Garibaldi ferito per ordine del Re: ambiguità risorgimentali


“Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…”, quante volte sul ritmo della carica dei bersaglieri abbiamo canticchiato, da bambini, questo motivetto. La sua diffusione e i 150 anni di storia unitaria che ha attraversato indenne, sono certo imputabili all’orecchiabilità e alla sua facilità di memorizzazione, tuttavia essa testimonia tutta quanta l’impressione che potè generare nell’immaginario del popolo (il quale non dedicò ballate a nessun altro evento del Risorgimento) un fatto come il ferimento di Garibaldi, ritenuto, all’epoca, un eroe indiscusso, l’eroe dei due mondi. Il motivo di tanta impressione oltre che nel ferimento, una cosa normalissima per un militare ma non per un uomo, ritenuto come ogni eroe quasi invulnerabile, sta nel mandante di esso: il Regno d’Italia. Fu infatti l’esercito regolare dello Stato ad arrestare sull’Aspromonte, quel 29 agosto 1862, la marcia verso Roma di due mila volontari al seguito del generale che, appena due anni prima, in circostanze analoghe aveva conquistato il Regno delle Due Sicilie. Certo, l’immagine del ferito Garibaldi appoggiato ad un pino con un toscanello in bocca che dichiara la resa, anche se di eroico ha poco, a ben vedere, connotandolo come nemico del Regno, è molto più onorevole, per un dichiarato repubblicano, di quella del mercenario al soldo della monarchia sabauda e del moderato Cavour, cucitagli addosso dall’incontro di Teano in cui, remissivamente, disse “Obbedisco!” a Vittorio Emanuele II. Tuttavia l’unità di intenti tra il governo di Torino e il generale di Caprera, testimoniata qualche anno più tardi dalla zelante partecipazione di Garibaldi alla Terza Guerra d’Indipendenza nonché al tentativo, fallito a Mentana, di conquista dello Stato Pontificio nel 1867, mostra le ambiguità sottese all’incidente dell’Aspromonte e agli eventi che ad esso, febbrilmente, portarono.
Garibaldi si era imbarcato per la Sicilia a fine giugno su una nave della marina regia, non si sa bene per quale ragione. Probabilmente doveva portare a termine un “lavoretto” per Sua Maestà: a marzo Vittorio Emanuele II gli aveva commissionato una delicata operazione militare che per poco non rischiò di portare l’Italia in una terribile guerra contro Regno Unito, Francia e Austria. Garibaldi e i suoi volontari dovevano far sì che scoppiasse una crisi nei Balcani perché fosse rimessa in discussione la questione territoriale sulle terre appartenute all’Impero Ottomano, per favorire l’ascesa sul trono greco del figlio di Vittorio Emanuele, Amedeo di Savoia. Minacciato da Napoleone III, per evitare la frittata, il re mise in scena una farsa simile a quella dell’Aspromonte: fece arrestare i garibaldini a Sarnico, al confine con l’Austria, con una scusa, per poi rimetterli in libertà in nemmeno un mese. Salvata la faccia, si optò per il piano B: dalla Sicilia, Garibaldi, doveva poi giungere in Grecia e lì scatenare una rivoluzione perché Amedeo s’insidiasse al trono. Tuttavia il progetto savoiardo di allargare la propria influenza sull’Europa Mediterranea, incontrò un nuovo e definitivo ostacolo nei festeggiamenti con cui il generale nativo di Nizza venne accolto a Marsala, appena due anni dopo la spedizione dei Mille. Qualcuno tra la folla gridò “O Roma, o morte!”e Garibaldi non ci pensò due volte a declinare la missione greca per un più ambizioso tentativo di marcia sullo Stato Pontificio, come dichiarò pubblicamente. Da buon massone, ricevette anche notevoli fondi da parte di alcune logge protestanti che lo finanziarono al fine non solo di prendere Roma, ma anche di distruggere per sempre la Chiesa Romana. 
Il re, che dopo la morte di Cavour, aveva fortemente ridimensionato il ruolo del Parlamento ed esercitava il proprio potere in modo pressoché incontrollato, non mosse un dito dinanzi il reclutamento di volontari da parte di Garibaldi per tutto il mese di luglio, sperando di poter approfittare come due anni prima, delle conquiste garibaldine. Solo ad agosto, prese le distanze dall’iniziativa senza però intervenire energicamente come dimostrò l’immobilismo della Marina Regia alla partenza dei due mila volontari garibaldini verso Reggio Calabria. A Garibaldi venne permesso di attraversare lo stretto, rinviando lo scontro a fuoco sulla terraferma, dove il rischio di eccessive perdite era scongiurato (all’Aspromonte morirono solo 12 uomini). Si giunse così al 29 agosto quando, alle 4 del pomeriggio, la “fuga” di Garibaldi ebbe fine: un risibile scontro durato 10 minuti sancì la sua resa e quella dei 1500 volontari rimasti a sua disposizione. Il motivo dell’improvviso voltafaccia del re e del perentorio ordine alle truppe regolari di arrestare la marcia di Garibaldi non fu dovuta alla devozione di Vittorio Emanuele II, preoccupato dalla possibile fine del potere temporale del papato, ma alle minacce di Napoleone III. Questi non fece mistero che, qualora Garibaldi avesse preso Roma, l’esercito francese sarebbe andato a restituire la Città Eterna al suo legittimo proprietario, Pio IX, ricordando al re sabaudo che la strada che dalla Francia porta a Roma, passa per il Piemonte... L’amnistia concessa alla prima occasione utile, il matrimonio di Maria Pia di Savoia il 5 di ottobre, al claudicante Garibaldi, al quale il proiettile dal malleolo della gamba destra venne tolto solo il 23 novembre, e la mancata punizione degli ufficiali della marina che non ostacolarono il generale, dimostrarono alle diplomazie europee che quest’ultimo non aveva agito all’insaputa del re, ma con la sua tacita complicità. 
Un intrigo rispetto alla quale ogni scandalo della politica odierna impallidisce: un re che oltre ad anteporre il proprio interesse familiare a quello della patria - che Vittorio Emanuele considerasse l’Italia un feudo del Piemonte è dimostrato dal fatto che rimase fedele alla numerazione con la quale era divenuto re di Sardegna, anziché assumere il nome di Vittorio Emanuele I, in quanto primo re d’Italia – non si fa scrupolo, nonostante le dichiarazioni di facciata, di ricorrere alle violenze di un manipolo di facinorosi per ottenere vantaggi territoriali e un sedicente liberatore dei popoli, quale Garibaldi, che esegue deferente gli ordini del sovrano sabaudo quando non agisce al soldo della massoneria cosmopolita. A 150 anni di distanza, l’incidente dell’Aspromonte appare come la chiave per una veritiera demitizzazione del Risorgimento, il quale, se,  a livello culturale, innegabilmente fu un movimento di tenore sublime capace di mobilitare le menti più brillanti del secolo XIX, dal punto di vista politico, non mancò certo di contraddizioni ed ingerenze estere che compromettono quella valenza di assoluta affermazione della volontà popolare che gli si è voluto attribuire. La giornata dell’Aspromonte inoltre, restituendocene un’immagine debole e dolorante, riporta Garibaldi, da sempre l’eroe, su un piano fortemente umano: l’abisso tra la gagliardezza delle effigi presenti nelle piazze d’Italia e la figura di un ferito che fuma il sigaro, mentre aspetta la resa, appoggiato ad un albero, fa riflettere sulla distanza tra l’effettiva caratura degli uomini che fecero il Risorgimento, adulteri, come Vittorio Emanuele, malati del gioco, come Camillo Benso, massoni, come Garibaldi, e l’edulcorata immagine di Padri della Patria che gli è stata costruita addosso, per nobilitare come unificazione d'Italia ciò che, invece, non fu nulla di più di una conquista sabauda della penisola.

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