Spesso si tende a considerare la qualità di un saggio in relazione al
numero di pagine, identificandone la bontà con la mole di carta
stampata. Si ritiene che questo genere di letteratura possa farsi spazio
solo tra le polverose librerie di ieratici professori in giacca e
cravatta, gli unici capaci di scalfire la scagliosa corteccia di un
linguaggio tecnico, monocorde e poco appetibile per i comuni mortali.
La lettura de “La letteratura in pericolo” sarebbe sufficiente
a far scoppiare in una bolla di sapone tutte queste prevenzioni.
Tzvetan Todorov, nato in Bulgaria ma – come raccontato nel libro-
completamente francesizzato, essendosi trasferito a Parigi sin dai suoi
anni universitari, è uno dei più eminenti e acuti critici letterari
viventi. Eppure le frasi che compongono le ottanta pagine scarse del
libro sono alla portata di tutti, facili da comprendere e, proprio per
la loro asciuttezza, capaci di scendere in profondità, facendosi spazio
come una lama tagliente.
Todorov racconta passo passo le tappe che l’hanno portato a fare
della Letteratura la sua ragione di vita e, successivamente, il suo
lavoro. Ci lascia sbirciare nella sua infanzia, quando sin da piccolo
osservava la sua casa invasa dai libri ammassati dai suoi genitori
bibliotecari, costretti a lambiccarsi il cervello nel tentativo di
trovare nuovi modi per far entrare quella crescente mole di volumi.
Confessa al lettore il suo inguaribile e precoce vizio per la lettura,
divenendo un giovanissimo lettore onnivoro, capace – come appuntava in
un suo diario – di leggere in solo un’ora e mezzo un libro di 223
pagine. Una passione che gli consentì di tracciare sin dai primi anni le
coordinate lavorative della sua esistenza: “Non sapevo cosa avrei fatto nella vita, ma ero certo che avrebbe avuto a che vedere con la letteratura” perché “al
di là dall’essere un semplice piacere, una distrazione riservata alle
persone colte, la letteratura permette a ciascuno di rispondere meglio
alla propria vocazione di essere umano”
Il corpo dell’agile saggio si snoda in una pacata, ma contundente,
invettiva contro l’attuale metodo di studio nel campo dei saperi
umanistici. E’ come – fa notare l’autore – se a scuola non si
studiassero più le opere letterarie in sé, ma ci si fermasse alla
superficie, limitandosi alla vernice o, peggio, a quello che gli
eminenti critici letterari pensano di quelle opere. Tra gli studenti e
gli autori della letteratura è stata posta una fitta maglia di
interpretazioni e teorie, che si perde in una girandola di fumo,
dimostrando così “una certa mancanza d’umiltà quando insegniamo le nostre teorie riguardo alle opere, piuttosto che le opere stesse”.
E’ venuto meno quello che era l’inscindibile legame tra Vita e
Letteratura, ritenendo quest’ultima completamente estranea al mondo e
autosufficiente, di conseguenza senza senso e poco attraente per gli
studenti. Se il nostro sistema educativo riuscisse a riconsegnare alla
Letteratura la sua antica dignità, questa forse smetterebbe di essere
osservata con quello sguardo indagatore e distaccato dipinto negli occhi
di molti oggigiorno; anzi, ricoprirebbe un ruolo fondamentale ed
essenziale all’interno della nostra società. “Essendo oggetto della
letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non
diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore
dell’essere umano. Quale migliore introduzione alla comprensione dei
comportamenti e dei sentimenti umani, se non immergersi nell’opera dei
grandi scrittori che si dedicano a questo compito da millenni? E allora
quale migliore preparazione per tutte le professioni basta sui rapporti
umani?”
Ed è questa la grande sfida posta dall’autore: ridare alla
Letteratura la sua dignità. Se essa viene riposta in secondo piano, la
causa non è da ricercare nei tempi che cambiano, bensì in una visione
distorta e un approccio sterile ad essa.
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