Patti Lateranensi: le nozze senza amore tra il duce e il papa



Ci sposiamo senza amarci. Ci separeremo al più presto.” Così Don Primo Mazzolari, il profetico parroco di Bozzolo, commentò il Concordato firmato l’11 febbraio 1929 nel Palazzo Lateranense dal Duce d’Italia Benito Mussolini e dal Cardinal Segretario di Stato della Santa Sede Pietro Gasparri. Dopo quasi 60 anni dalla breccia di Porta Pia, la spinosa questione romana veniva risolta con il riconoscimento dello Stato Italiano da parte della Santa Sede. Questa, dal canto suo, al di là della conferma delle famose Guarentigie, dell’autonomia territoriale delle principali basiliche romane, di una congrua dello Stato Italiano al clero, ottenne che la Religione sarebbe stata fondamento e coronamento dell’Istruzione, in linea con le volontà di Pio XI al quale più che la questione romana, interessava la questione giovanile. Per il Santo Padre assicurarsi la formazione delle nuove generazioni, che il Fascismo avrebbe cresciuto come dei conquistatori, ben valeva il compromesso con un uomo quale Mussolini, come spiegò con la massima “pur di salvare un’anima, tratterei anche col diavolo”. Il duce, d’altro canto, aveva alle spalle una lunga carriera di anticlericale: oltre a non aver mai mostrato alcun accenno di Carità Cristiana, ateo furibondo, nato socialista, durante la Prima Guerra Mondiale aveva accolto irriverentemente la consacrazione dell’Esercito Italiano al Sacro Cuore. 
In gioventù Mussolini aveva scritto il romanzaccio impegnato “Claudia Particella, l’amante del cardinale” e nel programma di San Sepolcro non aveva omesso di proporre il c.d. “svaticanamento”: abolizione delle Guarentigie, confisca di tutti i beni ecclesiastici e gentile invito al Santo Padre di “sloggiare” ad Avignone. Poi lo scapestrato anarchico si accorse che in un’Italia in crisi valoriale, l’unica idea universale era quella della Chiesa: cancellò lo “svaticanamento” dal programma del PNF e in Parlamento nominò persino Dio, cosa mai avvenuta nel Parlamento del Regno, da sempre laico. Da Primo Ministro, fece rimettere il Crocifisso nei pubblici uffici e nelle scuole, varò una serie di norme filo-ecclesiali fino ad arrivare alla firma dei Patti quell’11 febbraio ’29. Certo una bella promozione per un tipo così passare da anticlericale convinto a “uomo della Provvidenza”, peccato che il papa non lo definì mai in questo modo, Pio XI, parlando il 13 febbraio del Concordato appena concluso con gli allievi dell’Università Cattolica disse: “E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare (Mussolini nda); un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, […] erano altrettanti feticci brutti e deformi.” Dalle parole del pontefice si comprende che il Concordato, se matrimonio fu, lo fu d’interesse, certamente senza sentimento. Mussolini era alla ricerca di consensi, quelli dei cattolici, la Chiesa doveva garantirsi l’educazione della gioventù, allarmata dal tono militaresco dell’istruzione fascista; quale delle due parti fece il miglior affare era evidente: i Cattolici rimasero afascisti se non anti, come dimostra la loro partecipazione attiva alla Resistenza, la Chiesa, invece, si assicurò la fruttifera formazione della futura classe dirigente democristiana. Tuttavia anche a breve termine, il successo dell’abile diplomazia vaticana apparve così evidente che Mussolini, per paura di dimostrare di aver troppo concesso, nella primavera di quello stesso 1929 aprì il serratissimo scontro del dopo-Conciliazione tra il Fascismo e la Chiesa. Con il tono blasfemo, proprio dei suoi trascorsi socialisti, il duce definì il Cristianesimo “una delle tante sette generatesi nel clima rovente della Palestina” la quale, a suo dire, probabilmente si sarebbe spenta senza lasciare traccia di sé, se non fosse giunta a Roma, un’affermazione oltre che inesatta per il semplice dato storico che la Chiesa prima di arrivare a Roma già fioriva in Oriente, grazie alla testimonianza degli Apostoli, inaccettabile per il modo in cui riduceva la Verità Rivelata a una sètta paragonabile a quella degli Essèni. 
La risposta del papa che, legittimamente, attribuì il giudizio di Mussolini alla sua ignoranza, non si lasciò attendere. Il duce tornò alla carica ostentando gli attacchi squadristi all’Azione Cattolica e dichiarando di mantenere sotto controllo il clero secolare e regolare, quasi si trattasse di pericolosi delinquenti. Nel 1931, il papa rispose a Mussolini, che aveva fatto chiudere 5 mila circoli cattolici maschili e 10 mila femminili, con la scusa che fossero ritrovi di ex-popolari (scusa ridicola dato che si trattava di gruppi giovanili), con l’enciclica “Non abbiamo bisogno” (il cui titolo non può che risuonare come un’ironica allusione al motto del duce “Me ne frego”). Nel passo centrale di questa lettera la dottrina fascista veniva definita “una vera e propria statolatria pagana, in contrasto con i diritti soprannaturali della Chiesa...”. Mussolini minacciò rastrellamenti anticlericali ma poi accettò di riaprire i circoli chiusi. Tre anni dopo, le opere del filosofo di regime, Giovanni Gentile, il quale aveva cercato di rintracciare l’origine del patologico militarismo fascista nei Vangeli, vennero messe all’Indice: non era passato nemmeno un lustro, ma il Concordato della Conciliazione era ormai storia passata. In un momento nel quale il democratico Churchill in visita in Italia affermava “se fossi Italiano, penso che sarei fascista” e il buon Palmiro Togliatti si appellava ai fascisti come “ai fratelli in camicia nera”, la Chiesa era l’unica idea universale - per dirla con le parole di Mussolini - in contrasto ideologico totale con un regime, che si era lasciato battezzare vedendo nella Fede Cattolica, nulla più che uno dei prodotti nazionali, da valorizzare in tempo di autarchia. Dinanzi uno Stato totalitario, privo di libertà di pensiero e mosso dalle chimere della retorica mussoliniana, Pio XI scrisse “Io mi vergogno… Io non come papa ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide.”, un attacco mosso dallo stesso spirito con cui il papa definì ogni Cristiano, semita nella fede, a proposito delle leggi razziali, o si ritirò a Castelgandolfo in occasione della visita di Hitler a Roma nel maggio ’38 e dell’annessa apoteosi tributata dal regime a una croce (quella uncinata) nemica della croce di Cristo
La vetusta immagine di Pio XI, ritiratosi sdegnato a  Castelgandolfo, mentre, a Roma, il regime si autocelebrava nella vuota esteriorità delle sfilate della Morte, illustra chiaramente l’alterità tra Cristianesimo e Fascismo, mostrando che il Vangelo della Carità e della donazione incondizionata al prossimo non è conciliabile con la violenza insita in una dottrina squadrista: al massimo può trattare con essa, come farebbe col diavolo in persona, per strappargli qualche anima. 

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