Il Nome della Rosa, quando il romanzo storico dimentica la storia


Il Nome della rosa, dato alle stampe per la prima volta nel 1980, è il romanzo di maggior successo di Umberto Eco, critico, saggista e scrittore italiano di fama internazionale candidato l’anno passato al Nobel per la letteratura. Il libro narra le vicende di una non meglio identificata abbazia del Nord Italia nel 1327, quando fu sconvolta da una serie di terribili omicidi. I protagonisti sono Adso, novizio benedettino, e il suo maestro Guglielmo, giunto nel convento per prendere parte ad una disputa sulla povertà di Cristo e, in seguito, incaricato dall’abate di indagare sulla misteriosa morte di un miniatore, alla quale ne seguiranno altre, altrettanto misteriose, nei giorni seguenti. In questo contesto appare Bernardo Gui, inquisitore dell’ordine domenicano, che oltre ad interessarsi alla discussione, improvvisa degli interrogatori sugli oscuri delitti, in seguito ai quali porterà via sulla strada di Avignone due monaci ex-dolciniani accusati di eresia e una ragazza con l’accusa di stregoneria. L’inchiesta di Guglielmo, che si svolge nell’arco di 7 giorni , si conclude con la scoperta dell’assassino, il vecchio Jorge, che, pur di tenere nascosto il manoscritto contenente il secondo libro della Poetica di Aristotele, ne aveva avvelenato le pagine, comportando così la morte dei lettori; la narrazione termina con un incendio che distruggerà l’intera abbazia insieme ai suoi volumi.Il titolo, su cui si sofferma lo stesso autore nelle Postille all’opera, è dovuto a un verso di Bernardo Cluniacense, che Eco rivede variandone il senso: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”[1]. L’esametro originale ha il termine “Roma” al posto di “rosa”, che l’autore ha scelto in quanto “figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno”[2]. Il verso riportato a conclusione del racconto affronta un tema ricorrente nel pensiero medievale, peraltro già trattato nel corso della narrazione da Guglielmo, ovvero il contrasto fra realisti e nominalisti. Guglielmo affronta questo problema quando stupisce i monaci con la puntigliosa descrizione di un cavallo che non ha mai visto; alla richiesta di spiegazioni da parte del suo discepolo, lui afferma che, trovandosi “fra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un’idea universale”[3] ha preferito la prima, accantonando la seconda, poiché ritiene le idee universali “puri segni”[4]. Le idee del frate ricalcano chiaramente quelle di Guglielmo da Occam -di cui si dichiara amico- frate francescano inglese nemico dell’allora pontefice Giovanni XXII, che esprimono un nominalismo relativista per il quale la conoscenza si limita alle realtà individuali e gli universali sono “puri segni”[5]. Il protagonista conclude il pensiero del proprio amico affermando che “l’unica verità è imparare a liberarci dall’insana passione per la verità”[6], enunciando drasticamente le basi del pensiero debole dell’età contemporanea.


Il Nome della rosa può quindi essere letto come romanzo a chiave sull’età contemporanea, di cui esprime il pensiero dominante. Eco nello scrivere questo libro tenta di immedesimarsi nella mens dell’uomo medievale per dare luogo a un’opera che sembri storica, prendendo spunto da un manoscritto medievale. Perciò appare lecito e degno di interesse analizzare l’opera secondo i quattro sensi dell’allegorismo medievale suggeritici da Dante nell’epistola a Cangrande della Scala. A una lettura a livello letterale il romanzo appare come un poliziesco di ambientazione storica, a livello allegorico un romanzo a chiave sull’età contemporanea, mentre risulta difficile darne una lettura di senso morale e, ancor di più, anagogico. Il libro si rivela infatti una critica cieca, negativa e senza prospettive della società medievale che viene descritta; la stessa storia, che narra eventi quanto mai dissoluti, finisce per negare ogni assunto morale. Come si può dunque dare una lettura di senso morale a un’opera che manca di fiducia nella moralità delle azioni dell’uomo? Il romanzo narra di un monastero, luogo della fede per eccellenza, che diviene teatro di azioni empie e peccaminose che vanno contro la stessa fede; è quindi assente qualsiasi senso anagogico, perché relativo ai più profondi misteri di una fede negata. Nel libro, così come manca la fiducia nella moralità delle azioni dell’uomo, manca anche quella nel suo intelletto, perché viene preclusa all’uomo la possibilità di conoscere la verità.

Il genere del libro di Eco è di difficile identificazione ed è stato oggetto di numerose discussioni, ma quello che meno gli si addice è il genere storico. Sono facilmente identificabili all’interno del romanzo numerose incongruenze storiche e grossolani errori -di poco conto per l’evolversi della storia-, ma anche astute manipolazioni, rese ancor più gravi dall’approfondita conoscenza del Medio Evo da parte dell’autore e dalla sua intenzione di scrivere un romanzo storico. Per ben due volte vengono citati nel manoscritto i peperoni, verdura importata dall’America e diffusasi solo due secoli più tardi; nel finale Jorge azzarda un paragone con un violino, strumento inventato solo ai primi del XVI secolo.
Ma oltre a queste piccole imprecisioni, sono presenti errori ben più gravi, che compromettono il carattere storico del romanzo, che difatti descrive una realtà distorta. Uno dei più evidenti riguarda i monaci, che nel racconto censurano i libri più scomodi e tengono quindi celata la cultura; questo errore è figlio di un pensiero contemporaneo molto diffuso, che non rende atto ai monaci di essere stati i salvatori della cultura durante il Medio Evo, non solo conservando e copiando libri, ma anche mettendo in grado la popolazione di conoscerli e apprezzarli, insegnando a leggere e scrivere. Errore piuttosto fuorviante è anche quello circa l’Inquisizione, che nel libro pare un tribunale ideologico, e la figura dell’inquisitore Bernardo Gui, al quale “interessa solo bruciare gli imputati”[7]. Queste tesi si rivelano false e capziose, perché l’Inquisizione assume un ruolo determinante solo alla fine del Medio Evo, per contrapporsi a movimenti quali i catari e i dolciniani, che, con le loro condotte violente, non mettevano in pericolo la solidissima dottrina della Chiesa, ma l’incolumità fisica e la sicurezza di interi paesi. “Sarai dannato e condannato se confesserai e sarai dannato e condannato se non confesserai”[8] afferma all’imputato Bernardo, che viene così descritto ben diversamente da come le fonti storiche ci presentano il personaggio: per anni interi non emise condanne e su oltre 900 casi affrontati in soli 40 rimise gli imputati al braccio secolare. Inverosimile è anche l’elemento di supporto della trama, ovvero l’intenzione della Chiesa di tenere nascosto il secondo libro della Poetica di Aristotele in quanto esaltazione dell’umorismo. Infatti era pensiero diffuso nella Cristianità medievale che l’umorismo vano e malizioso fosse da evitare, ma l’umorismo in sé non fosse peccato, bensì potesse essere virtuoso. Lo stesso “Dottore d’Aquino” più volte citato nel racconto, ma non in questo ambito, afferma nella Summa Theologiae che “in defectu ludi non est aliquod peccatum”[9] e che “defctus ludi magis pertinet ad virtutem quam ad vitium”[10]. Inoltre i monaci, e i benedettini in particolare, hanno conservato moltissime commedie classiche, persino moralmente discutibili ed è proprio grazie a loro che durante il Medio Evo si è avuta una notevole rivalutazione del mondo classico, teatro compreso. Gli ideali anti-cattolici che emergono dall’analisi di questi dati sono confermati anche dalla presenza, fra le pagine del libro, dei giudizi di molti pensatori del nostro secolo ostili alla Chiesa[11].
D’altro canto l’autore cerca di avvalorare questi pensieri introducendo citazioni dalle Sacre Scritture non solo sulla bocca dei monaci, ma anche nella narrazione di Adso, come i primi versetti del Vangelo di San Giovanni in apertura di manoscritto e, poco dopo, la frase dalla lettera di San Paolo ai Corinzi, il cui senso viene però stravolto. L’autore attinge a piene mani non solo dalla Bibbia, ma anche dai classici della letteratura italiana, con citazioni -su tutte, quelle da Dante- e la ripresa di espedienti narrativi, come quello manzoniano del manoscritto ritrovato, presente in molte opere, e il sistema di narrazione divisa per giorni secondo l’impostazione del Decameron di Boccaccio. La lingua che lo scrittore utilizza nel romanzo è particolarmente ampia, intrisa di termini arcaici, latinismi ed intere frasi in latino, francese e tedesco. Ad Eco bisogna però dare merito di essere stato l’iniziatore del genere poliziesco moderno, che, a differenza dei romanzi di Agatha Christie, Conan Doyle, Edgar Allan Poe e altri scrittori di gialli a lui precedenti, non si limita alla narrazione di un intreccio poliziesco, ma è mezzo per esprimere i propri pensieri e i propri interessi. Ciò non autorizza però l’autore a imporre come vera una storia stravolta nel proprio corso per dare credito alle sue opinioni, non rispettando né la verità storica né i lettori, spesso convinti di leggere un romanzo storico basato su fonti solide e certe.

***

[1] U.Eco, Il nome della rosa, Bompiani, XXIII ed., p.503
[2] U.Eco, Ivi, Postille, p.508
[3] U.Eco, Ivi, p.36
[4] U.Eco, Ibidem
[5] U.Eco, Ibidem
[6] U.Eco, Ivi, p.394
[7] U.Eco, Ivi, p.397
[8] U.Eco, Ivi, p.384
[9] Tommaso da Aquino, Summa Theologiae, 2a2ae, 168, 4
[10] Ibidem
[11] La teoria secondo la quale chi fosse oggetto di tortura provasse un’estasi mistica appartiene al francese Geoges Bataille; il passo in cui Guglielmo dubita della veridicità delle reliquie è invece tratto da Roger Peyrefitte, peraltro smentito da uno scienziato contemporaneo dichiaratamente agnostico italiano, Pier Luigi Baima Bollone.

La Rivoluzione Francese, questa sconosciuta


Il 1789 è considerato da molti l’anno discriminante che separa la storia moderna da quella contemporanea: l’evento che conferisce a questo anno tale importanza è la Rivoluzione Francese, il cui studio ha inizio sin dai primi anni di scuola. E tuttavia, nonostante la grande importanza conferitagli dalla storiografia moderna, pochi di noi possono affermare con sicurezza di conoscere tale evento, non tanto per proprie colpe, ma per via delle scelte di un sistema d’istruzione che, in Italia come in Francia, presenta la Révolution ignorando gran parte della storia di quegli anni.

L’episodio che storicamente dà inizio alla Rivoluzione è datato 14 luglio 1789, quando viene assaltata la Bastiglia, la tanto temuta prigione per i prigionieri politici, all’interno della quale vennero trovati i più atroci strumenti di tortura: appare curioso contrapporre i dati reali a quelli appena proposti, presenti nella maggior parte dei nostri libri scolastici. Il 14 luglio 1789 vennero liberati dalla Bastiglia solamente quattro falsari, due pazzi ed un maniaco sessuale, difficilmente definibili “prigionieri politici”. Le numerose ossa che vennero ritrovate in una cella, che avrebbero testimoniato le frequenti esecuzioni avvenute fra quelle mura, non erano altro che i resti dei morti suicidi a Parigi, che non potevano trovare riposo in terra consacrata perché - appunto - suicidi. Le diverse temibili macchine da tortura presenti in un’altra stanza della Bastiglia erano in verità solo due: un “corsetto di ferro per stritolare le articolazioni”, che in verità era un’antica armatura conservata come pezzo di antiquariato, ed una macchina “non meno infernale e diabolica” che si rivelò essere nient’altro che una pressa sequestrata ad un editore accusato di pubblicazioni oscene. La gloriosa presa della Bastiglia inoltre costò la vita a molti ufficiali della guarnigione, chi massacrato, chi torturato e chi impiccato mentre compiva il proprio dovere.
Alla luce di questa breve delucidazione sul solo episodio iniziale della Rivoluzione, risultano illuminanti le parole dello storico francese Pierre Chaunu (1923-2009), luminare della storiografia dell’America Latina e dell’Ancien Régime: “La scuola di Stato insegna solo stupidaggini sulla Rivoluzione Francese”. Il professor Chaunu è stato da molti definito il Guastafeste della Commemorazione del Bicentenario della Rivoluzione Francese, per la sua tanto feroce quanto documentata ed incontestabile critica, basata su anni di studi di documenti e dossier fino ad allora rimossi dalla storiografia ufficiale, i cui contenuti si sono rivelati sconvolgenti. La prima denuncia del genocidio della Vandea proviene dai suoi studi, che lo hanno portato ad affermare con schiettezza che “senza la Rivoluzione Francese il mondo sarebbe stato sicuramente migliore".


Nell’anno del Bicentenario il professore si è concesso a diverse interviste e, in una di queste, esordisce paragonando la Rivoluzione Francese alla Peste Nera del 1348, chiedendo poi al proprio interlocutore perché nessuno la festeggia. Chaunu è stato uno dei fondatori della storia economica quantitativa: i suoi studi hanno portato all’elaborazione di grafici e dati che evidenziano inequivocabilmente come tutte le curve di crescita della Francia si fermino al 1789, sebbene fossero state fino ad allora estremamente positive, al pari di quelle di quell’Inghilterra che nell’arco di 30 anni sarebbe arrivata a doppiare in produttività i transalpini. Oltre ad un’immensa perdita a livello economico, che conduce la Francia sul lastrico, la Rivoluzione comporta anche un’inestimabile perdita a livello culturale e scientifico: l’alfabetizzazione diminuì, il numero delle scuole - non più affidate alla Chiesa - ebbe una cospicua contrazione, gli ospedali non potevano più contare sul finanziamento proveniente dalla decima alla Chiesa, buona parte dell’elite scientifica ed intellettuale fu costretta all’esilio per evitare di essere ghigliottinato come Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, condotto sul patibolo a soli 37 anni.
“La Rivoluzione Francese fu solo una gran ruberia a vantaggio della classe dirigente, da commemorare non come esempio di libertà, uguaglianza, fraternità, ma di menzogna, furto e crimine”. A partire dalla Costituzione Civile del clero la Rivoluzione si è posta come obiettivo la scristianizzazione della Francia, attuando una feroce persecuzione contro la Chiesa, alla cui base non vi era alcuna motivazione metafisica, ma solo interessi finanziari. 

Il campo dove forse più di ogni altro la Rivoluzione ha portato notevoli progressi - o almeno così ci insegnano a scuola - è stato quello delle libertà personali: e tuttavia, se nel 1787 i protestanti avevano ottenuto la libertà religiosa con l’editto di tolleranza, nel 1793 la persero, al pari dei cattolici, con la chiusura di tutti i luoghi di culto. Chaunu inoltre sottolinea come tutti i principi della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo fossero già stati formulati da Jefferson nel 1783 e, addirittura, appartenessero alla tradizione giudeo-cristiana, riprendendo la tesi del suo connazionale Fustelle de Coulange (1830-1889), che datava tali principi oltre mille anni. Il professore conclude infine che “le due Costituzioni più democratiche che siano mai state fatte sono state quella sovietica del 1936 e quella dei ghigliottinatori del 1793: i loro orrendi frutti ci sono tristemente noti”.

“Come sarebbe stato il mondo senza la Rivoluzione Francese? Semplice. Molto migliore.”
Pierre Chaunu

Garibaldi ferito per ordine del Re: ambiguità risorgimentali


“Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…”, quante volte sul ritmo della carica dei bersaglieri abbiamo canticchiato, da bambini, questo motivetto. La sua diffusione e i 150 anni di storia unitaria che ha attraversato indenne, sono certo imputabili all’orecchiabilità e alla sua facilità di memorizzazione, tuttavia essa testimonia tutta quanta l’impressione che potè generare nell’immaginario del popolo (il quale non dedicò ballate a nessun altro evento del Risorgimento) un fatto come il ferimento di Garibaldi, ritenuto, all’epoca, un eroe indiscusso, l’eroe dei due mondi. Il motivo di tanta impressione oltre che nel ferimento, una cosa normalissima per un militare ma non per un uomo, ritenuto come ogni eroe quasi invulnerabile, sta nel mandante di esso: il Regno d’Italia. Fu infatti l’esercito regolare dello Stato ad arrestare sull’Aspromonte, quel 29 agosto 1862, la marcia verso Roma di due mila volontari al seguito del generale che, appena due anni prima, in circostanze analoghe aveva conquistato il Regno delle Due Sicilie. Certo, l’immagine del ferito Garibaldi appoggiato ad un pino con un toscanello in bocca che dichiara la resa, anche se di eroico ha poco, a ben vedere, connotandolo come nemico del Regno, è molto più onorevole, per un dichiarato repubblicano, di quella del mercenario al soldo della monarchia sabauda e del moderato Cavour, cucitagli addosso dall’incontro di Teano in cui, remissivamente, disse “Obbedisco!” a Vittorio Emanuele II. Tuttavia l’unità di intenti tra il governo di Torino e il generale di Caprera, testimoniata qualche anno più tardi dalla zelante partecipazione di Garibaldi alla Terza Guerra d’Indipendenza nonché al tentativo, fallito a Mentana, di conquista dello Stato Pontificio nel 1867, mostra le ambiguità sottese all’incidente dell’Aspromonte e agli eventi che ad esso, febbrilmente, portarono.
Garibaldi si era imbarcato per la Sicilia a fine giugno su una nave della marina regia, non si sa bene per quale ragione. Probabilmente doveva portare a termine un “lavoretto” per Sua Maestà: a marzo Vittorio Emanuele II gli aveva commissionato una delicata operazione militare che per poco non rischiò di portare l’Italia in una terribile guerra contro Regno Unito, Francia e Austria. Garibaldi e i suoi volontari dovevano far sì che scoppiasse una crisi nei Balcani perché fosse rimessa in discussione la questione territoriale sulle terre appartenute all’Impero Ottomano, per favorire l’ascesa sul trono greco del figlio di Vittorio Emanuele, Amedeo di Savoia. Minacciato da Napoleone III, per evitare la frittata, il re mise in scena una farsa simile a quella dell’Aspromonte: fece arrestare i garibaldini a Sarnico, al confine con l’Austria, con una scusa, per poi rimetterli in libertà in nemmeno un mese. Salvata la faccia, si optò per il piano B: dalla Sicilia, Garibaldi, doveva poi giungere in Grecia e lì scatenare una rivoluzione perché Amedeo s’insidiasse al trono. Tuttavia il progetto savoiardo di allargare la propria influenza sull’Europa Mediterranea, incontrò un nuovo e definitivo ostacolo nei festeggiamenti con cui il generale nativo di Nizza venne accolto a Marsala, appena due anni dopo la spedizione dei Mille. Qualcuno tra la folla gridò “O Roma, o morte!”e Garibaldi non ci pensò due volte a declinare la missione greca per un più ambizioso tentativo di marcia sullo Stato Pontificio, come dichiarò pubblicamente. Da buon massone, ricevette anche notevoli fondi da parte di alcune logge protestanti che lo finanziarono al fine non solo di prendere Roma, ma anche di distruggere per sempre la Chiesa Romana. 
Il re, che dopo la morte di Cavour, aveva fortemente ridimensionato il ruolo del Parlamento ed esercitava il proprio potere in modo pressoché incontrollato, non mosse un dito dinanzi il reclutamento di volontari da parte di Garibaldi per tutto il mese di luglio, sperando di poter approfittare come due anni prima, delle conquiste garibaldine. Solo ad agosto, prese le distanze dall’iniziativa senza però intervenire energicamente come dimostrò l’immobilismo della Marina Regia alla partenza dei due mila volontari garibaldini verso Reggio Calabria. A Garibaldi venne permesso di attraversare lo stretto, rinviando lo scontro a fuoco sulla terraferma, dove il rischio di eccessive perdite era scongiurato (all’Aspromonte morirono solo 12 uomini). Si giunse così al 29 agosto quando, alle 4 del pomeriggio, la “fuga” di Garibaldi ebbe fine: un risibile scontro durato 10 minuti sancì la sua resa e quella dei 1500 volontari rimasti a sua disposizione. Il motivo dell’improvviso voltafaccia del re e del perentorio ordine alle truppe regolari di arrestare la marcia di Garibaldi non fu dovuta alla devozione di Vittorio Emanuele II, preoccupato dalla possibile fine del potere temporale del papato, ma alle minacce di Napoleone III. Questi non fece mistero che, qualora Garibaldi avesse preso Roma, l’esercito francese sarebbe andato a restituire la Città Eterna al suo legittimo proprietario, Pio IX, ricordando al re sabaudo che la strada che dalla Francia porta a Roma, passa per il Piemonte... L’amnistia concessa alla prima occasione utile, il matrimonio di Maria Pia di Savoia il 5 di ottobre, al claudicante Garibaldi, al quale il proiettile dal malleolo della gamba destra venne tolto solo il 23 novembre, e la mancata punizione degli ufficiali della marina che non ostacolarono il generale, dimostrarono alle diplomazie europee che quest’ultimo non aveva agito all’insaputa del re, ma con la sua tacita complicità. 
Un intrigo rispetto alla quale ogni scandalo della politica odierna impallidisce: un re che oltre ad anteporre il proprio interesse familiare a quello della patria - che Vittorio Emanuele considerasse l’Italia un feudo del Piemonte è dimostrato dal fatto che rimase fedele alla numerazione con la quale era divenuto re di Sardegna, anziché assumere il nome di Vittorio Emanuele I, in quanto primo re d’Italia – non si fa scrupolo, nonostante le dichiarazioni di facciata, di ricorrere alle violenze di un manipolo di facinorosi per ottenere vantaggi territoriali e un sedicente liberatore dei popoli, quale Garibaldi, che esegue deferente gli ordini del sovrano sabaudo quando non agisce al soldo della massoneria cosmopolita. A 150 anni di distanza, l’incidente dell’Aspromonte appare come la chiave per una veritiera demitizzazione del Risorgimento, il quale, se,  a livello culturale, innegabilmente fu un movimento di tenore sublime capace di mobilitare le menti più brillanti del secolo XIX, dal punto di vista politico, non mancò certo di contraddizioni ed ingerenze estere che compromettono quella valenza di assoluta affermazione della volontà popolare che gli si è voluto attribuire. La giornata dell’Aspromonte inoltre, restituendocene un’immagine debole e dolorante, riporta Garibaldi, da sempre l’eroe, su un piano fortemente umano: l’abisso tra la gagliardezza delle effigi presenti nelle piazze d’Italia e la figura di un ferito che fuma il sigaro, mentre aspetta la resa, appoggiato ad un albero, fa riflettere sulla distanza tra l’effettiva caratura degli uomini che fecero il Risorgimento, adulteri, come Vittorio Emanuele, malati del gioco, come Camillo Benso, massoni, come Garibaldi, e l’edulcorata immagine di Padri della Patria che gli è stata costruita addosso, per nobilitare come unificazione d'Italia ciò che, invece, non fu nulla di più di una conquista sabauda della penisola.

Quando la Rivoluzione dura un secolo


La storia umana è da sempre caratterizzata da un innato interesse per l’ignoto, da una recondita tendenza alla novità, che esercita sull'uomo un innegabile fascino. Non c’è periodo storico né circostanza politico-sociale che riesca a reprimere questa propensione naturale dello spirito umano, a tal punto che alcuni storici contemporanei definiscono il periodo in cui viviamo “quarta rivoluzione industriale”, definizione che presuppone il riconoscimento storiografico di altre tre rivoluzioni industriali.

Appare tuttavia, se non sbagliato, quantomeno impreciso attribuire il termine Rivoluzione ad un fenomeno di così lunga durata e che interessa le diverse regioni dell’Europa in periodi storici così diversi fra loro, quale appunto la cosiddetta Prima “Rivoluzione” Industriale. La categoria storiografica della Rivoluzione comprende infatti avvenimenti che si caratterizzano per una repentina trasformazione della società, che rappresentano l’apice di un’improvvisa accelerazione in un processo di cambiamento storico, sociale e politico. La Prima “Rivoluzione” Industriale tuttavia non sembra rispondere appieno a tali caratteri distintivi, così da sembrare estranea a questa categoria: essa difatti ha le sue origini nella seconda metà del XVII secolo ed arriva poi ad affermarsi pienamente in Inghilterra un secolo dopo e nell’Europa Orientale poco più di cento anni fa, coprendo un lasso di tempo che supera abbondantemente il secolo.

Addio a Neil Armstrong, l'extraterrestre della normalità

 Se ne è andato in un pomeriggio d’estate Neil Armstrong, come in un giorno d’estate aveva compiuto l’impresa che gli ha conferito l’immortalità nella memoria di tutti noi; la notizia ci ha svegliati in nottata, come ci tenne svegli la diretta che nella nottata di quel 21 luglio 1969 tenne attaccati alle televisioni migliaia di persone. Se ne è andato un pezzo di storia dell’ultimo secolo, che ha sempre voluto evitare ogni forma di eccessiva celebrità dovuta alla sua impresa, o meglio -come amava chiamarla lui - al suo lavoro.
Il primo uomo sulla luna avrebbe potuto trascorrere il resto dei suoi giorni raccontando le proprie esperienze, dando alle stampe decine di libri sulla propria vita, facendo degli studi televisivi e della sale stampe il proprio habitat, vivendo in un’eterna e meritata aurea di fama e notorietà. Ma il primo uomo sulla luna si chiamava Neil Armstrong. E non a caso.
La NASA aveva scelto lui perché la sua personalità lo rendeva l’unico adatto ad un’impresa - questa sì - così impegnativa come sopportare la pressione delle attenzioni mediatiche senza togliere i dovuti meriti a tutti gli altri uomini - centinaia di uomini - che da terra avevano reso possibile l’allunaggio. Neil è riuscito magistralmente in quanto richiestogli, conducendo una vita che molti hanno definito eremitica, allontanandosi dalle televisioni e dai giornali, declinando tutti gli inviti a prendere parte ad un partito politico, riducendo al minimo le proprie apparizioni pubbliche. Nel 50° anniversario dello sbarco sulla Luna si è concesso, su richiesta nientemeno che del presidente Obama, ad una fugace apparizione in compagnia dei compagni di allora, Buzz Aldrin e Michael Collins. Un solo libro è stato dato alle stampe come biografia autorizzata dell’eroe dello spazio, pubblicato dopo anni di continue richieste dallo storico della NASA, James Hansen, che rivela quanto fosse straordinariamente normale la vita dell’uomo che ci ha avvicinati un po’ di più alla Luna.
È stato un uomo dalla celebrità immediata e duratura, che ha sempre considerato il gesto che lo ha reso noto come semplice adempimento del proprio lavoro e del proprio dovere di cittadino americano; mai interessato alla politica, non ha minimamente considerato lo sbarco come una netta vittoria - come in effetti era - sull’Unione Sovietica. È stato un uomo che ha rischiato diverse volte la vita, e che tuttavia aveva la schiettezza di dire: “Io odio il pericolo, specialmente se inutile, e il pericolo è il lato più irritante del nostro mestiere. Come si può trasformare in avventura un normalissimo fatto di tecnologia?”. Un fatto di tecnologia, questo è stato per Neil Armstrong lo sbarco sulla Luna, su quella Luna che conserverà probabilmente per diversi millenni l’impronta del suo scarpone sinistro. “Spero che presto qualcuno vada a cancellarla” aveva affermato tempo fa schivando ancora una volta quella celebrità che viveva con senso di dovere e rispetto per la Patria. E invece quell’impronta rimarrà lì, per ricordare non solo quel piccolo passo per l’uomo, così grande per l’umanità ma anche - e soprattutto - quel grande uomo di Neil Armstrong.

Come una breve parabola: i 33 giorni di Giovanni Paolo I


Un sorriso, il sorriso di Dio, Albino Luciani, e come un sorriso, dolce, semplice, fugace. Appena 33, come gli anni della vita terrena di Cristo, i giorni del suo pontificato, passato sulla tarda estate romana del 1978, veloce come una brezza. Mai, come nel suo caso, abbondano segni, particolari, che, post eventum, è difficile non interpretare come presagi dell’inspiegabile, misteriosa morte: ad esempio, quella fumata nera che ne annunciò l’elezione. Tuttavia, per quanto breve, il pontificato di papa Luciani, non fu meteora, in nemmeno 5 settimane, lasciò un marchio indelebile nei cuori dei fedeli e nella storia della Chiesa. 
Primo successore dell’apostolo Pietro ad usare un doppio nome, in forma di ossequio ai predecessori (Giovanni XXIII e Paolo VI), papa Luciani rinunciò all’incoronazione con la tiara e all’uso del pluralis maiestatis, deciso a non incorrere nel culto della personalità del papa e rimettere al centro di tutto, solo il Cristo. Humilitas, il motto del suo stemma e di uno stile pastorale che non abbandonò nemmeno sul soglio pontificio, rivolgendosi alle folle come un catechista di parrocchia, memore che il Vangelo è fatto per i semplici. A 34 anni di distanza (venne eletto il 26 agosto ‘78), quei 33 giorni appaiono come una parabola, una parabola celebrante la piccolezza evangelica incarnata da un papa, parroco dell’intera Cristianità. Dopo le prime udienze, in una delle quali per spiegare la virtù teologale della Fede, aveva recitato, con la sua tipica parlata veneta, una poesia di Trilussa, scritta in dialetto romanesco, venne, sarcasticamente, definito un Don Camillo in Vaticano. Rispose: posso essere una ciabatta rotta ma è Dio che opera in me. Un aneddoto che esprime bene il carattere di Albino Luciani: semplice, buono ma inflessibile. L’aveva già dimostrato da Patriarca di Venezia con la condanna dei cattolici a favore del divorzio e nella strenua battaglia contro la vendita da parte dello IOR della Banca Cattolica Veneta al banchiere Roberto Calvi. Da papa era intenzionato a fare i conti con i mercanti nel tempio ed operare un repulisti nella curia romana, pare, peraltro, scosso dalla pubblicazione sulla rivista scandalistica OP (Osservatore Politico ndr) di una lista di 121 alti prelati membri della Massoneria, il fumo di Satana entrato nelle sacre stanze, come aveva detto Paolo VI?
Del futuro organigramma vaticano Giovanni Paolo I, parlò con l’allora Cardinal Segretario di Stato Villot, la sera del 28 settembre: il giorno della sua morte. Una morte misteriosa, mancante di molti tasselli capaci di renderne la ricostruzione pienamente trasparente. Una morte, sulla quale inquietanti ombre gettò la decisione di non procedere all’autopsia del Santo Padre e ancor di più il clima di piombo di quel 1978 in cui si consumarono il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro e la cui pesantezza è testimoniata, proprio quel 28 settembre, dall’assassinio del giovane comunista Ivo Zini all’Alberone. 
E forse tanti sospetti sulla morte di Giovanni Paolo I nacquero proprio per la suggestione generata dal carattere asfissiante di quell’ultimo e più tremendo anno del decennio stragista. Tuttavia è innegabile che influì anche il carattere affatto trasparente dei comunicati ufficiali vaticani. Venne scritto che il papa era stato ritrovato morto dal proprio segretario personale anziché, come invece fu, dalla suora che era solita portargli il caffè alle 5 ogni mattino. Spiegazione: si ritenne poco conveniente rivelare che era stata una donna a trovare il papa morto nelle proprie stanze.  Altro mistero, l’ora e la causa del decesso. La versione ufficiale vorrebbe che Giovanni Paolo I sia morto per infarto al miocardio verso le 11 di sera. Tuttavia gli imbalsamatori del Pontefice, affermano che alle 9 del mattino, lo stato di rigor mortis non potesse far pensare ad un’ora del decesso precedente le 5, d’accordo con le memorie di suor Vincenza Taffarel, governante del papa, alla quale dopo la morte di Luciani venne imposto il voto del silenzio. Ella, scrisse, potè constatare che la fronte del Santo Padre era ancora tiepida quando lo ritrovò morto. A tutti coloro che ebbero modo di vedere il defunto ancora nel suo letto, inoltre, rimase impressa l’espressione sorridente del suo volto, il che fa pensare ad una morte indolore, sopraggiunta come un ladro nella notte, senza che nemmeno Luciani se ne accorgesse. Ciò esclude, come causa del decesso, un infarto che uccide tra atroci dolori e lascia segni evidenti di sofferenza, accredita, invece, l’ipotesi dell’embolia, come quella che già lo aveva colto, ad un occhio, in un viaggio in aereo in Brasile nel 1975. All’epoca dei fatti rivelò alla nipote che qualora l’embolo si fosse fermato da qualche altra parte, anziché nell’occhio, sarebbe morto senza nemmeno accorgersene, come probabilmente fu in quella notte di inizio autunno del 1978. Ogni ragionevole dubbio su tale ipotesi verrebbe tolto da Edoardo Luciani, il fratello del papa, il quale ricorda nella famiglia di Giovan Paolo I almeno altri 3 casi di persone morte dalla sera alla mattina senza aver mostrato il benché minimo sintomo o malessere.
Certo è che, per poter creare un caso, il materiale non mancò. Sembrò impossibile non collegare il carattere improvviso ed inaspettato della morte a quello innovativo delle riforme di Luciani. Sempre OP, che aveva messo in guardia sull’inflessibilità del papa riguardo gli uomini di Chiesa collusi con il potere, pochi giorni prima della sua morte, parlò, senza apparente ragione, del suo cattivo stato di salute, ricordando che il papa, giovane prete, era stato malato di tubercolosi e una volta tisico, sempre tisico. In effetti, nemmeno il papa fece mistero di essere stato ricoverato ben 8 volte in ospedale, tuttavia, benché sia immaginabile lo stress cui il Santo Padre venne sottoposto in quel mese, bisogna dire che ciò non costituisce di per sé un elemento in grado di dare una spiegazione diversa da quella dell’embolia, giacchè Luciani era, da sempre, abituato a svegliarsi alle 4 e andare a dormire alle 23, come racconta il fratello (suor Teresa disse che stava meglio a Roma che a Venezia). Inoltre, il buon senso suggerisce che il Sacro Collegio non avrebbe mai eletto un papa in cattivo stato di salute: Luciani era sì cagionevole ma perfettamente sano. Un giallo a parte, il quale ha contribuito a fomentare le voci su un possibile omicidio a causa della volontà di Giovanni Paolo I di fare un repulisti in curia, è costituito da ciò che il papa stesse leggendo nel momento della morte. Il segretario personale afferma che si trattava di appunti per un’omelia, i complottisti azzardano che tali appunti riguardassero il futuro organigramma, mentre la tesi ufficiale fu quella che papa Luciani stesse leggendo il testo medievale “L’imitazione di Cristo”, una versione, questa, certo più romantica, la quale, per quanto falsa, ben si concilia con il carattere del Pontefice.
Quello delle carte del papa, comunque, è un elemento marginale e le discordanze del comunicato ufficiale sono imputabili alla disorganizzazione dell’apparato burocratico vaticano, impreparato a gestire un evento così insolito e privo di molti membri, mandati in licenza dopo il conclave.
Inoltre, perché mai la curia avrebbe dovuto assassinare un papa appena eletto e di cui, in conclave, tutti conoscevano il temperamento? Per la sostituzione del Segretario di Stato Villot con Benetti? Ma il conclave aveva eletto il moderatamente conservatore Luciani, papa, ben conscio che Benetti sarebbe stato il Segretario di Stato, energico amministratore degli affari terreni della Chiesa (questi pare gli accordi tra i cardinali, tessuti dallo stesso Benetti).
Alla luce di quanto detto, bisogna ammettere che molte suggestioni sulla morte di Albino Luciani risultano condizionate da un elemento che trascende la pesantezza plumbea di quel 1978, macchiato di un altro tragico mistero, il rapimento Moro il cui carattere controverso certamente contribuì a far vedere complotti dappertutto, anche dove non ce n’erano: l’amore che il papa aveva suscitato in tutti i fedeli, rendendo loro ancor più inaccettabile la sua scomparsa.
Tuttavia, quella di Giovanni Paolo I, come ogni parabola, offre il proprio insegnamento nella conclusione: la morte di papa Luciani, giunta come un ladro nella notte – un ladro che lo trovò, come le savie vergini del Vangelo, vegliante – nella sua imprevedibilità, mostra in maniera eloquente la precarietà e, con essa, quell’inutilità propria dei servi di evangelica memoria, la quale invita ogni operaio della vigna del Signore alla consapevolezza della propria miseria, l'umiltà, la virtù a cui tutta la vita di Albino Luciani sorrise.


La stagione che sarà


E siamo tornati al Campionato. Lasciati sotto gli ombrelloni i giornali pieni di indiscrezioni di calciomercato, siamo ormai agli sgoccioli del countdown per la prima partita della nuova stagione. Dopo Liga, Premier e Lingue 1, ha inizio domani la Serie A, in contemporanea con una insolitamente ritardataria Bundesliga tedesca. Le polemiche del Calcioscommesse hanno fatto quasi dimenticare quelle ferocissime seguite alla Supercoppa di Pechino ed hanno surclassato le voci di un mercato mai come quest'anno specchio della crisi economica del nostro paese; ma - si sa - la cosa migliore è sempre lasciar parlare il campo.
Il primo fischio d'inizio sarà a Firenze per Fiorentina-Udinese domani sera alle 18.00, in notturna poi farà il suo esordio in Serie A Massimo Carrera sulla panchina dei Campioni d'Italia della Juventus, che sfideranno in casa il Parma.
Domenica pomeriggio poi, sempre alle 18.00, il Milan presenterà alla neopromossa Sampdoria il nuovo manto erboso di San Siro, metà naturale e metà sintetico; alle 20.45 scenderanno in campo tutte le altre. Il Napoli si presenterà al Barbera di Palermo senza Lavezzi, con diverse novità ma con l'incognita Cavani, la nuova Inter di Cassano, difficilmente in campo, proverà subito se il Pescara senza Zeman è capace di farsi valere anche nella massima serie. Il Boemo sarà di scena all'Olimpico con la sua Roma, subito impegnata con l'ostico Catania. I cugini biancocelesti, reduci dalle faticose imprese europee al pari dell'Inter, faranno la loro prima stagionale in quel di Bergamo, contro l'Atalanta. Chiudono la giornata Chievo-Bologna, Siena-Torino e Genoa-Cagliari.
Sarà la prima stagione con sole tre italiane in Champions League, potrebbe essere l'ultima senza i giudici d'area, sarà l'anno della svolta per l'Inter e l'ultima chiamata per la Roma; sarà un duro esame anche per Milan e Lazio, che si presentano ai nastri di partenza leggermente indietro rispetto alle altre; sarà un anno senza niente da perdere ma tutto da guadagnare per il Pescara neopromossa alla ricerca del bel calcio espresso l'anno passato; potrebbe essere l'anno della consacrazione della Juventus - e, se torna a breve in panchina - anche di Antonio Conte. Sarà la Serie A 2012-2013. Buon divertimento.

FOIBE: il dramma rimosso



Foibe. In questa oscura parola è racchiusa la tragedia dell’Italia nord-orientale la quale riassume in sé le più dolorose vicende del secolo scorso e l’ansia di un tremendo e temuto destino per le oltre 15 mila vittime. Paurosa parola, Foibe, che mette ancora brividi a coloro che videro risalire da una fossa i cadaveri dei fratelli, vittime di un massacro consumatosi in due atti, il primo successivo all’otto settembre e ancora nel maggio 45 quando i titini occuparono Trieste per 40 giorni, vittime i primissimi di vendette collettive, la cui esecuzione si trasformò con l’arrivo delle truppe rosse dall’entroterra, in metodo per gli oppositori del regime nazionalcomunista jugoslavo quali , oltre i civili, anche i gruppi di liberazione nazionale bianchi. Costoro, proprio perché rappresentanti della nuova Italia, erano molto pericolosi nella prospettiva delle rivendicazioni territoriali titine al tavolo della Pace che di fatto ratificherà l’ignominiosa occupazione di Friuli, Dalmazia ed Istria, confinando 350 mila di Italiani al dramma dell’esilio. Il loro naufragio, gravoso costo della necessità da parte delle forze alleate di assecondare Tito che li relega a vittime della storia, venne appesantito dai silenzi,dalla marginalizzazione, dalla mancanza di attenzione da parte della politica, nonché dall’odio comunista che li designò come volontari esuli dalla dittatura del proletariato. 
La nostra storia millenaria ci impone di fare del passato un fedele maestro della cui lezione, opportunamente appresa attraverso un'attenta documentazione, dobbiamo far tesoro nella quotidianità della nostra attività intellettuale e ancor più nel responsabile esercizio dell'italiana cittadinanza. In virtù della secolare fratellanza, già solo il dovere naturale derivante da codesto legame, grida al nostro cuore di ricordare con dolore coloro che morirono per la sola colpa di essere italiani, ma l'identificazione nella medesima istituzione statale, cui apparteniamo e la cui nascita passò per il travaglio di un'estenuante lotta per la libertà, impone il categorico compito di piangere i nostri fratelli vilmente uccisi come dei martiri. Non esiste per qualsivoglia Paese, possibilità di un avvenire degno dell'essere umano, se quel Paese non sia prima capace di fare i conti con la sua storia. Il che significa, luce sul bene, ma, ancor prima, sul male che quel Paese ha segnato. E tra il male che questo Paese ha sofferto, stanno in primo luogo, le migliaia di individui, che nelle foibe, per mano assassina hanno trovato morte crudele: per una ragione, anzitutto, per essere, sentirsi e voler restare cittadini di questo Paese. Un Paese che, nelle sue espressioni istituzionali, per oltre mezzo secolo, li ha rimossi, ancor prima che dai libri di storia, dalla propria coscienza. Questo silenzio ha assordato per decenni la memoria di oltre ventimila uomini, donne, anziani, bambini, lasciati morire nel buio di una foiba, seppelliti vivi tra i morti, gettati nelle tombe carsiche l'uno incatenato all'altro perchè si risparmiassero le pallottole. La memoria di maestri, preti, soldati, operai, studenti seviziati e uccisi dalle milizie comuniste jugoslave nelle scuole, in strada, in Chiesa, in casa propria, uccisi per odi personali o interessi economici, innocenti vittime degli irredentismi e della partigianeria. 
L'insipienza e la viltà degli obblighi di partito hanno segregato nelle foibe del silenzio migliaia di cadaveri disseminati senza pietà lungo il confine nordorientale d'Italia: la nostra cortina di ferro fu un muro di martiri giuliani, dalmati, istriani, fiumani, olocausto umano sull'altare di Yalta, della spartizione a tavolino dell'Europa, pagata sulla pelle dei nostri fratelli. Sulla pelle di giovani donne torturate con tenaglie roventi, rinchiuse in gabbie di ferro, stuprate ed esposte al ludibrio degli uomini di Tito. Gli ignobili silenzi degli storici di partito e l'omissione complice della scuola pubblica italiana che, anzichè ricordare la disperazione dei 350 mila esuli italiani di Fiume, dell'Istria, della Dalmazia, costretti ad abbandonare le loro case, le loro terre, i loro ricordi radicati nei secoli e la memoria dei loro Morti ed indignarsi dinnanzi all'assoluzione dei responsabili dello sterminio, ha fatto finta di dimenticare anche le migliaia di persone scomparse e mai ritrovate. La congiura del silenzio, orchestrata dalle Botteghe Oscure, con il bene placito dell'Arco Costituzionale, è un ulteriore sterminio, un ulteriore sopruso ai martiri italiani, che accettarono di morire pur di non rinnegare il proprio sentimento di appartenenza al nostro Stato e agli esuli che tutto abbandonarono, tutto pur di sfuggire alla furia omicida degli assassini comunisti che perdurò fino all'inizio degli anni '50. Questa cospirazione mette in luce la vergognosa verità che in questo Paese gli odi di partito hanno non solo determinato decine di migliaia di vittime nella guerra civile seguita all’8 settembre e proseguita fino a dopoguerra inoltrato, ma addirittura fatto sì che nei già nominati luoghi del ricordo le brigate partigiane si unissero al 9° korpus titino nel sopprimere chiunque si opponesse all'occupazione jugoslava per poi cancellarne la memoria. Il protocollo rosso di questi carnefici, fatto di caccia alle streghe, pulizia etnica, massacri di civili, di deportazioni, ovviamente non punite internazionalmente, ha subordinato il sogno dell'insurrezione ed instaurazione della dittatura del proletariato alla vita di oltre ventimila italiani, affogati nelle trame contorte degli opposti irridentismi e vilmente sacrificati per la colpa di non voler assecondare l'espansionismo titino, appoggiato dalle stanze dei bottoni del Partito Comunista Italiano come attesta la lettera n.161,fascicolo 25049, inviata da Togliatti al Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi il giorno dopo la strage della Brigata Osoppo a Porzus (incensata anche dal futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini); lettera nella quale egli minaccia di scatenare una rivoluzione qualora il CLNAI si fosse opposta all'occupazione jugoslava. Sei mesi prima il rappresentante del Pci presso il IX korpus titino, Vincenzo Bianchi, aveva indicato di liquidare le formazioni partigiane che si fossero opposte all'avanzata degli slavi in Friuli, ordini poi a più riprese sottolineate dai vertici del PCI. Le stragi degli infoibati, consumatesi in due fasi, la prima durante la guerra Civile (come testimoniano i vari macabri ritrovamenti fatti a Gorizia, Fiume e in Istria e Dalmazia) e la seconda, avente come epicentro Trieste, messa in atto durante i quaranta giorni di occupazione del capoluogo giuliano da parte dei titini (1/05-12/06), la quale trova il proprio emblema nella foiba di Bassovizza che, a differenza di Auschwitz, nota meta turistica, è stata chiusa per evitare ulteriori indagini, ma che al pari della località polacca esprime tutto il dramma della guerra. 
Ecco, la considerazione del genocidio degli Italiani come un dramma di serie B rende giustizia alla memoria di questi martiri? Rende forse giustizia alla memoria di chi rinunciò alla propria vita per aver rivendicato l'appartenenza della propria storia all'Italia? Una storia comune che deve farci sentire tutti dalmati, giuliani, istriani e fiumani, e che l'estremo sacrificio degli infoibati è al tempo stesso un'onta, per l'atto in sè, i silenzi che lo avvolsero, l'indifferenza prima e il disinteresse poi degli italiani (solo il 38% conosce i fatti) e un mirabile esempio di nobile amor patrio, rispetto al quale non possiamo che, chinando il capo, impegnarci a vivere la nostra italianità in modo più intenso, obiettivo, avveduto e consapevole che gli odi tra fazioni contrapposte (i quali dilaniano il nostro paese dalla notte dei tempi) nel corso dei secoli, anche quando l'Unità d'Italia raccolse il nostro popolo sotto un'unica bandiera, hanno avuto come estrema conseguenza il sacrificio di migliaia e migliaia di innocenti. Il ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani, giuliani e dalmati ci invita a guardare dentro di noi per ponderare oculatamente tali riflessioni e solerzie che la forza della verità storica ci pone innanzi insieme alla sconvolgente realtà che un popolo che dimentica i propri martiri, non può considerarsi tale.

Il rogo dei Templari


Non nobis, Domine, non nobis sed nomini Tuo da gloriam: questo il motto del più famoso ordine monastico della storia, quello dei “Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Gerusalemme” , meglio conosciuti come semplicemente “Templari”, il cui fascino continua a vivere oltre che nelle pagine dei libri di storia riguardanti le Crociate, in trasmissioni televisive, pellicole cinematografiche e videogiochi, dedicati ai misteri dell’ordine. La parabola templare, a dire il vero, fu brevissima, poco più di due secoli: fondato nel contesto della prima crociata, quella di Goffredo di Buglione (1099), cantata dal Tasso nella “Gerusalemme Liberata”, riconosciuto ufficialmente nel 1129, l’ordine venne sciolto dal concilio di Vienne (1311-1312), dopo un lunghissimo processo-farsa contro di esso, lanciato il 13 ottobre 1307 dal famigerato Filippo IV di Francia. Il rogo dell’ultimo Gran Maestro templare, Jaques de Molay, a Parigi il 18 marzo 1314, fotografa mirabilmente la fine dei fasti del papato medievale, mostrandone la debolezza dinanzi i capricci, nemmeno di un Imperatore, ma di un Re regionale. Da quel momento la Chiesa, che aveva fieramente affermato la supremazia del Vicario di Cristo su ogni principe terreno con i gloriosi pontificati di Gregorio VII (il Santo Ildembrando di Soana) e Innocenzo III (Lotario dei Conti di Segni), dovette abbandonare ogni velleità universalistica e si ritrovò limitata a semplice dipartimento francese per opera dell’inetto Clemente V. Con la sua elezione, il papato conobbe la propria deportazione in Babilonia: i 70 anni di cattività avignonese, inaugurati dal blasfemo sodalizio tra il papa, il francese Bertrand de Got, e Filippo il Bello, colui che nell’autunno 1303 non si era fatto scrupolo di maltrattare papa Bonifacio VIII, in occasione dell’episodio che la Storia ricorderà come lo “schiaffo di Anagni”.
E proprio contro Bonifacio la strana coppia aveva condotto un primo processo postumo, caratterizzato da menzogneri capi d’imputazione, simili a quelli mossi poi contro l’Ordine templare. Quest’ultimo venne accusato di sodomia, pratiche omosessuali, riti diabolici nonché rinnegamento di Gesù, sputo sulla Croce durante l’iniziazione e adorazione dell’idolo pagano Bafometto. Entrambe le inique azioni giudiziarie avevano un preciso movente da parte del re di Francia: con il Paese in bancarotta e coperto di debiti fino al collo, non vide miglior modo di risanare le casse che confiscando i beni ecclesiastici e in particolare quelli del ricchissimo Ordine dei Templari. Esso in Francia, dove era nato, possedeva terre, abbazie, castelli, fortezze, nonché un immenso patrimonio finanziario costituito dalle decime offerte per le Crociate, donazioni di vari nobili ed altre pie elargizioni. Non bisogna, a tal proposito, dimenticare che i Templari svolgevano anche l’attività di banchieri quali prestiti, trasferimenti di somme in Terra Santa (al cui fine idearono l’assegno) nonché la riscossione delle decime papali. Una volta che  vennero definitivamente scalzati, nel 1291, dalla Terra Santa, alla cui difesa in un secolo e mezzo avevano sacrificato 12 mila uomini e 7 Gran Maestri, i Templari dovettero tornare in Europa nella generale antipatia di molti potenti, invidiosi della loro immensa ricchezza.
L’operazione di soppressione dell’Ordine, voluta da Filippo IV, ebbe inizio il 14 settembre del 1307 quando legati del re vennero inviati in tutte le province per radunare un esercito di 50 mila uomini, necessario all’esecuzione di un ordine reso noto solo il 13 del mese successivo. In tale data scattarono ovunque gli arresti di membri e dignitari templari. Nessuno di essi oppose resistenza, benché fossero abili soldati dato il carattere cavalleresco dell’Ordine, giacchè confidavano nella protezione della Chiesa. Tale tutela però non ebbe mai luogo, anzi la soppressione dell’Ordine venne decretata proprio nel Concilio di Vienne per “legittima suspicione”, nonostante la Pergamena di Chinon, rinvenuta nell’Archivio Vaticano, testimoni la volontà del papa di perdonare i templari, con un’assoluzione concessa nel 1314 ai dignitari dell’Ordine. Fatto sta che pochissimi dei 15 mila membri francesi riuscirono a salvarsi, fuggendo in disparati stati della Cristianità; gli altri, sotto tortura, furono costretti a confessare e finirono sul rogo. 
Tra essi figura anche il nome illustre dell’ultimo dei 23 Gran Maestri della breve storia dell’Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo: Jaques de Molay. Costui, dopo aver inizialmente confessato le false accuse (in caso di confessione la pena era l’ergastolo anziché la morte), decise di affrontare un valoroso martirio al pari di molti suoi predecessori.
Spogliatosi di ogni indumento eccetto quella camicia bianca con cui i primi Cavalieri di Gesù si erano presentati da Baldovino III per palesargli la propria volontà di difendere la Terra Santa, l’ultimo Gran Maestro chiese ai carnefici di essere assicurato al palo del rogo, rivolto verso la Vergine Maria, Madre di Dio (in termini geografici verso la Cattedrale di Notre Dame de Paris). Dopo l’ultima preghiera, il Gran Maestro convocò davanti al Tribunale di Dio il Papa entro 40 giorni e il Re nel giro di un anno: Clemente V morì dopo 37 giorni, otto mesi dopo si spense Filippo il Bello.
Vocazione al martirio, Spiritualità, Mistero: il rogo dell’ultimo Templare rappresenta perfettamente i termini in cui si consumò l’esperienza di un Ordine di monaci guerrieri, nato per difendere la Terra Santa e scomparso, ironia della Storia, proprio in concomitanza con la perdita definitiva di essa, come se ormai il suo compito si fosse esaurito e non potesse giovare in altro modo alla Cristianità. Giovò, certamente, invece, a Filippo il Bello, allettato dalle sue infinite ricchezze. Tuttavia, se il famigerato re francese strappò all’Ordine il tesoro finanziario, non altrettanto riuscì a fare con il patrimonio più prezioso dei Templari, l’affascinante aura di mistero che ne circonda una memoria che di certo non finì bruciata sul rogo di Parigi.



Vandea: la vera faccia della Rivoluzione

La Vandea è un piccolo e tranquillo dipartimento contadino dell'Ovest francese: i libri di geografia di norma non ne parlano - al massimo la citano dell'elenco dei dipartimenti della Loira -, i libri di storia ne trattano solamente per un episodio, le rivolte che, a partire dal 1793, misero a repentaglio la Francia Rivoluzionaria.

Lo storico francese Pierre Chaunu ha affermato che l'unica cosa buona della Rivoluzione Francese è stato ciò che non è riuscita a cambiare: è stata difatti la storiografia successiva a presentare l'avvento del mostro biblico del Leviatano, sotto le sembianze dello Stato Etico, come il prevalere della luce della ragione sull'oscurità dell'ignoranza.

I Rivoluzionari non si accontentano di "ciò che é di Cesare", ma avanzarono pretese su "ciò che é di Dio": nel 1790 si data la Costituzione Civile del Clero, con la quale lo Stato chiedeva ai sacerdoti di prestare giuramento sulla Costituzione; chi si rifiutò - ribattezzato "refrattario" - fu costretto ad adempiere clandestinamente ai propri doveri sacerdotali, compresa la celebrazione della Messa.


L'unica coraggiosa risposta all'oppressione della coatta modernizzazione illuminista fu, oltre a quella dei preti refrattari, quella delle genti di Vandea, che non si mosse in difesa di un Ancièn Regime che oramai apparteneva al passato, ma nella speranza di un futuro libero da oppressioni ideologiche. Il 13 marzo 1793 un gruppo di contadini e tessitori prese a sassate la Guardia Nazionale uccidendone il comandante: la goccia che aveva fatto traboccare il vaso della sopportazione vandeana era stata la leva militare obbligatoria, con la quale si chiedeva loro di combattere e rischiare la vita per ideali che non solo non condividevano, ma che erano contrari ai propri valori.


La settimana successiva, il 13 marzo, un contadino di nome Jacques Cathelineau riunì nella propria fattoria i 27 giovani del paese che avevano rifiutato l'arruolamento e giurarono di essere pronti alla morte piuttosto che servire la Repubblica: nel giro di pochi giorni questo esercito contadino poteva contare 1 200 uomini.

I Vandenani dunque, intuendo quanto fosse falsa la libertà dei giacobini, divennero rei di mettere in dubbio l'utilità di Libertà-Uguaglianza-Fraternità giacobine, meritandosi la soluzione finale ordinata dal generale Carnot: "uccidere le donne, il solco generatore, e i bambini, i realisti del domani". Il condottiero Carrier si impegnò a portare a termine questa valorosa impresa, deciso a "fare un cimitero di tutta la Francia, piuttosto che non rigenerarsi secondo il nostro modo di volere".
Si tratta del primo genocidio della storia, con oltre 600 000 vittime in soli tre anni: la Parigi libertina e rivoluzionaria non poteva tollerare quella che il deputato giacobino Barère aveva definito l'"inspiegabile Vandea", una provincia fedele e cattolica.

"La nostra patria sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re... Ma la loro patria che cosa è per loro? Voi lo capite? Loro l'hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i piedi".
Monsieur de Carrette, Beato Martite di Vandea

Non sarà primavera quest'autunno

Oramai oltre un anno e mezzo fa aveva inzio la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini”: il 18 dicembre 2010 l’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi si suicidava dandosi fuoco come estremo gesto di protesta nei confronti della polizia del suo Paese, dando inizio ai moti che nei successivi mesi avrebbero preso il nome di “Primavera Araba”. Nei 20 mesi che ci separano da quei giorni hanno perso la propria poltrona presidenziale, se non la vita, quattro capi di stato: in Tunisia Ben Ali, il defunto Muammar Gheddafi in Libia, Mubarak in Egitto e Ali Abdullah Sale in Yemen. Comuni denominatori dei governi di questi quattro uomini di potere sono sicuramente molti: corruzione e cattivo governo, povertà, fame e malcontento nella popolazione, assenza di libertà individuali, violazione di diritti umani, disoccupazione esorbitante, aumento irrefrenabile del prezzo dei generi alimentari, desiderio di rinnovamento del regime politico; volendo rimanere sugli inoppugnabili dati numerici possiamo ritenere quest’ultimo il piú importante, considerata la lunga durata dei loro governi: il piú giovane, quello tunisino di Ben Ali, datava il suo inizio nel lontano 1987, Gheddafi addirittura nel 1969. 
La continuità politica che ha caratterizzato gli ultimi decenni di questi paesi e che ha esasperato la popolazione sino ai sanguinosi mesi di rivolta che purtroppo ben conosciamo sono una realtà tristemente comune e che, se accompagnata da altri pericolosi campanelli d’ allarme, possono farci temere nuove rimostranze che rischiano di portare molti paesi nelle misere condizioni attuali di Libia, Tunizia, Egitto e Yemen. Basti volgere la nostra attenzione ai paesi del ex-blocco sovietico, quelli del centro-Asia, che non hanno subito, a differenza di quelli “europei”, quel processo di “globalizzazione” - o “occidentalizzazione” che dir si voglia - che hanno consentito a molti di questi paesi di entrare nell'orbita dell'Unione Europea.  
Saparmurat Niyazov
Uzbekistan e Kazakistan vedono le proprie poltrone presidenziali occupate rispettivamente dal 1990 e dal 1991; il presidente del Turkmenistan é stato dal 1990 al 2006 Saparmurat Niyazov, alla cui morte la continuità é stata bene o male garantita da Berdymukhamedov.
Il timore di divenire da un momento all’altro i protagonisti di una nuova “primavera” asiatica ha provocato opposte reazioni: da una parte, consci del ruolo primario ricoperto dai social network e dalle telecomunicazioni, sono stati notevolmente incrementati i controlli da parte del governo di accesso a Facebook, Twitter e Internet in generale, prendendo lezioni dalla maestra Cina. E’ tuttavia innegabile che vi é stato allo stesso tempo un atteggiamento di apertura, che lascia ben sperare per la futura stabilità delle repubbliche centro-asiatiche: ne é un esempio la condotta dell’Uzbekistan, che ha effettuato diverse riforme politiche e amministrative e si é distinto per l’evidente cambio di atteggiamento nei confronti dei prigionieri politici, il cui numero é sostanzialmente diminuito.
La posizione geografica dei Paesi in questione é inoltre estremamente importante per l’equilibrio dell’Asia e del mondo intero: una serie di rivolte della veemenza di quelle nordafricane comporterebbe una pericolosa destabilizzazione della zona, rischio che non  possono correre le due vicine superpotenze Cina e Russia. Appare dunque scongiurato – almeno per ora – che il prossimo autunno sia caldo quanto la primavera dell’anno scorso.

Retroscena Churchill - Mussolini: un accordo segreto portò in guerra l'Italia


“Combattenti di terra, di mare, e dell'aria. Ascoltate! [...] La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia [...] La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: VINCERE! E VINCEREMO, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo” Con queste parole Benito Mussolini, annunciò alla nazione l’entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’alleato tedesco, il 10 giugno 1940. 
Una decisione le cui motivazioni materiali vanno cercate più nella necessità oggettiva che nel Patto d’Acciaio, giacchè il sodalizio ideologico lasciava il tempo che trovava dinanzi il pangermanismo di Hitler, o nel famoso “Mi serve un migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace”, riportata ai posteri dal famigerato Maresciallo Badoglio. L’entrata in guerra, di cui spesso, dalle pagine dei libri di Storia in primis, si accusa Mussolini, era, a ben vedere, inevitabile dato che la neutralità in caso di vittoria tedesca (come nel giugno ’40 era immaginabile) sarebbe costata all’Italia la marginalizzazione dal suo ruolo di piccola potenza, messo in evidenza a Stresa, Locarno e Monaco, nonché la rinuncia ad ogni vantaggio territoriale, parimenti, una vittoria inglese con la conseguente disfatta del nazismo, avrebbe certamente messo in discussione   l’esistenza stessa del fascismo, senza che questo avesse sparato almeno un colpo per la causa del totalitarismo in Europa. Se le particolari contingenze storiche mostrano poca incertezza sull’opportunità dell’entrata in guerra dell’Italia, escludono ogni dubbio su chi dovesse essere il suo alleato: la Germania nazista, cui era vincolata dal sopracitato Patto d’Acciaio, firmato da Von Ribbentrop e Galeazzo Ciano pochi mesi prima dell’inizio del conflitto. Tuttavia, l’avvio delle campagne belliche dell’Impero Italiano, fu tutt’altro che quello di un Paese, deciso a dare delle decise operazioni dimostrative sulla scena internazionale, per poter mostrare il proprio peso nella vittoria, al tavolo della pace. Ai soldati posti al confine con il nemico francese venne ordinato: - Se si incontrano forze francesi non essere i primi ad attaccare; non sorvolare il territorio francese; nessun reparto dovrà varcare il confine; restare a 10 km. dal confine -. 
In chiave anti-britannica, l’Italia che pure disponeva di una discreta flotta, tanto che Mussolini aveva meritato, nella primavera del ’40, l’epiteto di “arbitro del Mediterraneo” proprio dall’inglese Times, non si mosse affatto. Liberatosi il fronte tunisino dopo la resa della Francia (14 giugno 1940), le truppe di Balbo e Graziani non tentarono nemmeno un attacco in Africa Orientale, dove il generale Wawel difendeva un fronte lunghissimo (Kenia, Somalia, Sudan, Egitto ecc..) con forze ridotte all’osso. L’immobilismo italiano anche nella guerra marina, farà scrivere all'ammiraglio Andrew Cunningham, comandante in capo della flotta britannica nel Mediterraneo: «se la forza italiana avesse agito con maggior decisione ed avesse attaccato le navi inglesi certamente si sarebbe assicurata il dominio del Mediterraneo (…) Sarebbe bastato che alcuni mercantili carichi di cemento o di esplosivo si fossero affondati nel canale di Suez o davanti al porto di Alessandria, per paralizzare le operazioni navali britanniche (…) Ma poi se dopo la disfatta della Francia gli italiani avessero attaccato con le corazzate e con gli incrociatori noi avremmo dovuto ritirarci». Un episodio marginale, ma significativo,  toglie ogni dubbio sull’intenzionalità della mollezza bellica italiana: al generale di squadra aerea Santoro venne inflitto, dallo Stato Maggiore, un severo monito per aver ordinato, all'inizio delle ostilità, che una grossa formazione di bombardieri attaccasse Malta. E proprio contro Malta, che gli inglesi in quel momento temevano di perdere, non si fece assolutamente nulla. Questa stessa tregua, insperata per l'isola-fortezza britannica si rivelò, in seguito, fondamentale per lo sbarco alleato in Sicilia. Le ragioni di questa remissibilità, vanno ricercate nei mesi immediatamente precedenti l’entrata in guerra. Mussolini, che anche nel ’38 si era messo in mostra a Monaco come mediatore tra Hitler e la democrazia occidentale, non si sottrasse a quel doppiogiochismo fatto di scambi diplomatici, rigorosamente segreti, con il nemico designato, che aveva accompagnato l’Italia anche prima della I Guerra Mondiale. Il duce, in tal senso, sfruttò la propria amicizia fatta di una fitta corrispondenza con Winston Spencer Churchill, divenuto nel maggio ’40 Primo Ministro Britannico. Nelle lettere tra i due di quel periodo, consiste il famoso carteggio che Mussolini considerò tanto importante da portarlo con sé, fino alla cattura avvenuta a Dongo nell’aprile ’45. Documenti che riteneva capaci di rovesciare le carte sul tavolino della Storia, capaci cioè di dimostrare le reali ragioni che spinsero l’Italia alla Guerra e così garantirgli l’assoluzione dalla colpa di aver condotto il Paese nel baratro della disfatta. Il carteggio è rimasto top-secret, giacchè pochi mesi dopo la guerra, l’originale venne restituita al buon Churchill che fu molto sollecito nel cancellarne ogni traccia mentre un’altra copia venne consegnata ad Alcide De Gasperi, Primo Ministro all’epoca dei fatti.
Ciononostante dalle testimonianze dello storico Renzo De Felice e di Luigi Carissimi-Priori, si evince che le 62 lettere autografe di Mussolini e Churchill contenessero un accordo anglo-italiano: lo statista inglese chiedeva l’entrata in guerra dell’Italia per contenere le richieste tedesche al tavolo della pace. Anziché le classiche concessioni territoriali in cambio della neutralità – annessioni che la Germania non avrebbe certo accordato all’Italia che non aveva nemmeno sparato un colpo – Churchill propose a Mussolini una vera e propria farsa: Italia e Regno Unito avrebbero combattuto con un atteggiamento puramente dimostrativo, senza alcuna azione veramente seria (come telegrafò il duce a Vittorio Emanuele III e come confermarono le manovre italiane nell’estate ’40). Mussolini avrebbe potuto sedere da vincitore al tavolo della pace, Churchill avrebbe potuto contare sul ruolo di mediatore del duce. In realtà questo accordo aveva l’unico scopo di garantire a Churchill, il quale se avesse voluto veramente una pace vantaggiosa avrebbe potuto firmarla già all’indomani di Dunkerque, senza ricorrere all’amico Benito, un allargamento del conflitto (tutelandosi al contempo dall’incorrere nel rischio di essere impegnato seriamente), per poter indurre gli Stati Uniti all’entrata in guerra al proprio fianco: un delitto perfetto che più da quella del leader conservatore britannico sembra esser nata dalle menti di un’Agatha Christie o del maestro del brivido, Alfred Hitchcock. La distruzione del carteggio, con la complicità del PCI, che, entrato in possesso dei documenti a Dongo, mal vedeva una possibile riabilitazione storica di Mussolini, liberò Churchill da ogni prova di un inganno che certo ne avrebbe compromesso l’immagine e la credibilità a livello internazionale. D’altro l’inevitabilità dell’intervento e la scarsezza bellica italiana, non potevano che allettare un opportunista incallito come Mussolini al quale, per scoprire la reale natura della proposta, sarebbe servito di essere domiciliato anziché a Palazzo Venezia, al 221 di Baker Street.