Retroscena Churchill - Mussolini: un accordo segreto portò in guerra l'Italia


“Combattenti di terra, di mare, e dell'aria. Ascoltate! [...] La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia [...] La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: VINCERE! E VINCEREMO, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo” Con queste parole Benito Mussolini, annunciò alla nazione l’entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’alleato tedesco, il 10 giugno 1940. 
Una decisione le cui motivazioni materiali vanno cercate più nella necessità oggettiva che nel Patto d’Acciaio, giacchè il sodalizio ideologico lasciava il tempo che trovava dinanzi il pangermanismo di Hitler, o nel famoso “Mi serve un migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace”, riportata ai posteri dal famigerato Maresciallo Badoglio. L’entrata in guerra, di cui spesso, dalle pagine dei libri di Storia in primis, si accusa Mussolini, era, a ben vedere, inevitabile dato che la neutralità in caso di vittoria tedesca (come nel giugno ’40 era immaginabile) sarebbe costata all’Italia la marginalizzazione dal suo ruolo di piccola potenza, messo in evidenza a Stresa, Locarno e Monaco, nonché la rinuncia ad ogni vantaggio territoriale, parimenti, una vittoria inglese con la conseguente disfatta del nazismo, avrebbe certamente messo in discussione   l’esistenza stessa del fascismo, senza che questo avesse sparato almeno un colpo per la causa del totalitarismo in Europa. Se le particolari contingenze storiche mostrano poca incertezza sull’opportunità dell’entrata in guerra dell’Italia, escludono ogni dubbio su chi dovesse essere il suo alleato: la Germania nazista, cui era vincolata dal sopracitato Patto d’Acciaio, firmato da Von Ribbentrop e Galeazzo Ciano pochi mesi prima dell’inizio del conflitto. Tuttavia, l’avvio delle campagne belliche dell’Impero Italiano, fu tutt’altro che quello di un Paese, deciso a dare delle decise operazioni dimostrative sulla scena internazionale, per poter mostrare il proprio peso nella vittoria, al tavolo della pace. Ai soldati posti al confine con il nemico francese venne ordinato: - Se si incontrano forze francesi non essere i primi ad attaccare; non sorvolare il territorio francese; nessun reparto dovrà varcare il confine; restare a 10 km. dal confine -. 
In chiave anti-britannica, l’Italia che pure disponeva di una discreta flotta, tanto che Mussolini aveva meritato, nella primavera del ’40, l’epiteto di “arbitro del Mediterraneo” proprio dall’inglese Times, non si mosse affatto. Liberatosi il fronte tunisino dopo la resa della Francia (14 giugno 1940), le truppe di Balbo e Graziani non tentarono nemmeno un attacco in Africa Orientale, dove il generale Wawel difendeva un fronte lunghissimo (Kenia, Somalia, Sudan, Egitto ecc..) con forze ridotte all’osso. L’immobilismo italiano anche nella guerra marina, farà scrivere all'ammiraglio Andrew Cunningham, comandante in capo della flotta britannica nel Mediterraneo: «se la forza italiana avesse agito con maggior decisione ed avesse attaccato le navi inglesi certamente si sarebbe assicurata il dominio del Mediterraneo (…) Sarebbe bastato che alcuni mercantili carichi di cemento o di esplosivo si fossero affondati nel canale di Suez o davanti al porto di Alessandria, per paralizzare le operazioni navali britanniche (…) Ma poi se dopo la disfatta della Francia gli italiani avessero attaccato con le corazzate e con gli incrociatori noi avremmo dovuto ritirarci». Un episodio marginale, ma significativo,  toglie ogni dubbio sull’intenzionalità della mollezza bellica italiana: al generale di squadra aerea Santoro venne inflitto, dallo Stato Maggiore, un severo monito per aver ordinato, all'inizio delle ostilità, che una grossa formazione di bombardieri attaccasse Malta. E proprio contro Malta, che gli inglesi in quel momento temevano di perdere, non si fece assolutamente nulla. Questa stessa tregua, insperata per l'isola-fortezza britannica si rivelò, in seguito, fondamentale per lo sbarco alleato in Sicilia. Le ragioni di questa remissibilità, vanno ricercate nei mesi immediatamente precedenti l’entrata in guerra. Mussolini, che anche nel ’38 si era messo in mostra a Monaco come mediatore tra Hitler e la democrazia occidentale, non si sottrasse a quel doppiogiochismo fatto di scambi diplomatici, rigorosamente segreti, con il nemico designato, che aveva accompagnato l’Italia anche prima della I Guerra Mondiale. Il duce, in tal senso, sfruttò la propria amicizia fatta di una fitta corrispondenza con Winston Spencer Churchill, divenuto nel maggio ’40 Primo Ministro Britannico. Nelle lettere tra i due di quel periodo, consiste il famoso carteggio che Mussolini considerò tanto importante da portarlo con sé, fino alla cattura avvenuta a Dongo nell’aprile ’45. Documenti che riteneva capaci di rovesciare le carte sul tavolino della Storia, capaci cioè di dimostrare le reali ragioni che spinsero l’Italia alla Guerra e così garantirgli l’assoluzione dalla colpa di aver condotto il Paese nel baratro della disfatta. Il carteggio è rimasto top-secret, giacchè pochi mesi dopo la guerra, l’originale venne restituita al buon Churchill che fu molto sollecito nel cancellarne ogni traccia mentre un’altra copia venne consegnata ad Alcide De Gasperi, Primo Ministro all’epoca dei fatti.
Ciononostante dalle testimonianze dello storico Renzo De Felice e di Luigi Carissimi-Priori, si evince che le 62 lettere autografe di Mussolini e Churchill contenessero un accordo anglo-italiano: lo statista inglese chiedeva l’entrata in guerra dell’Italia per contenere le richieste tedesche al tavolo della pace. Anziché le classiche concessioni territoriali in cambio della neutralità – annessioni che la Germania non avrebbe certo accordato all’Italia che non aveva nemmeno sparato un colpo – Churchill propose a Mussolini una vera e propria farsa: Italia e Regno Unito avrebbero combattuto con un atteggiamento puramente dimostrativo, senza alcuna azione veramente seria (come telegrafò il duce a Vittorio Emanuele III e come confermarono le manovre italiane nell’estate ’40). Mussolini avrebbe potuto sedere da vincitore al tavolo della pace, Churchill avrebbe potuto contare sul ruolo di mediatore del duce. In realtà questo accordo aveva l’unico scopo di garantire a Churchill, il quale se avesse voluto veramente una pace vantaggiosa avrebbe potuto firmarla già all’indomani di Dunkerque, senza ricorrere all’amico Benito, un allargamento del conflitto (tutelandosi al contempo dall’incorrere nel rischio di essere impegnato seriamente), per poter indurre gli Stati Uniti all’entrata in guerra al proprio fianco: un delitto perfetto che più da quella del leader conservatore britannico sembra esser nata dalle menti di un’Agatha Christie o del maestro del brivido, Alfred Hitchcock. La distruzione del carteggio, con la complicità del PCI, che, entrato in possesso dei documenti a Dongo, mal vedeva una possibile riabilitazione storica di Mussolini, liberò Churchill da ogni prova di un inganno che certo ne avrebbe compromesso l’immagine e la credibilità a livello internazionale. D’altro l’inevitabilità dell’intervento e la scarsezza bellica italiana, non potevano che allettare un opportunista incallito come Mussolini al quale, per scoprire la reale natura della proposta, sarebbe servito di essere domiciliato anziché a Palazzo Venezia, al 221 di Baker Street.

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