Un monaco contro Napoleone

“Noi non troviamo appoggio ed asilo se non nel governo pontificio, e la nostra riconoscenza è grande come il beneficio che riceviamo. Prego Vostra Eminenza di deporne l’omaggio ai piedi del santo Pontefice Pio VII. Parlo in nome di tutta la mia famiglia, e specialmente di colui che muore lentamente su uno scoglio deserto. Sua Santità e Vostra Eminenza sono i soli in Europa che si adoperano per addolcire i suoi mali e che vorrebbero abbreviarne la durata. Ve ne ringrazio tutti e due col mio cuore di madre”. Colei che scrive è Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone Bonaparte, la quale in una lettera all’allora Segretario di Stato Card. Consalvi (da cui è tratta la presente citazione), ringrazia il pontefice che aveva compiuto il gesto di commovente bontà di accogliere la famiglia del Bonaparte nei loro stati, ed offrir loro alloggio, protezione e consolazione. Napoleone, stesso, morirà riconciliato con la Chiesa, assistito da un sacerdote corso inviatogli personalmente dal Papa.

È l’epilogo della più grande persecuzione alla Chiesa degli ultimi 200 anni ed avente come protagonisti l’imperatore francese e un monaco benedettino di Cesena - Barnaba Chiaramonti - , elevato al soglio pontificio il 14 marzo 1800 in quel di Venezia. Erano anni di violenza e di aggressione alla Chiesa, con le tragiche soppressioni a tappeto delle congregazioni e degli ordini religiosi e le confische dei beni ecclesiastici.
Gli esordi del pontificato furono segnati comunque da un clamoroso successo diplomatico: la conclusione del concordato con la Repubblica francese, il 15 luglio 1801, seguita dal concordato del 16 settembre 1803 con la Repubblica italiana. Primo paese cattolico d'Europa per popolazione e potenza, la Francia dal 1789 aveva conosciuto notevoli sconvolgimenti religiosi (proclamazione della libertà di coscienza e di culto, nazionalizzazione dei beni della Chiesa gallicana, soppressione degli Ordini religiosi, formazione di una Chiesa "costituzionale" indipendente da Roma e fondata sul principio dell'elezione dei vescovi e dei preti) seguiti da un periodo violento di decristianizzazione, associato dal 1795 ad una forma intollerante e precaria di separazione tra Stato e Chiesa. Papa di compromesso, Pio VII pose fra i suoi obiettivi prioritari il ristabilimento del cattolicesimo in Francia. Il suo spirito di conciliazione si accordava con i disegni stabilizzatori del primo console Napoleone, preoccupato di ricomporre il conflitto fra Chiesa e Stato, perché potesse giovare alla pace civile e al ritorno all'ordine, e di restaurare a proprio profitto, in un nuovo equilibrio, il precedente concordato di Bologna (1516). Siglato il 15 luglio 1801, il concordato si compone di un preambolo e diciassette articoli, aspramente negoziati per otto mesi. Esso rappresenta al contempo una notevole concessione della Santa Sede ai principi religiosi scaturiti dalla Rivoluzione, il ristabilimento della "concordia" fra Chiesa e Stato e delle principali garanzie per l'esercizio del culto, un vero "colpo di Stato" messo a segno a discapito dell'antica Chiesa gallicana e, a più lungo termine, un formidabile rafforzamento dell'autorità del papato sulle Chiese particolari. Sebbene la "religione cattolica, apostolica e romana" non fosse più la religione "del Re e del regno" ma nient’altro che "la religione della grande maggioranza [maxima pars] dei cittadini francesi": formula prettamente statistica, e non giuridica, che metteva in rapporto la situazione della religione cattolica al numero dei fedeli divenuti ormai "cittadini", tuttavia si salvaguardava in certa misura l'appartenenza individuale del capo del governo francese alla religione cattolica. Tramite questo dispositivo la libertà di coscienza e di culto delle minoranze protestante ed ebrea era garantita da qualsiasi impedimento di natura giuridica, mentre lo Stato, in quanto istituzione secolarizzata, affermava implicitamente la propria neutralità religiosa. Per converso la Chiesa cattolica recuperava la sua gerarchia, le sue chiese e le sue rendite. I vescovi sarebbero stati nominati dal governo e preconizzati dalla Santa Sede che conferiva loro l'istituzione canonica; lo Stato si assumeva l'onere del trattamento del clero, ormai stipendiato, e gli restituiva gli edifici religiosi non alienati; il clero era tenuto a prestare giuramento di fedeltà al governo. La Chiesa gallicana era annientata: il papa esigeva dal vecchio episcopato dimissioni collettive prima di procedere alla riorganizzazione delle circoscrizioni ecclesiastiche e alle nuove nomine; riconosceva ugualmente ai loro acquirenti la proprietà dei beni ecclesiastici alienati. 
Pio VII invitato a lasciare Roma il 10/VI/1809
La determinazione dimostrata da Pio VII e da Consalvi nell'applicazione pratica dei termini dell'accordo siglato il 15 luglio 1801 consolidava un'intesa fra Roma e la Francia che nel 1804 culminava nella consacrazione di Napoleone I da parte del papa nella chiesa di Notre-Dame a Parigi. Partito da Roma il 2 novembre accompagnato da molti cardinali (Antonelli, di Pietro, Braschi, Caselli, Bayane e Fesch) e da un seguito illustre (fra cui l'erudito abate Cancellieri), Pio VII fu acclamato lungo tutto il percorso del suo viaggio attraverso l'Italia e la Francia. Il quadro di J.-L. David conserva la memoria dell'incoronazione avvenuta il 2 dicembre 1804, con il papa che assiste silenzioso all'autoconsacrazione di Napoleone e poi di Giuseppina (alla quale il primo si univa in matrimonio, per l'occasione, di fronte alla Chiesa) ad opera dell'imperiale sposo. Il pontefice prolungò il soggiorno a Parigi fino al 4 aprile: visitò chiese, ospedali e musei (Visconti gli fece ammirare nel Louvre le collezioni sottratte a Roma con il trattato di Tolentino); ricevette un'entusiastica accoglienza nel Faubourg St-Antoine, quartiere popolare che era stato culla della Rivoluzione. Il lungo periplo di Pio VII, che appare una replica più felice del viaggio di Pio VI a Vienna, segnò, all'indomani della Rivoluzione, l'affermazione di un "carisma pontificale" che seppur privo di conseguenze politiche immediate o di effetti religiosi durevoli sulle popolazioni, trasformò tuttavia in profondità, nell'età democratica delle moltitudini, le relazioni del pontefice romano con le masse cattoliche. Il viaggio di ritorno a Roma si concluse con un'entrata trionfale in città, il 16 maggio 1805. La rottura tra la Francia e la Santa Sede si consumò proprio al ritorno di Pio VII nella sua sede. L'ambizione di esercitare un dominio politico, militare ed economico sull'Europa indusse Napoleone ad organizzare un "blocco continentale" contro l'Inghilterra, destinato a soffocare l'economia britannica fondata sulle esportazioni. Alla luce di questo progetto la neutralità rivendicata dal governo pontificio era impensabile. Il 15 ottobre 1805 Ancona, il porto principale degli Stati pontifici, fu occupata dalle truppe francesi: Pio VII denunciava sdegnato questo "crudele affronto". Il 15 febbraio 1806 l'armata del generale Gouvion-Saint-Cyr fece il suo ingresso a Napoli, dopo aver attraversato senza autorizzazione gli Stati pontifici: i Borbone si rifugiarono in Sicilia e il Regno di Napoli fu sottoposto al governo di Giuseppe Bonaparte, poi del maresciallo Murat, cognato dell'imperatore. Napoleone pretese inoltre che fossero espulsi da Roma tutti i rappresentanti delle potenze che gli erano nemiche: "Vostra Santità è il sovrano di Roma, ma io ne sono l'imperatore. Tutti i miei nemici devono essere i vostri". Il 21 marzo il pontefice riaffermò solennemente la propria neutralità: "Noi, Vicario di questo Verbo che non è il Dio delle dispute, ma della concordia non possiamo opporci ai doveri che ci impongono di preservare la pace con tutti, senza distinzione di cattolici ed eretici". L'imperatore mise in atto, nello stesso tempo, una politica di deliberato asservimento della Chiesa ai suoi interessi temporali e spirituali. Il 19 febbraio istituì in tutti i territori dell'Impero un "san Napoleone", oscuro martire la cui festa venne fissata il 15 agosto, giorno in cui la Chiesa celebrava l'Assunzione. Il 30 maggio 1806, con l'approvazione del debole cardinale Caprara, fu promulgato un Catechismo imperiale che esigeva dai fedeli "l'amore, il rispetto, l'obbedienza, la fedeltà, il servizio militare [e] i tributi imposti per la conservazione e la difesa dell'Impero". A questa Chiesa "napoleonizzata", in cui docili vescovi erano consacrati al ruolo di "prefetti viola", l'autorità del magistero pontificale era assoggettata agli interessi della dittatura imperiale, e una "teologia della guerra" era posta al servizio della politica francese di aggressione militare e di espansione territoriale in Europa, il papa, circondato da un Sacro Collegio risoluto in cui dominavano forti personalità come Consalvi, Pacca e di Pietro, si oppose con un categorico Non possumus. Il 17 maggio 1809 Napoleone Bonaparte emanò da Vienna il decreto con il quale spogliava il Papa dello Stato Pontificio; decreto che venne notificato a Roma proprio il 10 giugno e che presentava sette articoli, in cui si stabiliva che gli Stati della Chiesa venivano uniti all’Impero, Roma era dichiarata città imperiale e libera, ed era altresì richiesto il giuramento, anche da parte dei Pontefici, delle quattro proposizioni della Chiesa gallicana. Al momento del decreto imperiale, notificato in Roma, Pio VII, rivestito unicamente della forza di Cristo, lo dichiarò nullo, deciso a respingere ogni rendita o pensione che l’imperatore voleva assegnare alla sua persona e ai membri del Sacro Collegio, dichiarando che sceglieva una vita di miseria piuttosto che accettare il vitto da un usurpatore. Il 10 giugno il vessillo pontificio fu ammainato al Quirinale. Nello stesso giorno Pio VII promulgò e fece affiggere sulle porte delle basiliche più importanti di Roma la bolla Quam memorandum, redatta dai cardinali Pacca e di Pietro: "Per l'autorità di Dio onnipotente, dei santi apostoli Pietro e Paolo, e nostra dichiariamo che tutti coloro che, dopo l'invasione di Roma e del territorio ecclesiastico, dopo la violazione sacrilega del patrimonio di S. Pietro da parte delle truppe francesi, hanno commesso a Roma e nelle Chiese contro le immunità ecclesiastiche, contro i diritti anche temporali della Chiesa e della Santa Sede, gli attentati o alcuni degli attentati che hanno suscitato le nostre giuste rimostranze […] tutti i loro artefici, fautori, consiglieri o aderenti; tutti coloro, infine, che hanno agevolato l'esecuzione di queste violenze o le hanno eseguite essi stessi, sono incorsi nella scomunica maggiore". Nove giorni dopo Napoleone scriveva al cognato, Giocchino Murat, re di Napoli: «Se il Papa, contro lo spirito del suo grado e del Vangelo, predica la rivolta e vuol servirsi dell’immunità della sua casa per far stampare manifesti, si deve arrestarlo… Filippo il Bello fece arrestare Bonifazio e Carlo V tenne a lungo in prigione Clemente VII; e questi avevano fatto anche meno».
Arresto Pio VII
Mentre si macchinava l’arresto del Pontefice, da Firenze giunse il generale Radet per coadiuvare il generale de Miollis, avendo timore che la popolazione, unita al Papa, potesse insorgere. Lo stesso generale Radet scriverà al ministro della guerra: «Il Papa governa con la punta delle dita molto meglio di noi con le nostre baionette». Pio VII venne arrestato nelle prime ore del 6 luglio. Il generale Radet e i suoi uomini scalarono in tre punti le mura dei giardini del Quirinale e penetrarono negli appartamenti pontifici. Pio VII li attendeva, già alzato e molto sereno, insieme al cardinale Pacca. In nome del Governo imperiale il generale lo invitò alla rinuncia del potere temporale. Il Papa rispose: «Noi non possiamo né cedere né abbandonare quello che non ci appartiene. L’imperatore potrà farci a pezzi, ma non potrà ottenere questo da noi. Dopo quanto abbiamo fatto per lui dovevamo attenderci una simile condotta?». E quando il generale gli comunicò l’ordine di arresto soggiunse: «Ecco la ricompensa che mi è riservata per quanto ho fatto per il vostro imperatore. Ecco il premio per la mia grandissima condiscendenza verso di lui e verso la Chiesa di Francia! Ma forse sotto tale riguardo sono colpevole dinanzi a Dio; e adesso che vuol punirmi, mi sottometto a Lui con umiltà…».
Chiese due ore di tempo. Non gli furono concesse. Chiese di essere accompagnato da alcune persone di sua fiducia. Non gli fu permesso, se non il cardinale Pacca. Con sé prese il breviario e un Crocifisso e salì in una carrozza, scortata da Radet e dai gendarmi. Fu condotto prima a Firenze, nella Certosa che dieci anni prima aveva ospitato Pio VI; poi fu prigioniero a Genova, Alessandria, Torino, Grenoble, Valenza, Avignone. Pacca, invece, fu rinchiuso nel forte di Fenestrelle, dove rimase fino al 1813. Ma in Francia il Papa divenne un peso ingombrante e fu rimandato in Italia: Nizza, Monaco, Oneglia, Finale Ligure, infine fu incarcerato nella fortezza di Savona, dove rimase fino al 1812. Con la morte di Napoleone e la Restaurazione del 1815, Pio VII tornò a Roma, dove ricostruì lo Stato Pontificio. Incaricò lo scultore Canova di trattare con il re di Francia, Luigi XVIII, la restituzione delle preziose opere rubate durante le scorrerie napoleoniche, ma riuscì a recuperare ben poco.
Trionfale ritorno a Roma di Pio VII il 24/V/1814
All’indomani della disastrosa campagna di Russia, nel primo messaggio rivolto alla cattolicità, pronunciato a Cesena il 4 maggio 1814, Pio VII formulò un'interpretazione in chiave provvidenzialista delle sue tribolazioni e della sua restaurazione, riaffermando anche con forza i suoi diritti di pontefice e di sovrano. "Il trionfo della Misericordia divina è ormai compiuto sopra di Noi strappati con inaudita violenza dalla nostra Sede pacifica, dal seno de' nostri amati Sudditi; e trascinati di una in un'altra Contrada, siamo stati condannati a gemere tra la Forza quasi cinque anni. Noi abbiamo versato nella nostra prigionia lacrime di dolore prima per la Chiesa alla nostra cura commessa perché ne conoscevamo i bisogni senza poterle apprestare un soccorso, poi per i Popoli a Noi soggetti perché il grido delle loro tribolazioni giungeva perfino a Noi senza che fosse in nostro potere di arrecargli un conforto. Temperava però l'affanno acerbissimo del nostro cuore la viva fiducia, che placato finalmente il pietosissimo Iddio giustamente irritato dai nostri peccati alzarebbe l'Onnipotente sua destra per infrangere l'arco nemico, e spezzar le catene che cingevano il Vicario suo sulla Terra. La nostra fiducia non è stata delusa. L'umana alteriggia, che stoltamente pretese di uguagliarsi all'Altissimo, è stata umiliata, e la nostra liberazione, cui anche miravano gli sforzi generosi dell'Augusta Alleanza, è per prodigio inaspettatamente seguita" (A.S.V., Segr. Stato, 1814, rubrica 1). 
Il 18 maggio 2008: Benedetto XVI, che ha così sintetizzato il significato di quegli avvenimenti, raffigurati nella Basilica di Maria Ausiliatrice, la cui festa venne posta al 24 di maggio, data del ritorno di Pio VII a Roma, dopo il lungo esilio: “L’esempio di serena fermezza dato dal Papa Pio VII ci invita a conservare inalterata la fiducia in Dio, consapevoli che Egli, se pur permette per la sua Chiesa momenti difficili, non la abbandona mai. La vicenda vissuta dal grande Pontefice ci invita a confidare nella materna intercessione di Maria Santissima”.



Giovanni Buridano: un maestro delle Arti del XIV secolo

Giovanni Buridano, originario della Piccardia, è uno dei più importanti protagonisti della filosofia del XIV secolo.

Egli, contrariamente all’uso dell’epoca, spese l’intera carriera all’interno della Facoltà delle Arti di Parigi, senza insegnare mai la Teologia. Questo aspetto del tutto misterioso della sua biografia lo rende un autore assai affascinante e lo presenta come genuina figura di logico, metafisico, filosofo naturale del Basso Medioevo.

Le opere di Buridano sono per la maggior parte commenti a testi aristotelici o pseudo-aristotelici. La grandezza del maestro piccardo si misura nella spiccata capacità di leggere i trattati dello Stagirita, reinterpretarli ed emendarli dalle impurità che la lunga tradizione dei commentari ad Aristotele aveva prodotto nei secoli precedenti. Ne risulta un corpus di opere davvero originale in cui si mostra tutta la vivacità intellettuale del maestro parigino e a partire dal quale si spiega la grande influenza che ilmagister piccardo ebbe nei confronti dei suoi contemporanei.

La figura di Buridano, seppur approfondita da più di un secolo dagli studiosi di filosofia medievale, non è presente, se non marginalmente, all’interno delle rassegne sulla storia della filosofia medievale e nei manuali universitari di settore. La ragione di questa mancata divulgazione degli studi specialistici sul maestro piccardo risiede nel fatto che le sue opere sono per la maggior parte ancora inedite. I testi buridaniani giacciono custoditi nei manoscritti delle biblioteche del Vecchio Continente e sono consultati dagli studiosi del settore senza che ne venga approntata una trascrizione o un’edizione. La difficoltà che sorge nel curare edizioni critiche dei trattati buridaniani è comprensibile: la maggior parte delle opere del maestro piccardo, infatti, si presenta in più versioni, è spesso divisa in expositiones equaestiones ed è conservata in una molteplicità di manoscritti la cui attribuzione non è sempre facile. Nonostante queste difficoltà, si rende necessario, per il futuro, un completamento delle edizioni dei testi buridaniani: solo così, infatti, si potrà dare lustro ad una delle più influenti figure del medioevo occidentale.

Per quanto riguarda i tipi di studi che nel corso degli anni sono sorti attorno agli scritti del maestro parigino, va detto che il primo concetto buridaniano ad attrarre l’attenzione degli storici della filosofia fu quello di impetus. Nei suoi commenti alla Fisica e al De caelo, Buridano criticò la teoria aristotelica del moto violento proponendo un nuovo principio meccanico, quello di impetus, appunto, che potesse sostituire la contro-intuitiva teoria dello Stagirita. Per lungo tempo, gli studiosi hanno approfondito le tematiche della meccanica buridaniana e hanno notato, con una certa credibilità, la possibilità di leggere la categoria buridaniana di impetus come l’antesignana della teoria inerziale galileiana.

La seconda ondata di studi ha riguardato le opere logiche di Buridano. Il maestro parigino è autore di una vasta mole di trattati logici raccolti sotto il titolo di Summulae de dialectica. Quest’opera è considerata, non a torto, il grande lascito del maestro parigino alla posterità. Gli insegnamenti logici che Buridano impartì alla Facoltà delle Arti di Parigi sono quelli che contribuirono maggiormente a rendere noto il maestro parigino e a favorire la diffusione e la conoscenza delle sue opere in vita e in morte. Nonostante i recenti studi abbiano aperto le porte ad altri settori della filosofia buridaniana, le opere di logica del maestro parigino continuano ad essere oggetto dell’interesse degli storici della filosofia. A titolo d’esempio, si consideri il fatto che la più recente monografia sulla figura del magister artiumparigino (il volume John Buridan, scritto da G. Klima e pubblicato nel 2009) presenta un insieme di studi relativi, per la quasi totalità, alla logica di Buridano.

Solo di recente gli studiosi hanno cominciato ad approfondire altri settori della filosofia buridaniana: l’etica, la metafisica e la filosofia naturale. È in particolare a quest’ultima branca che sono dedicati molti degli articoli su Buridano risalenti all’ultimo decennio. L’approfondimento della philosophia naturalisdel maestro parigino è senz’altro doverosa: chi meglio di Buridano, con la sua peculiare carriera di maestro delle arti usque ad finem, potrebbe incarnare più adeguatamente la figura del filosofo naturale medievale (quello che oggi, insomma, chiameremmo scienziato)? Il maestro parigino, oltre ai già citatiFisica e De caelo, commentò il De anima, i Parva Naturalia, il De generatione et corruptione, ilLiber Meteororum, il De physiognomia, il De motu animalium e il De secretis mulierum. Questo cospicuo insieme di trattatati, come già accennato, costituisce oggi l’oggetto dell’interesse di molti studiosi buridaniani. Il più importante tra questi commenti è certamente il De anima, opera che il maestro parigino ha redatto in diverse versioni ed il cui tentativo di edizione completa è oggi in corso, ad opera di un team di studiosi europei, statunitensi e canadesi.

Giovanni Buridano è un autore della cui biografia non sappiamo pressoché nulla ma di cui ci è pervenuta una notevole messe di opere attraverso le quali siamo in grado di addentrarci a fondo nelle tematiche e nei modi di fare filosofia tipici del Basso Medioevo.

Indicazione bibliografica:Per un’ottima e recente rassegna del pensiero buridaniano nel suo insieme si legga la monografia di J., Zupko, John Buridan: portrait of a fourteenth-century arts master, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana, 2003.

L'oro si bisbiglia

So che nelle fiabe succede sempre che… il principe arrivi sempre di notte, nascosto, per trovare la sua amata. Non vuole essere visto da tutti, anzi! Agisce di soppiatto; giunge sotto la desiderata finestra e tenta di farsi notare da lei sola. E allora, quando la sua bella si affaccia, le rivolge dolci parole affettuose, intime, che stonerebbero, se ascoltate da orecchi estranei a quel connubio amoroso: perché concepite unicamente per una persona. Quel “Ti amo!”, pur essendo, di per sé, un’espressione più che usata – forse abusata- è personale: una chiave capace di disserrare un altrettanto unico lucchetto al mondo.
Questo non deve spingere a pensare che il principe azzurro si vergogni del suo sentimento, assolutamente. Sarebbe disposto ad affermare davanti a tutti il suo amore, fino alle più estreme conseguenze, se necessario.

Finalità del citato apologo, non vuole essere un invito ai ragazzi a nascondersi sotto le finestre delle proprie fidanzate a notte inoltrata. Questo fiabesco bozzetto, tuttavia – immaginario, ovviamente: con funzione aneddotica, e nient’altro- potrebbe stridere sonoramente con le realtà riscontrabili nell’odierno “corteggiamento virtuale”. Uno sguardo cursorio alle notizie di facebook getterebbe immediata luce.
Ormai le feisbuchiane bacheche hanno rimpiazzato i davanzali delle dame medievali. Se Romeo fosse vissuto ai nostri giorni, avrebbe rivelato il suo amore con un post; magari, nel caso specifico, in chat privata, ché sarebbe stato più sicuro, meno esposto a vendette familiari. “Giuletta Capuleti è stata taggata nel post di Romeo Montecchi…”

Troppi “Ti Amo”, troppi “Sei la cosa più importante che ho al mondo”, troppi “Sei la mia vita” (et similia: un elenco esauriente risulterebbe alquanto invasivo) vengono lasciati lì, a marcire, offerti alla vista di chiunque. Frasi così cariche di sentimento,di affetto, che avrebbero bisogno di essere protette, custodite, affinché non si rovinino. Sono confezionate per una persona ben precisa, ed è bene che sia proprio lei la prima a scartarne l’involucro. Al contrario, questi preziosi post abbandonati incustoditi, possono essere carpiti da altri, magari sconosciuti, che solo per sbaglio si trastullavano nella nostra bacheca, piccola parte della grande e moderna agorà virtuale che è facebook.

E’ un fatto, molte cose importanti e belle sono anche delicate e fuggevoli (per questo non mi piacciono oro e diamanti: perché infrangono questa tendenza). La rosa perde subito vigore e profumo; il fiocco di neve si scioglie sulla mano prima di poterne osservare con attenzione i contorni; per l’occhio sono necessarie una miriade di precauzioni che ne preservino la funzione: palpebre, ciglia, sopracciglia, lacrime pronte a scendere giù all’occorrenza. Il sole calante concede solo per alcuni minuti quell’iridescenza di caldi colori sfumati, che truccano la volta celeste nei sempre brevi tramonti estivi. Per non parlare del cuore, custodito all’interno di una selva di costole, resistenti eppure disposte ad assecondare la ritmata espansione polmonare.

E così, similmente importanti e delicate, sono alcune frasi, sottili come il fuoco, profonde, che perdono il proprio vigore se gettate con noncuranza, esposte tra le bancarelle di un social network. Se si potesse interrogare un “Ti amo”, per certo confesserebbe di non trovarsi a suo agio, così messo in bella mostra, visibile a tutti. “Un tempo”, direbbe “nessuno si sarebbe mai sognato di fare così. Mi consegnavano direttamente al destinatario! Tutt’al più, delegavano questo compito alla dignitosa cellulosa di una lettera d’amore, lungamente meditata e rivista, preservata con cura, scritta con inchiostro e sgorgante dalla fronte brinata per l’emozione”.

Le cose davvero importanti si bisbigliano a fil d’orecchio, non si gridano. Da sempre le mamme rimboccano le coperte accarezzando le orecchie dei propri piccoli con quel “buonanotte tesoro…”, recitato in sincronia con la deposizione di un bacio sulla guancia. Il fidanzato – tranne che nei film, ma si sa: i film non devono, per peculiarità propria, riflettere la vita vera – non griderà mai quel tanto covato “mi vuoi sposare?”; al contrario, lo ovatterà il più possibile, preoccupandosi che solo la sua amata riceva il messaggio. E questo non tanto perché ne provi vergogna, ma perché quella frase è quanto di più prezioso le possa rivolgere, in quel momento, e vorrebbe preservarlo solo per lei.

L’oro si sussurra alle orecchie, mentre il rame può ben essere sbraitato sconciamente. Le cose davvero importanti devono essere percepite, non sentite.

Sono sempre gli altri a sbagliare?

Il presidente del consiglio Letta l'altra sera a "in Mezz' Ora", ha detto che se si vogliono ricercare le colpe del sempre più probabile aumento dell'Iva, vanno cercate nel governo di Berlusconi, interrottosi, come noto, nel 2011. Addirittura ha dichiarato che era una decisione già presa dai ministri di quel governo, viene solo rimandata. Insomma, uno "scarica-barile". Come viene facile dire ai democratici di sinistra, le responsabilità sono a destra. Ma così non si esce dai problemi!
Spesso il popolo italiano non ha dato fiducia alla sinistra proprio per questo: criticando gli altri, ma non proponendo mai...non si risolve niente. Letta è figlio di questa sinistra, e parla come i suoi.
L'attuale governo, spesso, si rifugia in questo: a sinistra succede quello che abbiamo visto, mentre a destra si lavora di meno del solito, viste le vicende Berlusconi e la consapevolezza della umiliazione che sta subendo l'asse cdx: il primo partito per tutti i sondaggi, costretto a lavorare in minoranza, anche sul territorio. Risultato:le larghe intese, come detto più volte, non funzionano, perché c'è innanzitutto una grossa differenza di stile tra le parti, e poi perché la voglia di costruire veramente per il paese non c'è. L'importante è raggiungere prima il proprio obbiettivo. Questo, purtroppo, ha portato l'Italia così com'è oggi. Il pensiero che "tanto ci pensa qualcun'altro, e se non lo fa, lo posso criticare" ha ucciso le speranze d'Italia. Chi si proporrà di non pensare più a questo, vincerà e avrà il consenso del popolo.

Ancor prima è necessario fare autocritica. Questo manca oggi alla politica italiana, che rimane statica e perde credibilità. Se ogni partito, ancor più quelli a sinistra, facesse un po' di sana autocritica, molto si muoverebbe: perché le colpe sono sempre...degli altri?

Continenza e bene sociale

Il rapporto tra la virtù del singolo, intesa non come valore ma quale continenza nelle passioni dell'irascibile e del concupiscibile, è stata soventemente messa in luce dagli autori di ogni tempo, Platone, Cicerone, Sant'Agostino e Dante su tutti. Si tratta di una visione che non opera quella cesura, tanto dannosa a vederne i risultati, tra l'ambito privato e quello pubblico: laddove, infatti, regna l'egoismo,dell'assenso incondizionato alle proprie brame da parte di ciascuno, come si può pretendere che possa vivere uno stato che fa del Bonum Commune il proprio fine. È nello Stato che il cittadino vive ed, in esso, che ha l'occasione di privilegiare il bene della virtù al male del vizio: tertium non datur giacchè l'asservimento alle proprie passioni incide a tal punto sulla personalità che non può non riverberarsi nel suo agire pubblico.
Ippolito Nievo
A tal proposito riportiamo una lunga citazione tratta dal II capitolo del romanzo ottocentesco, scritto da Ippolito Nievo, "Le confessioni di un Italiano" che è un'opera fortemente impegnata nell'ambito politico risorgimentale:

«Tutti sanno quali stenti indurassero sant'Agostino e sant'Antonio per domare gli stimoli della carne e vincere le tentazioni; ora pochi pretenderanno esser santi come loro, eppur quanti ne trovate che pratichino le eguali astinenze per ottenerne gli uguali effetti? - È segno che tutti si rassegnano a pigliar le cose come stanno; contenti di salvar la decenza colla furberia della gatta che copre di terra le proprie immondizie, come dice e consiglia l'Ariosto. Sí, sí; ve lo dico e ve lo confermo; giovani e vecchi, grandi e piccini, credenti o miscredenti, pochi vivono adesso che attendano e vogliano combattere le proprie passioni; e confinar i sensi nella sentina dell'anima, dove la natura civile ha segnato loro il posto. Nato il male, non è questo il secolo de' cilici e delle mortificazioni da sperarne il rimedio. Ma la educazione potrebbe far molto coltivando la ragione, la volontà e la forza prima che i sensi prendano il predominio. Io non sono bigotto: e non prèdico pel puro bene delle anime. Prèdico pel bene di tutti e pel vantaggio della società; alla quale la sanità dei costumi è profittevole e necessaria come la sanità degli umori al prosperare d'un corpo. La robustezza fisica, la costanza dei sentimenti, la chiarezza delle idee e la forza dei sacrifizi sono suoi corollari; e queste doti meravigliose, saldate per lunga consuetudine negli individui, e con essi portate a operare nella sfera sociale, tutti conoscono come potrebbero ingerminare proteggere ed affrettare i migliori destini d'un'intera nazione. Invece i costumi sensuali, molli, scapestrati fanno che l'animo non possa mai affidarsi di non essere svagato da qualche altissimo intento per altre basse ed indegne necessità: il suo entusiasmo fittizio si svampa d'un tratto o almeno diventa un'altalena di sforzi e di cadute, di fatiche e di vergogne, di lavoro e di noie. L'incancrenirsi di siffatti costumi sotto l'orpello luccicante della nostra civiltà è la sola causa per cui la volontà è diventata aspirazione, i fatti parole, le parole chiacchiere; e la scienza si è fatta utilitaria, la concordia impossibile, la coscienza venale, la vita vegetativa, noiosa, abbominevole. In qual modo volete far durare uno, due, dieci, vent'anni in uno sforzo virtuoso, altissimo, nazionale, milioni di uomini de' quali neppur uno è capace di reggere a quello sforzo tre mesi continui? Non è la concordia che manca, è la possibilità della concordia, la quale deriva da forza e da perseveranza. La concordia degli inetti sarebbe buona da farne un boccone, come fece di Venezia il caporalino di Arcole. Ora, quando sarà bisogno che le forze si sieno quadruplicate, troverete in quella vece che la maggior parte si è infiacchita, sviata, capovolta: e invece d'aver fatto un passo innanzi l'avrà indietreggiato di due. - Vi parrà qui di esser ben lontani col discorso dalle piccole e ridicole lasciviette fanciullesche; ma guardate bene e vedrete che le si avvicinano ed ingrandiscono, come dietro la lente d'un canocchiale le macchie del sole».

Regola 13: Calci di punizione

La leggendario punizione indiretta di Maradona in Napoli-Juve 1-0 del '85-'86
Tipi di calci di punizione
I calci di punizione sono diretti e indiretti.
Il calcio di punizione diretto
IL PALLONE ENTRA IN PORTA
• se un calcio di punizione diretto è calciato direttamente nella porta avversaria, la rete è valida;
• se un calcio di punizione diretto è calciato direttamente nella propria porta deve essere accordato un calcio d’angolo alla squadra avversaria.
Il calcio di punizione indiretto
SEGNALAZIONE
L’arbitro indica il calcio di punizione indiretto sollevando il proprio braccio al di sopra della testa. Egli mantiene il braccio in questa posizione durante l’esecuzione del calcio di punizione e fino a che il pallone abbia toccato un altro calciatore o cessi di essere in gioco.
IL PALLONE ENTRA IN PORTA
Una rete può essere segnata soltanto se il pallone entra in porta dopo aver toccato un altro calciatore:
• se un calcio di punizione viene calciato direttamente nella porta della squadra 
avversaria, il gioco dovrà essere ripreso con un calcio di rinvio;
• se un calcio di punizione viene calciato direttamente nella propria porta, il gioco dovrà essere ripreso con un calcio d’angolo in favore della squadra avversaria.
Procedura
Sia per il calcio di punizione diretto che per quello indiretto, il pallone deve essere fermo nel momento in cui viene calciato e chi lo calcia non deve toccarlo di nuovo prima che sia stato toccato da un altro calciatore.
Punto di esecuzione del calcio di punizione
CALCIO DI PUNIZIONE ALL’INTERNO DELL’AREA DI RIGORE
Calcio di punizione diretto o indiretto in favore della squadra difendente:
• tutti i calciatori della squadra avversaria devono trovarsi ad almeno m. 9,15 dal pallone;
• tutti i calciatori della squadra avversaria devono rimanere al di fuori dell’area di rigore fino a quando il pallone non sia in gioco;
• il pallone è in gioco non appena è calciato fuori dall’area di rigore verso il terreno di gioco;
• un calcio di punizione accordato all’interno dell’area di porta può essere eseguito da qualsiasi punto di tale area.
Calcio di punizione indiretto in favore della squadra attaccante:
• tutti i calciatori della squadra avversaria devono trovarsi ad almeno m. 9,15 dal pallone fino a quando questo non sia in gioco, fatto salvo il caso che essi si trovino sulla propria linea di porta fra i pali;
• il pallone è in gioco quando è calciato e si muove;
• un calcio di punizione indiretto, accordato all’interno dell’area di porta, deve essere eseguito dalla linea dell’area di porta, parallela alla linea di porta, nel punto più vicino a quello in cui è stata commessa l’infrazione.
CALCIO DI PUNIZIONE ALL’ESTERNO DELL’AREA DI RIGORE
• tutti i calciatori della squadra avversaria devono trovarsi ad almeno m. 9,15 dal pallone fino a quando questo non sia in gioco;
• il pallone è in gioco non appena è calciato e si muove;
• il calcio di punizione deve essere eseguito dal punto in cui è stata commessa l’infrazione o dalla posizione in cui si trovava il pallone quando si è verificata l’infrazione (a seconda del tipo di infrazione)
Infrazioni e sanzioni
Quando un calciatore della squadra avversaria non rispetta la distanza prescritta durante l’esecuzione di un calcio di punizione:
• il calcio di punizione deve essere ripetuto.
Quando il pallone non è uscito dall’area di rigore durante l’esecuzione di un calcio di punizione accordato ai difendenti all’interno della propria area di rigore:
• il calcio di punizione deve essere ripetuto.
PROCEDURA
Il pallone è in gioco quando è calciato e si muove.
Un calcio di punizione può essere eseguito alzando il pallone con un piede o con entrambi i piedi simultaneamente.
Fare una finta durante l’esecuzione di un calcio di punizione per confondere gli avversari è consentito in quanto parte del gioco. Tuttavia, se a giudizio dell’arbitro la finta è considerata come un atto di comportamento antisportivo, il calciatore dovrà essere ammonito.
Se un calciatore, mentre sta eseguendo correttamente un calcio di punizione, calcia volontariamente il pallone contro un avversario al fine di poterlo rigiocare, ma non lo fa in maniera negligente, imprudente o usando vigoria sproporzionata, l’arbitro dovrà lasciare che il gioco prosegua.
Un calcio di punizione indiretto deve essere ripetuto se l’arbitro omette di alzare il braccio per indicare che il calcio è indiretto e il pallone è calciato direttamente in porta. Il carattere indiretto del calcio di punizione non è annullato dall’errore dell’arbitro.
DISTANZA
Se un calciatore decide di eseguire rapidamente un calcio di punizione ed un avversario che si trova a meno di m. 9.15 dal pallone lo intercetta, l’arbitro lascerà che il gioco prosegua.Se un calciatore decide di eseguire rapidamente un calcio di punizione ed un avversario che è vicino al pallone gli impedisce intenzionalmente di effettuare il calcio di punizione, l’arbitro dovrà ammonire il calciatore per aver ritardato la ripresa di gioco.
Se la squadra difendente esegue un calcio di punizione all’interno della propria area di rigore e uno o più avversari si trovano ancora all’interno di essa perché il difensore decide di eseguire rapidamente la punizione e gli avversari non hanno avuto il tempo di uscirne, l’arbitro lascerà che il gioco prosegua.

Voltaire e il richiamo della fede

François-Marie Arouet, più noto con lo pseudonimo di Voltaire fu il peggior nemico che ebbe il Cristianesimo nel secolo XVIII: si era riproposto l'obiettivo dell’annientamento della Chiesa, di distruggere cioè da solo ciò che, reputava, fosse stato edificato da dodici uomini. Purtuttavia, Voltaire rimase sempre moralmente vicino all’insegnamento cattolico e alla legge naturale. Non potendosi esimere dall’uso della ragione (da buon profeta dei Lumi della Ratio), Voltaire finì per convertirsi. A riprova di ciò uno studio dello spagnolo Carlos Valverde: il tomo XII di una vecchia rivista francese, Corrispondance Littérairer, Philosophique et Critique (1753-1793) nel numero di aprile del 1778 (pagine 87-88), si incontra niente di meno che la professione di fede di M. Voltaire. Letteralmente dice così:
“Io, sottoscritto, dichiaro che avendo sofferto di un vomito di sangue quattro giorni fa, all’età di 84 anni e non essendo potuto andare in chiesa, il parroco di Saint Sulpice ha voluto aggiungere un’altra buona opera alle sue inviandomi a M. Gauthier, sacerdote. Io mi sono confessato con lui, e se Dio vuole, muoio nella santa religione cattolica nella quale sono nato, sperando dalla misericordia divina che si degnerà di perdonarmi tutte le mie mancanze, e che, se ho scandalizzato la Chiesa, chiedo perdono a Dio e a lei.
Firmato: Voltaire, il 2 marzo del 1778 nella casa del marchese di Villete, in presenza del signor abate Mignot, mio nipote e del signor marchese di Villevielle”. Firmano anche: l’abate Mignot, Villevielle. Si aggiunge: “dichiariamo la presente copia conforme all’originale, che è rimasto nelle mani del signor abate Gauthier, che abbiamo firmato, come firmiamo il presente certificato. In Parigi, il 27 maggio del 1778. L’abate Mignot, Villevielle”. Che la relazione possa stimarsi come autentica lo dimostrano altri documenti che si incontrano nel numero di giugno della medesima rivista, che non è per niente clericale certamente, perchè era pubblicata da Grimm, Diderot ed altri enciclopedisti.
Voltaire morì il 30 maggio del 1778. L’abate Mignot presenta al priore il consenso firmato dal parroco di Saint Sulpice e una copia (firmata anche dal parroco). Questo testo dimostra che Voltaire si era già convertito tre mesi prima di morire ma esiste un documento ancora più antico che, non solo anticipa la sua conversione (almeno il suo cambiamento nei confronti della religione) di diversi anni, ma dimostra anche che non fu né la paura della morte né la senilità a convertirlo. Il Cattolicesimo rimase per tutta la sua vita, un rifugio sicuro per Voltaire dall’intolleranza propria delle confessioni protestanti e dell’Islam.
Sua Santità Benedetto XIV
A riprova di ciò, il filosofo francese aveva imparato l‘Italiano perchè non solo era la lingua dell’amore, della poesia lirica e della cultura alta, ma anche e soprattutto la lingua corrente della curia vaticana. Non stupisce quindi che lo stesso autore francese, fra una lettera erotica e una richiesta di raccomandazioni -lungi da noi operare un giudizio morale su Voltaire, d’altronde si vuole mostrare solo che fu e si considerò sempre cattolico, non che fu un buon cattolico, quale nemmeno si riteneva come mostra il Trattato sulla Tolleranza - inaugurasse una fitta corrispondenza italiana con ecclesiastici di varia estrazione: il card. Passionei, già inquisitore a Malta; il card. Quirini, vescovo benedettino di Brescia e bibliotecario di Sua Santità; i gesuiti Boscovich e Jacquier, il camaldolese Calogerà, l’abate Sambuca, il futuro sovrintendente alla finanze pontificie Vergani e così via. Né stupirebbe che a un così accanito corrispondente di mezzo clero italiano potesse capitare di scrivere a due Papi. Nel 1761, quando è ormai riconosciuto patriarca antireligioso, tutt’a un tratto scrive a Clemente XIII gettandosi di nuovo “a j sacri piedi di sua beatitudine” in qualità di “gentiluomo della camera di sua maestà cristianissima”. La richiesta lascia basiti: lui e sua nipote, che nel frattempo è diventata la sua nuova concubina e alla quale non scrive più, “la supplican’umilmente di degnarsi di concedere loro alcune sante relliquie per l’altare della nuova chieza che Francesco di Voltaire edifica nel feudo di Ferney”. In una lettera parallela al card. Passionei Voltaire spiega: “Non domando un corpo santo. Sono indegno d’un tanto onore, basta per me un dito, un capelo”. Le ragioni per convincere il Papa sono ancora più scioccanti. La tenuta di Ferney si trova “nella vicinanza della herezia”, ossia a due passi dalla Ginevra calvinista, e Voltaire ritiene “che sia convenevole di spiegare tutti i segni della fede in faccia de gli inimici”. Non si sa se le reliquie arrivassero o meno a destinazione; ma la chiesa di Ferney venne allestita, col proclama DEO EREXIT VOLTAIRE sul frontone, e fu una parrocchia cattolica nella quale Voltaire di tanto in tanto prese anche la comunione con grande scandalo degli astanti.
Nel 1745 Voltaire era in procinto di far pubblicare la tragedia Il Fanatismo, ovvero Maometto profeta, che oggi non gli guadagnerebbe parecchi fan fra i sostenitori del multiculturalismo. Per quanto sia valida la lettura obliqua del Maometto come critica a certi eccessi politici del Cattolicesimo, si tende a dimenticare facilmente che resta innanzitutto il ritratto poco lusinghiero di un profeta che “semina fanatismo e sedizione, e conduce la sua armata nel nome di un Dio terribile”. Voltaire intuisce che può avere in Benedetto XIV, già cardinal Prospero Lambertini, un alleato prezioso per la sua brillantissima cultura. Spedisce allora un abate, amico di un’amica della sua concubina M.me du Châtelet, a esplorare personalmente in Vaticano la propensione del Papa nei suoi confronti.
Scrive da Parigi il 17 agosto:«Vostra Santità perdoni la libertà presa da uno dei peggiori fedeli, anche se ammiratore zelante della virtù, di presentare al capo della vera religione questo componimento, scritto in opposizione al fondatore di una setta falsa e barbara. A chi avrei potuto con più decoro inscrivere una satira sulla crudeltà e gli errori di un falso profeta, che al vicario e rappresentante di un Dio di verità e di misericordia? Vostra Santità, pertanto, datemi il permesso di porre ai vostri piedi, sia il pezzo e l’autore della stessa, e umilmente a chiedere la protezione dell’uno, e la sua benedizione dell’altro, nella speranza di ciò, con il rispetto più profondo, le bacio i suoi sacri piedi».
L’esito è glorioso: Benedetto XIV fa arrivare a Voltaire dei medaglioni con la propria immagine che diventano il pretesto per una breve e un po’ surreale corrispondenza. A metà agosto 1745 Voltaire può infatti scrivere a Benedetto XIV, sempre nel suo Italiano immaginario, dichiarando di aver «ricevuto co i sensi della piu profonda venerazione e della gratitudine piu viva, j Sacri medaglioni di quali la vostra Santita s’e degnata honorar mi». S’inventa su due piedi di avere appesa «nel mio cabinetto una stampa di vostra Beatitudine» e domanda «al cielo che Vostra Santità sia tardissimamente ricevuta tra quegli Santi dei quali ella con si gran fatica e successo, ha investigato la canonizatione».
Si legge nei ringranziamenti per i medaglioni: «Le sembianze di Vostra Eccellenza non sono meglio espresse sulla medaglia che è stato così gentile da mandarmi, quanto lo sono le sembianze del suo pensiero nella lettera con la quale mi avete onorato: mi permetta di porre ai vostri piedi la mia riconoscenza sincera. Nella letteratura, come pure in materia di maggiore importanza, la sua infallibilità non è in contestazione: Vostra Eccellenza è molto più esperto in lingua latina del francese che si degnò di correggere. Io sono davvero stupito di come si poteva così facilmente appellarsi a Virgilio: i papi sono stati sempre classificati come i sovrani più dotti, ma tra loro credo non ci sia mai stato uno in cui tanto apprendimento e buongusto furono uniti. [...] Non posso fare a meno di considerare questo versetto come un felice presagio dei favori conferitemi da Vostra Eccellenza. Così Roma avrebbe acclamato quando Benedetto XIV è stato eletto Papa. Con il massimo rispetto e la gratitudine bacio i suoi piedi sacri, ecc».
Riguardo invece la lettera del papa di cui questa citazione è la risposta, risulta che nell’archivio vaticano il Papa risponde sì a Voltaire, ma non fa menzione del Maometto, mentre la copia in possesso di Voltaire parla espressamente de «la sua bellissima Tragedia di Mahomet, la quale leggemmo con sommo piacere». È ragionevole pensare che la smania per ottenere l’appoggio papale avesse spinto Voltaire a farsi ricopiare in bella grafia la lettera pontificia con le migliorie che riteneva necessarie alla propria gloria. Fatto sta che tanto la bella copia quanto il brogliaccio riportano il tradizionale congedo del Papa: «ed intanto restiamo col dare a lei l’apostolica Benedizione». 
Medaglie di Benedetto XIV
Si può rimestare nel torbido finché si vuole ma il dato di fatto è incontestabile: Voltaire s’è inginocchiato, il Papa l’ha benedetto, con buona pace di coloro che ritengono e scrivono sulla famigerata enciclopedia online Wikipedia, troppo spesso faziosa, foriera di relativismo nonché di falsità, che il filosofo francese avesse mandato lo scritto al papa per ironia. Questo processo alle intenzioni con cui i è ridicolo: per non fare della storia un’opinione, anziché una scienza, occorre limitarsi ad una sana attinenza al dato, dando delle interpretazioni tenenti conto delle giuste componenti e non di vuote supposizioni indimostrabili. Questi sono i fatti: Voltaire, che da piccolo era stato educato dai gesuiti, non abbracciò mai il protestantesimo pur avendo vissuto in Inghilterra e in Svizzera, scrisse volentieri a Papi e cardinali, attorno al suo cadavere si levarono i vespri funebri dell’abate di Scellières, e venne seppellito con messa solenne grazie ai buoni uffici di un nipote reverendo. È più che sufficiente a giustificare il sospiro che si lascia sfuggire nel Trattato sulla Tolleranza: «Grazie a Dio, sono un buon cattolico».


Che cosa è la filosofia?

“Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a più alternative opta per una di esse ed elimina e perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte, che assomiglia a quello della speranza o a quello dell’oblio”.

(Jorge Louis Borges, Nove saggi danteschi)

L’ambiguo tempo dell’arte di cui parla Borges, grande maestro della parola, è lo stesso ambiguo tempo della filosofia. Come l’artista, infatti, il filosofo può permettersi il raro lusso di non aver paura della scelta.

Nel mondo del pensiero, così irreale eppure così umano, le alternative si pongono ma non si escludono vicendevolmente. Esse si ripresentano sempre, si scartano e si ricompongono, senza che la scure del tempo si possa mai abbattere una volta per tutte su di loro.

La scelta è per essenza discernimento, divisione, esclusione ma nella filosofia essa diventa pluralità, contemporaneità, riproposizione. La filosofia pone domande, cerca risposte e, inevitabilmente, discerne. Ma nel suo discernimento c’è sempre una possibilità di revisione, di ritorno, di ripensamento, di riabilitazione, privilegi che raramente il “tempo reale” è in grado di concedere all’uomo.

Possibilità di ri-fare, di ri-pensare, di ri-agire e di reagire. Ecco cosa l’artista ed il filosofo trovano entusiasmante e profondamente consolatorio nelle loro vite: l’opportunità di non perdere mai nulla, la possibilità costante della ripresa.

Il tempo della filosofia è ambiguo proprio perché non coincide con il tempo della scelta. La scelta porta inevitabilmente verso l’unicità senza ritorno; l’ambiguità, invece, conduce sempre verso il doppio, il plurale, l’infinitamente possibile.

Il tempo della filosofia è quello della speranza; il tempo in cui con la sola forza della ragione si possono creare mondi ed in un attimo accade di vederli distrutti senza per questo smarrire l’impulso a ricostruirli, mai del tutto diversi.

Il tempo della filosofia è quello dell’oblio perché tutto si ripresenta, perché tutti i corni del dilemma possono sempre, di punto in bianco, tornare ad interrogare. Anche i più grandi sistemi di pensiero, le più ardite e sottili architetture della Scolastica, sottendono la cifra del ritorno, del ripensamento, del riciclo concettuale.

La filosofia, dunque, non elimina nulla definitivamente e, in fondo, non perde mai.

Il privilegio di essere immuni dalla crudeltà della scelta, però, non toglie al filosofo l’onere e la vocazione alla ricerca costante della verità. La speranza, il tempo filosofico per eccellenza, è sempre speranza di soluzione, di risoluzione. E l’oblio, volto più oscuro ed inquietante del binomio filosofico, rappresenta in realtà quell’infinito covo di idee senza le quali la ricerca non potrebbe andare avanti perché sarebbe ogni volta costretta ad iniziare daccapo.

Ripensamento, ambiguità, speranza, oblio, verità… un timido tentativo di definire la Filosofia.

Seconda prova di maturità classica: Omero maestro di retorica, Quintiliano

TESTO

Igitur, ut Aratus ab Iove incipiendum putat, ita nos rite coepturi ab Homero videmur. Hic enim, quem ad modum ex Oceano dicit ipse amnium fontiumque cursus initium capere, omnibus eloquentiae partibus exemplum et ortum dedit. hunc nemo in magnis rebus sublimitate, in parvis proprietate superaverit. Idem laetus ac pressus, iucundus et gravis, tum copia tum brevitate mirabilis, nec poetica modo sed oratoria virtute eminentissimus. XLVII. Nam ut de laudibus exhortationibus consolationibus taceam, nonne vel nonus liber, quo missa ad Achillem legatio continetur, vel in primo inter duces illa contentio vel dictae in secundo sententiae omnis litium atque consiliorum explicant artes? XLVIII. Adfectus quidem vel illos mites vel hos concitatos nemo erit tam indoctus qui non in sua potestate hunc auctorem habuisse fateatur. Age vero, non utriusque operis ingressu in paucissimis versibus legem prohoemiorum non dico servavit, sed constituit? Nam et benivolum auditorem invocatione dearum quas praesidere vatibus creditum est et intentum proposita rerum magnitudine et docilem summa celeriter comprensa facit. Narrare vero quis brevius quam qui mortem nuntiat Patrocli, quis significantius potest quam qui curetum Aetolorumque proelium exponit?

TRADUZIONE
Ma ora passo in esame i generi stessi di lettura, che, a mio parere, più degli altri si convengono a chi si sforza di diventare oratore. Dunque, come Arato pensa che da Giove ogni principio trar si convenga, così a noi pare di dover prendere le mosse ragionevolmente da Omero. Perché questi, come da sé stesso dichiara che fiumi e fonti nascono dall’Oceano, così diede esempi e origine a tutte le parti dell’eloquenza. E nessuno può superarlo per sublimità nelle cose grandi e per proprietà nelle piccole. Egli è poeta, che può essere copioso e sobrio, gradevole e grave, meraviglioso ora per ricchezza ora per concisione di stile ed altissimo non solo per virtù poetica, ma anche per virtù oratoria. Infatti, per tacere delle lodi, delle parenesi, delle consolatorie, forse che nel nono libro, quello cioè dell’ambasceria ad Achille, o nel primo, che tratta della celebre contesa tra i capi, o nei pensieri del secondo non sono comprese e sviluppate tutte le arti dell’eloquenza forense e deliberativa? Certo, quanto agli affetti smorzati e a quelli concitati, non ci sarà alcuno così ignorante, da non ammettere che questo scrittore li abbia maneggiati da padrone. Ma suvvia! All’inizio di ambedue i poemi, non ha egli non dico rispettato, ma creato la legge degli esordi limitati a pochissimi versi? In sostanza, egli si rende benevolo chi ascolta, invocando le divinità credute protettrici dei poeti, ne suscita l’interesse col porgli innanzi la grandiosità dei fatti e lo rende ben disposto a seguirlo, comprendendo in poche parole la trama generale. E chi saprebbe raccontare con maggior concisione di quanto non fa il messaggero della morte di Patroclo, chi con più evidenza di colui che racconta la battaglia tra Cureti ed Etoli?

Traduzione tratta da Marco Fabio Quintiliano, L’istituzione oratoria, a cura di Rino Faranda, Torino, UTET, 1968, vol. II, p. 40

Troppi processi uccidono la rivoluzione



C'era l'invenzione che Grillo fosse una sorta di Bertoldo, uno che grazie alla sua vis comica sapeva spargere buon senso nelle teste coronate, come un picaro, un Don Chisciotte, male che vada l'ultimo dei Masaniello. Poi sono cominciati i processi. Fateci caso. È ormai questa la parola che ricorre di più nel melodramma dei cinquestelle. Processi. Processi a chi va in tv. Processi a chi parla troppo. Processi per chi ha perso la coscienza, chi critica il leader, chi si discosta dal guru, chi si perde la diaria, chi non è a cinquestelle, chi è troppo ambizioso, chi dice la sua, chi si perde nell'io e rinnega il noi, chi sta al Senato, chi è già troppo vecchio, chi vive in Sicilia, chi torna in Emilia, chi ha troppi master, chi è troppo bella.
È così che la democrazia diretta ha rimostrato il suo vecchio volto. Non c'è nulla da fare. Uno vale uno è la parola d'ordine e poi una alla volta le teste cominciano a cadere. Il buon Bertoldo getta la maschera e mostra il volto di Savonarola, con l'indice puntato e la rabbia di chi pretende di rieducare il prossimo. Quando poi il prossimo tentenna nel farsi rieducare cominciano i processi. È un attimo. Lo scenario si trasforma. La piazza, aperta, luminosa, non è più un'agorà, ma si fa scura, si chiude, lungo l'orizzonte qualcuno mette dei panni neri, e appare il tribunale. I cittadini sono improvvisamente giurati e il capocomico ha la toga, il ventre grasso da Balanzone e un martelletto per gridare tutto il suo potere. Chi dissente è perduto. La rivoluzione come al solito mangia i suoi figli.
Magari lo avete notato. Ormai quando si parla di grillini tornano certe parole lontane. Ortodossi contro deviazionisti, apocalittici contro integrati, lealisti e dissidenti, chi espelle e chi viene espulso e «la cittadina Gambaro deve spiegare perché ha voluto esprimere le sue critiche in pubblico, danneggiando il movimento». Il problema non è la questione politica. Grillo e Casaleggio vogliono difendere la loro creatura dalla sirene di Bersani. Non si fidano di chi vuole accomodarsi in qualche poltrona confidando nell'elemosina del Pd. Non vogliono che i loro parlamentari siano oggetto di scouting, un modo per dividere i buoni dai cattivi. Quelli buoni per il Pd e quelli da scartare. Tutto comprensibile. È il resto che non funziona. È quell'idea che la democrazia vera sia quella di piazza, e non importa che in questo caso sia una piazza virtuale. È il vizio culturale di chi pretende di considerare la sua parte il tutto. È qui che naufragano i cinquestelle. Ogni volta che dicono «gli italiani pensano, gli italiani vogliono, gli italiani chiedono». Gli italiani processano. Ma questo (ancora) non è un paese per forche e ghigliottine.

Il martirio di Focherini, una lezione di carità


La Piazza dei Martiri di Carpi ricorda un eccidio compiuto dai nazifascisti. Ieri questa bella piazza ha visto salire all’onore degli altari un martire cristiano, Odoardo Focherini, portato alla morte dallo stesso potere pagano. È il «primo giornalista italiano a diventare beato» ha ricordato il cardinale Angelo Amato, che ha presieduto il rito, sottolineando come papa Francesco lo additi alla Chiesa come «esemplare testimone del Vangelo», che «non esitò ad anteporre il bene dei fratelli all’offerta della propria vita».
Sono in migliaia sotto un sole finalmente estivo, e quindi cocente, ad assistere con entusiasmo alla cerimonia. Concelebrano un centinaio di sacerdoti e una ventina di vescovi. Tra questi ultimi il vescovo di Palestrina Domenico Sigalini, assistente ecclesiastico dell’Azione cattolica, e gli arcivescovi di Modena-Nonantola Antonio Lanfranchi, di Ravenna-Cervia Lorenzo Ghizzoni e di Trento Luigi Bressan. E sono molti i fedeli venuti proprio dalla diocesi di san Vigilio, di cui era originaria la famiglia Focherini, per assistere al rito.

Il postulatore padre Giovangiuseppe Califano ricorda la biografia del nuovo beato: appena 37 anni di vita vissuta intensamente, la famiglia (ebbe sette figli e una cinquantina di discendenti sono in piazza), il lavoro come assicuratore, l’impegno all’Avvenire d’Italia, l’apostolato nell’Azione cattolica di cui fu presidente diocesano, la protezione dei perseguitati politici e degli ebrei in particolare che gli sarebbe costata l’invio al campo di concentramento e il martirio.

Il cardinale Amato, che è prefetto della Congregazione delle cause dei santi, ed è in questa veste che presiede alla cerimonia, legge la lettera apostolica con cui papa Francesco iscrive «nel numero dei beati», come dice la formula, Odoardo Focherini. Significativamente il porporato consegna copia della Lettera papale anche a due laici: al direttore di Avvenire Marco Tarquinio e al presidente dell’Azione cattolica italiana Franco Miano.

Nella sua omelia il cardinale Amato ricorda «la difesa generosa degli ebrei perseguitati operata dal Focherini», evidenza la «lezione della carità» che ci lascia col suo martirio, e indica l’esempio «della sua coerenza alla fede battesimale e al fondamentale codice umano-divino del decalogo». A questo proposito il porporato auspica che «la nostra patria, nel confuso stradario contemporaneo» ritrovi «la via retta del vivere fraterno, operoso, solidale» testimoniata dal nuovo beato. Il cardinale sottolinea poi come «i cristiani anche oggi, soffrono persecuzione, non solo culturale, ma fisica», tanto che «in alcune nazioni europee spesso vivono in un clima di intolleranza, subendo insulti, minacce, discriminazioni sul lavoro e nei luoghi pubblici». Inoltre «ancora oggi, in moltissime regioni del mondo i cristiani non solo non sono protetti ma mancano di libertà religiosa, di libertà di coscienza e spesso vengono costretti con forza a rinnegare la propria fede». Ecco quindi «il valore della testimonianza cristiana» del beato Focherini, «difensore dei fratelli perseguitati e quindi difensore della vera umanità».

Le parole del cardinale vengono accolte con attenzione, anche dalle molte autorità presenti. Ci sono i sindaci della diocesi e l’assessore regionale Gian Carlo Muzzarelli, in rappresentanza del governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani.

Infine prende la parola il vescovo di Carpi, Francesco Cavina, che manifesta la «viva riconoscenza» della diocesi per papa Francesco, rappresentato secondo le norme dal cardinale Amato, e anche per il «Papa emerito Benedetto XVI, che ha riconosciuto il martirio di Odoardo Focherini e che è rimasto particolarmente colpito dalla vicenda umana, professionale e cristiana del nostro martire». «Il beato Odoardo – ha poi aggiunto il presule – ci darà il coraggio e la forza necessari per continuare nell’opera di ricostruzione spirituale e materiale delle nostre terre». È un giorno di grande festa, ma a Carpi c’è ancora molto da ricostruire dopo il terribile terremoto di un anno fa. Lo testimoniano, mute, le tantissime chiese ancora distrutte. E monsignor Cavina ha voluto, con delicatezza, ricordarlo.

Regola 12: falli e scorrettezze

I falli e le scorrettezze devono essere puniti come segue:

Calcio di punizione diretto
Un calcio di punizione diretto è accordato alla squadra avversaria se un calciatore commette una delle sette infrazioni seguenti in un modo considerato dall’arbitro negligente, imprudente o con vigoria sproporzionata:
• dà o tenta di dare un calcio ad un avversario;
• fa o tenta di fare uno sgambetto ad un avversario;
• salta su un avversario;
• carica un avversario;
• colpisce o tenta di colpire un avversario;
• spinge un avversario;
• effettua un tackle su un avversario.

Un calcio di punizione diretto è parimenti accordato alla squadra avversaria del calciatore che commette una delle tre infrazioni seguenti:
• trattiene un avversario;
• sputa contro un avversario;
• tocca volontariamente il pallone con le mani (ad eccezione del portiere nella 
propria area di rigore).

Il calcio di punizione diretto deve essere eseguito dal punto in cui l’infrazione è stata commessa (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).

Calcio di rigore
Un calcio di rigore è accordato se una di queste dieci infrazioni è commessa da un calciatore all’interno della propria area di rigore, indipendentemente dalla posizione del pallone, purché lo stesso sia in gioco.

Calcio di punizione indiretto
Un calcio di punizione indiretto è accordato alla squadra avversaria se un portiere, all’interno della propria area di rigore, commette una delle quattro infrazioni seguenti:
• controlla il pallone con le mani per più di sei secondi prima di spossessarsene;
• tocca di nuovo il pallone con le mani, dopo essersene spossessato e prima che lo stesso sia stato toccato da un altro calciatore;
• tocca con le mani il pallone dopo che è stato volontariamente calciato verso di lui da un compagno di squadra;
• tocca con le mani il pallone dopo averlo ricevuto direttamente da un compagno di squadra su rimessa dalla linea laterale.
Un calcio di punizione indiretto è parimenti accordato alla squadra avversaria se un calciatore, a giudizio dell’arbitro:
• gioca in modo pericoloso;
• ostacola la progressione di un avversario (senza contatto fisico);
• impedisce al portiere di liberarsi del pallone che ha tra le mani;
• commette qualunque altra infrazione non prima menzionata nella Regola 12, per la quale la gara è stata interrotta per ammonire od espellere un calciatore.

Il calcio di punizione indiretto deve essere eseguito dal punto in cui l’infrazione è 
stata commessa (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).

Sanzioni disciplinari
Il cartellino giallo è usato per comunicare che un calciatore titolare, di riserva o sostituito è stato ammonito.
Il cartellino rosso è usato per comunicare che un calciatore titolare, di riserva o sostituito è stato espulso.
Il cartellino rosso o giallo può essere mostrato soltanto ad un calciatore titolare, di riserva o sostituito.
L’arbitro ha l’autorità di assumere sanzioni disciplinari dal momento in cui entra sul terreno di gioco fino al momento in cui lo abbandona dopo il fischio finale. Un calciatore che si trova sul terreno di gioco o al di fuori dello stesso e commette un’infrazione punibile con un’ammonizione o un’espulsione nei riguardi di un avversario, di un compagno, dell’arbitro, di un assistente o di qualunque altra persona, deve essere punito in conformità alla natura dell’infrazione commessa.

Infrazioni passibili di ammonizione
Un calciatore titolare deve essere ammonito, mostrandogli il cartellino giallo, se commette una delle sette infrazioni seguenti:
1) è colpevole di un comportamento antisportivo;
2) protesta con parole o gesti nei confronti degli ufficiali di gara;
3) infrange ripetutamente le Regole del Gioco;
4) ritarda la ripresa del gioco;
5) non rispetta la distanza prescritta durante l’esecuzione di un calcio d’angolo, di un calcio di punizione o di una rimessa dalla linea laterale;
6) entra o rientra sul terreno di gioco senza la preventiva autorizzazione dell’arbitro;
7) esce volontariamente dal terreno di gioco senza la preventiva autorizzazione dell’arbitro.

Un calciatore di riserva o sostituito deve essere ammonito, mostrandogli il cartellino giallo, se commette una delle tre infrazioni seguenti:
1) si rende colpevole di un comportamento antisportivo;
2) protesta con parole o gesti nei confronti degli ufficiali di gara;
3) ritarda la ripresa del gioco.

Infrazioni passibili di espulsione
Un calciatore titolare, di riserva o sostituito deve essere espulso se commette una delle sette infrazioni seguenti:
1) è colpevole di un grave fallo di gioco;
2) è colpevole di condotta violenta;
3) sputa contro un avversario o qualsiasi altra persona;
4) impedisce alla squadra avversaria la segnatura di una rete o un’evidente opportunità di segnare una rete, toccando volontariamente il pallone con le mani (ciò non si applica al portiere dentro la propria area di rigore);
5) impedisce un’evidente opportunità di segnare una rete ad un avversario che si dirige verso la porta, commettendo un’infrazione punibile con un calcio di punizione o di rigore;
6) usa un linguaggio o fa dei gesti offensivi, ingiuriosi o minacciosi;
7) riceve una seconda ammonizione nella medesima gara.
Un calciatore titolare, di riserva o sostituito che è stato espulso deve abbandonare il recinto di gioco.

Il Riduzionismo in Filosofia della Biologia

Il dibattito sul riduzionismo è una componente preponderante della filosofia della biologia: esso si configura come una tesi ontologica, metodologica ed epistemologica.

Il riduzionismo ontologico è un’affermazione sulla realtà in base alla quale tutto ciò che esiste è nient’altro che un insieme di entità descrivibili in termini fisici. Tale concezione si radica nel fisicalismo,o tesi della completezza della fisica, tesi secondo la quale la fisica dei costituenti ultimi dell’universo esaurisce tutta la verità sul mondo. In biologia, il fisicalismo significa che ogni sistema biologico (organismo), per quanto complesso, è costituito solamente da un insieme di entità fisiche. Esso si avvale della nozione di sopravvenienza: per sostenere che un organismo è un oggetto fisico bisogna affermare che le sue proprietà biologiche sopravvengono su quelle fisiche. Secondo la definizione di sopravvenienza, P sopravviene su Q quando le proprietà di Q determinano P, ma non viceversa; ciò equivale a dire che due oggetti fisicamente identici devono avere le stesse proprietà biologiche ma, naturalmente, due oggetti con le stesse proprietà biologiche possono differire quanto alla loro costituzione fisica. La sopravvenienza è necessaria affinché si possa parlare di fisicalismo ma non è sufficiente per consentire la possibilità di una riduzione.

Il riduzionismo epistemologico – di cui quello ontologico è condizione necessaria ma non sufficiente – concerne la riduzione di un dominio scientifico ad un altro; esso si basa sull’idea che ridurre significa derivare le leggi ad un livello superiore dalle leggi che governano il livello inferiore. Secondo il riduzionismo epistemologico, teorie e leggi in un determinato ambito scientifico non sono altro che casi particolari di teorie e leggi formulate in settori scientifici diversi e più essenziali. Alla base di questa concezione riduzionista troviamo la tesi della gerarchia delle scienze, basata a sua volta su una concezione gerarchica della natura: alla base della realtà vi sarebbero le particelle elementari, seguite da atomi, molecole, cellule, esseri viventi multicellulari e gruppi sociali. Diretta conseguenza del fisicalismo, questa gerarchia delle entità riflette, a sua volta, la gerarchia delle rispettive scienze: la biologia sarebbe derivabile dalla biologia molecolare la quale sarebbe a sua volta derivabile dalla chimica e, questa, dalla fisica. In tal modo, si legittima la possibilità di una riduzione di tutte le scienze alla fisica, negandone l’esistenza come discipline autonome. Il riduzionismo epistemologico può anche essere espresso attraverso la relazione logica tra teorie: concependo le teorie come sistemi di enunciati esplicitamente formulati, un riduzionista epistemologico sostiene che ridurre una teoria T2ad una teoria T1 significa dedurre gli enunciati di T2 da quelli di T1. Nell’ambito della biologia, il riduzionismo epistemologico si traduce nell’idea che le verità della biologia debbano essere radicate in teorie fisiche in grado di correggerle e rafforzarle, renderle più accurate e complete. Le verità della biologia, quindi, discendono dalla fisica e devono essere ad essa riducibili; quando ciò non accade, è solo a causa dei nostri limiti cognitivi-computazionali.

Veniamo, infine, al terzo significato di riduzionismo: il riduzionismo metodologico. Anch’esso è di stampo analitico e sostiene che qualunque insieme possa essere scomposto in parti e che le proprietà delle parti singolarmente prese siano sufficienti a dar conto delle proprietà dell’insieme. Un riduzionismo così inteso sarebbe parte di un paradigma meccanicista, paradigma nel quale l’universo è assimilato ad una macchina il cui comportamento è comprensibile attraverso lo studio delle parti. Secondo il riduzionismo metodologico, quindi, il modo più fruttuoso di indagare un fenomeno è guardare ai suoi costituenti ultimi. In biologia, ciò significa che, per quanto un organismo possa essere complesso, lo studio dei suoi costituenti microscopici sarà sufficiente a garantirne una spiegazione completa. La migliore spiegazione di qualunque fenomeno biologico sarà quindi quella che ne rivela i fenomeni chimici e fisici sottesi. Il successo della biologia molecolare nello scoprire le basi dei processi genetici fondamentali e la scoperta del codice genetico dimostrerebbero che l’organismo non è altro che un insieme di molecole e giustificherebbero la fiducia nella capacità dell’indagine molecolare di spiegare tutti i fenomeni biologici.

Il riduzionismo ontologico è il presupposto per quello epistemologico e metodologico. Questi ultimi, però, non sono conseguenze necessarie del primo; né il riduzionismo epistemologico deriva dalla congiunzione di quello ontologico e metodologico.

Richard Lewontin (n.1929).
Nessuno mette in dubbio il riduzionismo ontologico; la possibilità di un riduzionismo epistemologico e metodologico, invece, è oggi sempre più discussa nonostante il nuovo impulso ricevuto a seguito della nascita della genetica molecolare. Da una parte, infatti, quest’ultima sembra fornire il tipo di leggi-ponte richieste da un riduzionismo interteorico per collegare la biologia al dominio della chimica e della fisica: la possibilità di esprimere le leggi della biologia in termini chimico-fisici ridurrebbe finalmente la biologia a branca della fisica, dando compimento all’unificazione delle scienze. D’altra parte, i successi predittivi ed esplicativi della genetica molecolare confermerebbero la validità del genocentrismo, legittimando lo studio a livello microscopico come il più fruttuoso ai fini dell’indagine del mondo del vivente. La possibilità di un programma di riduzione sembra quindi passare attraverso i progressi della genetica molecolare.

Ma la genetica molecolare fornisce effettivamente il supporto empirico per la riduzione. Oggi, una simile affermazione è messa sempre più in discussione. Il problema del riduzionismo è in effetti quello di non riuscire a dar conto dei sistemi biologici poiché molti aspetti del loro funzionamento sono impossibili da descrivere esclusivamente nel linguaggio delle scienze fisiche. Sebbene, cioè, un approccio analitico (quale quello tipico del riduzionismo) possa portare un contributo alla comprensione delle entità della biologia, non bisogna dimenticare l’importanza dell’approccio sintetico: un sistema è più della somma delle parti in quanto la complessità della loro relazione è impossibile da spiegare solo in base ai componenti microscopici. In un sistema biologico emergono proprietà nuove non deducibili da quelle delle sue componenti e comprensibili solo in una prospettiva dall’alto in basso (top-down), guardando, cioè, alle interazioni delle molecole tra loro e delle molecole stesse con il sistema che vanno a comporre. Queste osservazioni stanno dando luogo a diverse posizioni antiriduzioniste.

La posta in gioco nel dibattito sul riduzionismo è, da una parte, quella dell’autonomia della biologia come disciplina scientifica e, dall’altra, quella della peculiarità degli organismi viventi; sistemi, questi ultimi, di cui è impossibile capire il funzionamento sulla base di una mera indagine dei loro costituenti. La sfida è pertanto quella di una scienza che – senza perdere la fiducia nella propria capacità di conseguire la verità – sappia riconoscere l’insufficienza dei meccanismi biochimici nel rivelare il mistero della vita: «Oggi è assolutamente palese che neppure una conoscenza esaustiva di protoni, neutrini, quark, elettroni e qualsivoglia altra particella elementare esistente potrebbe fornirci il benché minimo aiuto per spiegare le origini della vita [...]»1.

Nota bibliografica: per un approfondimento del dibattito cfr. gli scritti di R. Lewontin; in particolare Lewontin, R. Gene, organismo, ambiente, Laterza, Roma-Bari, 2002, tr. it. a cura di B. Tortorella (ed. or. The triple helix: gene, organism, environment, Harvard University Press, 1998).


1 Mayr, E. L’autonomia della biologia, Sull’autonomia di una disciplina scientifica, tr. it. a cura di C. Serra, Cortina Raffaello editore, Milano, 2005 (ed. or. What makes biology unique. Considerations on the Autonomy of a Scientific Discipline, Cambridge University Press, 2004), p. 76.