ne imponga la necessità. Altrimenti, si dovrebbe prendere atto dell'ingovernabilità, almeno nella legislatura appena iniziata. Ma non è per prendere atto di questo che ho accolto l'invito a prestare di nuovo giuramento come Presidente della Repubblica. L'ho accolto anche perché l'Italia si desse nei prossimi giorni il governo di cui ha bisogno. E farò a tal fine ciò che mi compete : non andando oltre i limiti del mio ruolo costituzionale, fungendo tutt'al più, per usare un'espressione di scuola, 'da fattore di coagulazione'. Ma tutte le forze politiche si prendano con realismo le loro responsabilità : era questa la posta implicita dell'appello rivoltomi due giorni or sono".
"Mi accingo - ha concluso il suo messaggio il Presidente Napolitano - al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione 'salvifica' delle mie funzioni ; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno. Inizia oggi per me questo non previsto ulteriore impegno pubblico in una fase di vita già molto avanzata ; inizia per voi un lungo cammino da percorrere con passione, con rigore, con umiltà. Non vi mancherà - ha concluso il Presidente - il mio incitamento e il mio augurio".
da quirinale.it

Regola 3: il numero dei calciatori


Numero di Calciatori

Ogni gara è disputata da due squadre, ciascuna composta da non più di undici calciatori, uno dei quali giocherà da portiere. Nessuna gara potrà iniziare se l’una o l’altra squadra dispone di meno di sette calciatori.

Numero di Sostituzioni

- Competizioni ufficiali
In tutte le gare disputate in competizioni ufficiali sotto l’egida della FIFA, delle Confederazioni o delle Federazioni Nazionali, è onsentita la sostituzione di non più di tre calciatori. Il regolamento della competizione deve precisare il numero dei calciatori di riserva che è possibile inserire negli elenchi ufficiali di gara, da un minimo di tre ad un massimo di sette.

- Altre gare
Nelle gare delle squadre nazionali A possono essere effettuate fino ad un massimo di sei sostituzioni. In tutte le altre gare può essere effettuato un maggior numero di sostituzioni, purché:
• le squadre in questione raggiungano un accordo sul numero massimo;
• l’arbitro ne sia informato prima della gara.

Se l’arbitro non ne viene informato, o se un accordo non viene raggiunto prima della gara, non saranno consentite più di sei sostituzioni.

Procedura della sostituzione

In tutte le gare, i nominativi dei calciatori di riserva devono essere comunicati all’arbitro prima dell’inizio dell’incontro. Un calciatore di riserva il cui nome non è stato comunicato all’arbitro prima dell’inizio della gara, non potrà partecipare alla stessa. Per sostituire un calciatore titolare con uno di riserva, devono essere osservate le seguenti procedure:

• l’arbitro deve essere informato prima che la sostituzione avvenga;
• il subentrante entrerà sul terreno di gioco solo dopo che ne sia uscito il calciatore sostituito e dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte dell’arbitro;
• il subentrante deve entrare sul terreno di gioco in corrispondenza della linea mediana e durante un’interruzione di gioco;
• la sostituzione si concretizza nel momento in cui il subentrante entra sul terreno di gioco;
• da quel momento, il subentrante diventa un titolare e quello sostituito cessa di esserlo;
• il calciatore che è stato sostituito non potrà più partecipare alla gara;
• ogni calciatore di riserva è sottoposto all’autorità e alla giurisdizione dell’arbitro, che sia chiamato o meno a partecipare al gioco.

Cambio del portiere

Ciascun calciatore partecipante al gioco può scambiare il ruolo con il portiere a condizione che:

• l’arbitro ne sia informato prima che avvenga il cambio;
• lo scambio di ruolo venga effettuato durante un’interruzione di gioco.

Infrazioni e sanzioni

Se un calciatore di riserva o sostituito entra sul terreno di gioco senza l’autorizzazione dell’arbitro:

• l’arbitro interrompe il gioco (ma non immediatamente se il calciatore di riserva o sostituito non interferisce con il gioco);
• l’arbitro lo ammonirà per comportamento antisportivo e lo farà uscire dal terreno di gioco;
• se l’arbitro ha interrotto il gioco, questo dovrà essere ripreso con un calcio di punizione indiretto in favore della squadra avversaria nel punto in cui si trovava il pallone quando il gioco è stato interrotto.


Se un calciatore scambia il ruolo con il portiere senza la preventiva autorizzazione dell’arbitro:

• l’arbitro lascerà che il gioco prosegua;
• l’arbitro ammonirà i calciatori in questione alla prima interruzione di gioco.

Nel caso di ogni altra infrazione a questa regola:

• i calciatori in questione devono essere ammoniti;
• la gara verrà ripresa con un calcio di punizione indiretto in favore della squadra avversaria nel punto in cui si trovava il pallone quando il gioco è stato interrotto

Espulsione dei calciatori titolari e di riserva

Un calciatore titolare che è stato espulso prima del calcio d’inizio della gara (inibizione a prendere parte alla gara) potrà essere rimpiazzato solo da un calciatore di riserva indicato in elenco. Un calciatore di riserva che sia stato espulso prima del calcio d’inizio della gara (inibizione a prendere parte alla gara) o dopo che la gara è iniziata, non potrà


essere rimpiazzato.

I fazzoletti rossi...del sangue di Porzus


Mercoledì 7 febbraio 1945, ore 14:30. Nelle malghe di Porzûs, due casolari sopra Attimis, in provincia di Udine, ha sede il comando del Gruppo Brigate Est della divisione partigiana Osoppo, formata dai cosiddetti «fazzoletti verdi» della Resistenza, cattolici, azionisti e indipendenti. Giungono in zona cento partigiani comunisti, agli ordini di Mario Toffanin - nome di battaglia Giacca - sotto le false spoglie di sbandati in cerca di rifugio dopo uno scontro con i nazifascisti. È una trappola: alla malga vengono uccisi il comandante della Osoppo, Francesco De Gregori - nome di battaglia Bolla -, il commissario politico Enea, al secolo Gastone Valente, una giovane donna sospettata di essere una spia, Elda Turchetti, e un giovane, Giovanni Comin, che si trovava a Porzûs perché aveva chiesto di essere arruolato nella Osoppo. Il capitano Aldo Bricco, che si trovava alle malghe perché doveva sostituire Bolla, riesce a fuggire e salva la vita perché i suoi inseguitori, dopo averlo colpito con alcune raffiche di mitra, lo credono morto.

La Brigata Osoppo
Altri venti partigiani osovani vengono catturati e condotti prima a Spessa di Cividale e poi nella zona del Bosco Romagno, sopra Ronchi di Spessa, una ventina di chilometri più a valle. Due dei prigionieri si dichiarano disposti a passare tra i garibaldini. Gli altri saranno tutti uccisi e sbrigativamente sotterrati tra il 10 e il 18 febbraio. Della cosa si cercò di non far trapelare nulla. Ancora un mese dopo c'era chi assicurava che i capi Bolla ed Enea erano tenuti prigionieri dai garibaldini o dagli sloveni. «[...] La propaganda clericale del tempo descriveva i partigiani comunisti, inquadrati nelle Brigate Garibaldi, come dei Satana spergiuri che volevano consegnare il Friuli alla Jugoslavia. Furono del resto pure inglobati nella Osoppo molti fascisti, come il Reggimento Alpini Tagliamento (formazione della Repubblica di Salò) che operava nella zona con il compito di combattere i «comunisti jugoslavi» e questo avvenne con la mediazione dell'Arcivescovado di Udine (Arcivescovo Nogara). Lo scopo della Osoppo e della Tagliamento infatti coincideva, l'obiettivo comune era quello di criminalizzare i partigiani delle Garibaldi. In molte zone facevano persino presidi misti, cioè repubblichini e osovani. Quelli della Osoppo, si appropriavano delle forniture inglesi che spettavano alle Garibaldi, l'accordo con gli inglesi era che il 30% di ogni lancio fatto alla Osoppo doveva essere destinato alle Garibaldi. Quelli della Osoppo non rispettarono mai l'accordo ed i Garibaldini per approvvigionarsi e procurarsi armi dovevano assaltare i presidi tedeschi e fascisti». Così in un'intervista rilasciata nel 1996 dal comandante partigiano Mario Toffanin, Giacca. «[...] La Grande Slovenia, volevano i partigiani comunisti. Noi volevamo solo combattere per la libertà, non per il comunismo, ed eravamo favorevoli a lasciare ad un referendum dopo la liberazione la scelta sui confini... Bolla, il comandante, alzava la bandiera, bandiera italiana, bandiera con lo stemma sabaudo. Io lo mettevo in guardia: attento, gli dicevo, la vedono i comunisti e i partigiani sloveni, quello stemma a loro ricorda il fascismo, toglila. E lui no, cocciuto, perché credeva sopra ogni cosa all'Italia, senza compromessi, senza tante prudenze politiche... Avevamo sempre operato insieme, anche se noi cattolici ci preoccupavamo, oltre che della onestà dei fini, anche della onestà dei mezzi. Ci furono discussioni assai accese con i comandanti comunisti sulla necessità di azioni che comportavano sacrifici di vite umane».  Così si espresse in un'intervista nel 1997 monsignor Aldo Moretti, Lino, medaglia d'oro al valor militare, uno dei fondatori della Divisione Osoppo.
Quando lo stesso anno il regista Renzo Martinelli doveva girare gli esterni del suo film Porzûs, si trovò alle prese con i divieti di diversi sindaci, che non consentirono le riprese sui loro territori. Erano passati più di cinquant'anni, ma di Porzûs molti non volevano neppure parlare; non mancò chi chiese di vietare la presentazione del film al festival del cinema di Venezia. Cattive coscienze, risentimenti, fanatismo ideologico duro a morire, uniti ad una insopprimibile abitudine a riscrivere la storia con ottica di parte, hanno fatto sì che a tutt'oggi restino dei punti interrogativi su quella cupa vicenda. Non abbiamo la pretesa di poter fornire tutte le risposte; confidiamo solo che una rilettura seria e serena sia possibile, a passioni sopite e senza nessun preconcetto. E speriamo che cinquantasei anni di distanza siano sufficienti, non fosse altro per rendersi conto che non esiste causa, per nobile che sia, che possa trarre giovamento dalle falsificazioni della realtà.Molti segreti se li portò nella tomba Mario Toffanin, Giacca. A differenza di altri, Giacca su Porzûs aveva parlato molto, dando tante versioni diverse, con una sola costante: «se li avessi di nuovo davanti, li accopperei ancora tutti». Morì, ottantaseienne, venerdì 22 gennaio 1999, nell'ospedale della cittadina di Sesana, in Slovenia. Era lui il comandante dei reparti che compirono l'eccidio. Il protagonista della vicenda, almeno il più visibile; non necessariamente il più consapevole.
Mauro Toffanin, detto Giacca
Chi volle l'eccidio del 7 febbraio? La risposta a tutt'oggi non è sicura. Di certo c'è l'esistenza di una lettera firmata da Kardelj, indirizzata a Vincenzo Bianchi, nome di battaglia Vittorio, rappresentante del Partito Comunista Italiano presso il IX Corpus, che era tornato da Mosca insieme con Togliatti, in cui lo si invita a liquidare le formazioni partigiane che, in Friuli, non accettano di porsi agli ordini del IX Corpus. Ed altrettanto certo è che, dopo il rifiuto degli osovani a integrarsi nel comando del IX Corpus sloveno, incominciano a circolare, sempre più insistenti, le voci di «tradimento». Queste voci d'altra parte trovavano facile esca in alcuni contatti, peraltro mai negati dai partigiani osovani, sia con la Decima Flottiglia Mas, la milizia comandata da Junio Valerio Borghese - numerosi reparti della quale erano stati schierati a difesa del confine orientale -, sia con il federale fascista di Udine, Mario Cabai, che si fa latore di un'ambigua proposta dell'SS Sturmbannführer (tenente colonnello) Von Hallesleben, comandante della piazza di Pordenone. In entrambi i casi si propone agli osovani di formare un fronte comune contro i comunisti e, nel caso della Decima Mas, contro comunisti e nazisti, in nome della difesa dell'italianità del Friuli. Erano gli ultimi mesi di una guerra le cui sorti erano ormai chiare a tutti e nell'atmosfera un po' surreale da «si salvi chi può» le proposte stravaganti non mancavano. Bisogna sottolineare che in entrambi i casi fu la Osoppo ad essere sollecitata alle trattative, che non furono una sua iniziativa; e in entrambi i casi le proposte furono respinte. Ma mentre le proposte tedesche furono dirette ed immediatamente rifiutate con due lettere - una del 28 dicembre 1944 e l'altra del 10 gennaio 1945 - di don Aldo Moretti, consegnate all'arcivescovo di Udine mons. Giuseppe Nogara, che a sua volta le consegnò al federale Cabai, nelle proposte di Borghese, non mancò chi vide lo zampino dell'ufficiale del genio Thomas John Roworth, detto «maggiore Nicholson», che guidava la missione inglese in zona, e che avrebbe voluto così acuire, in chiave anti-comunista, la divisione tra osovani e garibaldini. In questo groviglio ambiguo due cose sono certe: il comando della Osoppo non strinse alcun accordo con fascisti e nazisti, ma il fatto stesso degli avvenuti contatti servì ad alimentare il clima ormai avvelenato tra osovani e garibaldini. Più interessante, dal punto di vista sostanziale, ci sembra la vicenda di Elda Turchetti. Questa ragazza di Pagnacco, paese dove i tedeschi avevano depositi di carburante, viene segnalata da Radio Londra - probabilmente su analoga segnalazione del «maggiore Nicholson» - come spia al soldo dei nazisti. Spaventata, si rivolge a un amico partigiano garibaldino per protestare la propria innocenza. Questi l'accompagna da Mario Toffanin, Giacca, comandante dei GAP di Udine, che si comporta in modo decisamente strano. Se fosse stato sicuro che la Turchetti era una spia Giacca l'avrebbe senza dubbio uccisa; nel dubbio, l'avrebbe dovuta consegnare al proprio comando per gli accertamenti. Invece Elda Turchetti viene consegnata da Giacca a Tullio Bonitti, capo della polizia interna della Osoppo, che a sua volta conduce la ragazza a Porzûs. Perché una sospetta spia veniva consegnata proprio alla formazione più volte accusata di mantenere ambigui rapporti col nemico? Ci fu chi disse che la Turchetti venne consegnata alla Osoppo per fare realmente la spia, per conto di Giacca contro la Osoppo. Difficile sapere la verità, perché la Turchetti fu uccisa a Porzûs. E siamo arrivati a parlare nuovamente di Mario Toffanin, Giacca. Padovano, nato il 9 novembre 1912, a tredici anni era già operaio ai cantieri San Marco di Trieste. Iscritto dal 1933 al partito comunista clandestino; sei anni dopo, ricercato, riparava a Zagabria, in Croazia. Aderì al movimento partigiano di Tito fin dall'invasione delle forze dell'Asse nell'aprile del 1941. I compagni jugoslavi dovevano avere in lui molta fiducia perché lo inviarono «in missione» prima alla federazione comunista di Trieste, poi a quella di Udine per «dare la sveglia» ai compagni italiani. Giacca non fu mai un partigiano combattente vero e proprio: trovò la sua collocazione migliore nei GAP. Del resto, era poco propenso alla disciplina di tipo militare, ma in compenso era fedelissimo al partito. E dalla federazione comunista di Udine gli arrivò l'ordine di «liquidare» il problema della presenza osovana a Porzûs, con la specifica che si trattava di un ordine del «comando supremo». L'ordine è del 28 gennaio 1945. Il tempo di organizzare l'azione, radunando un centinaio di uomini dei GAP a Ronchi di Spessa e il 7 febbraio Giacca sale alle malghe di Porzûs, coadiuvato dai suoi luogotenenti Aldo Plaino e Vittorio Iuri. Pare che gran parte degli uomini fossero all'oscuro degli scopi della missione; molti ignoravano anche dove si stesse andando.
Il comandante osovano Bolla non si allarma per le segnalazioni delle sentinelle, che vedono salire alle malghe la lunga fila di uomini: era atteso un battaglione di rinforzo, richiesto al comando divisione Osoppo proprio per l'acuirsi delle tensioni tra garibaldini e osovani. Gli uomini di Giacca ostentano un'aria dimessa, nascondono le armi sotto gli abiti, pochissimi portano il fazzoletto rosso. Spiegano alle sentinelle di essere partigiani sbandati dopo uno scontro con i nazifascisti; ma mentre in due parlamentano con le guardie della Osoppo, il grosso degli uomini inizia ad accerchiare la zona. Poi, è la strage. Il capitano Bricco si salva solo perché viene ritenuto morto. L'irruzione alle malghe non aveva portato alcuna prova del «tradimento» della Osoppo, salvo la presenza in luogo della Turchetti; ma vedevamo prima che era stato lo stesso Giacca a consegnare la presunta spia agli osovani.  Le uccisioni durano fino al 18 febbraio nel Bosco Romagno, dove poi verranno ritrovati i corpi, mal sotterrati.
Quando Mario Lizzero, commissario politico delle brigate Garibaldi in Friuli viene a sapere dell'accaduto va su tutte le furie e chiede che Giacca e i suoi luogotenenti siano fucilati. Non riesce ad ottenerlo, riuscirà solo a farli destituire dalle loro cariche di comando nei GAP. Ostelio Modesti e Alfio Tambosso, segretario e vice-segretario della federazione del PCI di Udine, forse iniziano a rendersi conto che è stata una grave imprudenza affidare la missione a Mario Toffanin, ottimo elemento per le azioni spicce e violente dei GAP, ma rozzo e violento e con un certificato penale già ben nutrito di reati, furto, rapina, omicidio, sequestro di persona, che nulla avevano a che vedere con azioni militari o politiche. Ma adesso è troppo tardi per i ripensamenti e viene scelta la linea di condotta peggiore, quella di gettare tutta la croce addosso a Giacca - che avrebbe mal inteso gli ordini -, favorendone peraltro l'espatrio in Jugoslavia, insieme ad altri implicati nella strage.
Sarà la magistratura ordinaria ad occuparsi della strage di Porzûs, in seguito alla denuncia presentata il 23 giugno 1945 al Procuratore del Re di Udine dal Comando Divisioni Osoppo. Il processo ebbe inizio solo sei anni dopo, nell'ottobre 1951, davanti alla Corte d'Assise di Lucca, dove era stato trasferito per «legittimo sospetto» e motivi di ordine pubblico e dopo un palleggiamento tra magistratura ordinaria e militare. Dopo quasi un decennio dalla strage di Porzûs veniva resa definitiva la sentenza che condannava Giacca e i suoi due luogotenenti all'ergastolo. Tutti e tre erano riparati da anni in Jugoslavia.
C'è un ultimo mistero, legato a questa vicenda e destinato a restare irrisolto. Che cosa spinse Sandro Pertini nel luglio del 1978, appena eletto Presidente della Repubblica, a concedere la grazia a Giacca? L'ex gappista, come affermò Buvoli, direttore dell'Istituto Friulano per la storia del movimento di liberazione aveva un pesante debito con la giustizia per reati ordinari, essendo estinte le pene per i fatti di Porzûs da provvedimenti di successivi indulti e amnistie. Il settimanale L'Espresso pubblicò, il 25 settembre 1997, un'inchiesta al proposito, ma si scontrò con una diffusa epidemia di amnesia, malattia che aveva colpito il consigliere giuridico di Pertini, il segretario generale del Quirinale, perfino il funzionario della Presidenza che si occupava all'epoca proprio delle pratiche di grazia.
Male imperdonabile, l'amnesia, capace di riscrivere, non senza malizia, la storia della Resistenza rossa che, anzichè combattere l'odio ideologico, proprio dei totalitarismi, a ben vedere, ha, se non spesso almeno volentieri, perpetuato.
tratto da P. DEOTTO, Strage di Porzus: un'ombra sulla Resistenza, in Storia Libera

Come si elegge il Presidente della Repubblica

Come si elegge il presidente della Repubblica?
Lo votano i "Grandi elettori", vale a dire tutti i deputati e senatori, più 58 delegati regionali (tre per regione, uno per la Val d'Aosta) eletti dai Consigli regionali. Totale, 1009. Per le prime tre votazioni, in seduta comune alla Camera, si può essere eletti con la maggioranza di due terzi (673) dalla quarta in poi vale la maggioranza semplice (505). Dettagli fondamentali: voto segreto, possibilità di eleggere chiunque abbia almeno cinquant'anni, assenza di candidati ufficiali o predeterminati («è una strana elezione senza candidati», sintetizzò una volta LucianoViolante).

Il centrosinistra potrebbe eleggere da solo il prossimo presidente da solo?

Facendo la somma di deputati e senatori il centrosinistra arriva a 458, ai quali c'è da aggiungere l'apporto dei delegati regionali, che i Consigli regionali stanno eleggendo in questi giorni: andranno in buona parte al centrosinistra stesso, ma non in misura sufficiente per superare quota 505. Con il sostegno dei gruppi di Scelta Civica, invece, la risposta è sì: ovviamente dal quarto scrutinio in poi. Per la statistica. l'ultima volta, Giorgio Napolitano fu eletto alla quarta votazione, proprio con i voti del centrosinistra - contrarie Lega e Casa delle Libertà - e arrivò a 543.

Quando avremo il prossimo inquilino del Colle?
Le sedute comuni dovrebbero cominciare giovedì 18 aprile. Lunedì 15 aprile la presidente Laura Boldrini convocherà il Parlamento in seduta comune. I voti saranno trasmessi in diretta dalla web tv della Camera. Con un accordo trasversale, l'elezione potrebbe arrivare al primo voto. Altrimenti, non prima del quarto, ossia almeno un paio di giorni dopo: ma ce ne possono volere anche di più.

Quanto ci vuole per ogni votazione?
Tra voto e spoglio, tre-quattro ore. Il 10 maggio 2006, per eleggere Giorgio Napolitano, ci vollero 3 ore e 40. Dalle 9 e 40 del mattino alle 13 e 20, quando furono proclamati i risultati. In teoria, quindi, si possono fare anche tre o quattro votazioni al giorno: in pratica di solito non se ne fanno più di due, perché per senza un accordo politico è inutile votare a ripetizione.

Dove si decide, davvero, chi sarà il capo dello Stato?
In tutti i luoghi tranne che in Aula. Ciriaco de Mita: "L'Aula può distruggere una candidatura, crearla mai". La quantità di franchi tiratori - ossia di chi vota in modo difforme dalle indicazioni del suo gruppo parlamentare - non è prevedibile.

Come si vota?
La cabina elettorale, detta "catafalco", è piazzata sotto il banco della presidenza della Camera. E' la stessa che si usa alla Camera per le votazioni che non possono svolgersi col sistema elettronico. L'urna è detta insalatiera: in vimini, fodera interna in raso verde, decorazioni d'oro. Schede: nel 2006 si usarono di colore diverso per ogni giorno, per evitare brogli (nel 1992, furono trovate cinque schede in più).

Chi ha più anzianità tra i Grandi elettori?
Giulio Andreotti, 94 anni, senatore a vita, l'unico Costituente che abbia partecipato ininterrottamente a tutte le votazioni dal lontano1948. Date le condizioni di salute, è molto improbabile che si presenti. Seguono, per anzianità, il senatore a vita ed ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (93 anni) ed Emilio Colombo, di quattro mesi più giovane, che ha presieduto con lucidità la prima riunione della Camera in questa legislatura.

Quanto ci vuole di solito a eleggere un presidente?
Gli unici presidenti ad essere eletti al primo colpo sono stati Enrico de Nicola (scelto dalla costituente con il 79 per cento dei voti), Francesco Cossiga (ebbe 752 voti, su 1011, 74,4 per cento), e Carlo Azeglio Ciampi (707 voti su 1010). Tutti e tre erano stati frutto di un accordo tra i maggiori partiti precedente la votazione. Per eleggere Giovanni Leone, invece, ci vollero 23 scrutini e 15 giorni, record negativo. L'elezione di Leone, nel 1971, fu fortemente avversata dalla sinistra e avvenne alla fine con i voti decisivi del Msi

Verso il Giro - I grandi vincitori del passato


In questo secondo appuntamento dedicato al Giro d’Italia, la nostra rubrica ricorda i più grandi a vincere la mitica corsa rosa. Nel farlo, non si può omettere di menzionare la prima magli rosa: Luigi Ganna che si aggiudicò la prima storica edizione del 1909: quasi 3 mila chilometri in solo 8 tappe (tanto lunghe che si rendeva necessario partire nel cuore della notte). 
L’Albo d’Oro tra i vincitori del maggior numero di edizioni, ben 5, annovera un fantastico trio, composto da Alfredo Binda, dominatore a cavallo degli anni ’20 e ’30; il campionissimo Fausto Coppi ed “il cannibale” Eddy Merckx. Per quanto riguarda Binda, nel 1930, venne pagato dagli organizzatori, con una somma equivalente al primo premio, per non prendere parte alla gara, alla quale, in virtù della sua manifesta superiorità, avrebbe tolto interesse.
Coppi e Merckx, invece, potettero misurarsi con campioni di livello sublime quali i loro due acerrimi rivali: rispettivamente Gino Bartali e Felice Gimondi, vincitori, entrambi, di 3 edizioni.
Tra le altre leggende del passato, più o meno remoto, del Giro d’Italia, occorre menzionare anche Costante Girardengo, il recentemente scomparso Fiorenzo Magni,  Charlie Gaul e Jaques Anquetil, tutti a quota 2 vittorie, eccetto Magni, che, in un periodo con Coppi e Bartali in gruppo, riuscì a vincerne ben 3 di giri, di cui uno per appena 13’ sul campionissimo piemontese.
Gli anni ’80, sono stati caratterizzati dalla rivalità, tutta italiana, tra Beppe Saronni e Francesco Moser, vincitori, rispettivamente, di due ed una edizione. Dopo le vittorie azzurre di Bugno e Chioccioli, definito “il Coppino”, per la sua somiglianza con il mitico Fausto, negli anni ’90 le strade del Giro sono state percorse dal “pirata”, Pantani, vincitore dell’edizione del 1998 e fermato alla 20° tappa dell’edizione 1999, quando aveva ormai la vittoria in tasca, per un tasso di ematocrito lievemente alto.
Gli anni 2000, così come dalla prima edizione al 1949, sono stati caratterizzati dal dominio italiano con le vittorie, tra gli altri, di Gilberto Simoni, Paolo Savoldelli ed Ivan Basso, vincitori di un paio di edizioni a testa.

L'utopia del tutto


Già nel Medioevo buona parte dei filosofi e degli scienziati discuteva riguardo una possibile spiegazione dei fenomeni riguardanti la sfera empirica. Tommaso d’Aquino arrivò ad asserire definitivamente che la natura risponde a leggi stabilite da Dio. Passando per Isaac Newton fino ad arrivare ai giorni nostri sembra piuttosto chiaro l’obiettivo della numerosa schiera di fisici affamati di scoperta : rispondere a questi interrogativi basilari con una legge cosiddetta del “Tutto”, ovvero che riesca a tenere insieme con sufficiente chiarezza e semplicità tutte le leggi e le teorie finora stabilite. In altre parole il tentativo è quello di esprimere esplicitamente il progetto divino del mondo. L’ambizione sembra essere tanto eccessiva da soffocare il progetto. E inoltre ci sono molte domande che sorgerebbero spontanee : quanto è realistico tale obiettivo? Esiste davvero una legge capace di considerare ogni fenomeno, supponendo inoltre molto improbabilmente di essere arrivati ad una conoscenza definitiva? Ed infine non potrebbe essere tutto questo un ostacolo alla nostra libertà? Si comprende dunque che il concetto di legge di natura ha alcune insidie. I teologi medievali si posero infatti tali domande che ancora oggi non hanno risposta. Un altra delle tante è la seguente: se Dio può e sa tutto , conosce anche ciò che faremo in futuro. Allora come possiamo noi scegliere liberamente il nostro destino . Molti teologi hanno risposto affermando che di Dio non si può conoscere ogni cosa. Il quesito che rimane allora fastidiosamente presente è: siamo liberi o siamo schiavi della natura e delle sue leggi come robot con comandi prestabiliti? Dalle varie illusioni di una teoria definitiva che si sono presentate nella storia, da Newton a Laplace fino ad Heisenberg che definì che nel mondo microscopico quanto meglio si sa dove si trova una particella in un istante tanto meno si potrà prevedere dove sarà in futuro, arriviamo alla celebre frase di Einstein “Dio non gioca a dadi” con la quale egli intendeva affermare che la probabilità e l’indeterminazione nascono dalla nostra mancata conoscenza di leggi più profonde . Insomma, una conclusione definitiva non sembra esserci per ora. Ci sono però le parole sarcastiche ma ponderate di George Coyne , direttore dell’ Osservatorio Vaticano: “ State attenti a leggere nella mente di Dio, potreste fare errori di calcolo…”.