Auguri di Buona Pasqua!


"Cari fratelli e sorelle!
Cristo risorto cammina davanti a noi verso i nuovi cieli e la terra nuova (cfr Ap 21,1), in cui finalmente vivremo tutti come un’unica famiglia, figli dello stesso Padre. Lui è con noi fino alla fine dei tempi. Camminiamo dietro a Lui, in questo mondo ferito, cantando l’alleluia. Nel nostro cuore c’è gioia e dolore, sul nostro viso sorrisi e lacrime. Così è la nostra realtà terrena. Ma Cristo è risorto, è vivo e cammina con noi. Per questo cantiamo e camminiamo, fedeli al nostro impegno in questo mondo, con lo sguardo rivolto al Cielo"

Benedetto XVI
24 aprile 2011
Paqua di Resurrezione

La morte di Dio


All’indomani del giorno in cui, come canta il Petrarca, «al sol si scoloraro per la pietà del suo factore i rai», l’immagine lasciataci dalla liturgia del Venerdì Santo, quella del Cristo morto e sepolto, non ci può esimere da una riflessione sulla “morte di Dio”.
Nietzsche
È celebre l’aforisma 125 della Gaia Scienza, con cui Friedrich Nietzsche annuncia tale evento:
«Non avete mai udito parlare di quel pazzo che in pieno giorno accese una lanterna, corse al mercato e gridò senza tregua: "Io cerco Dio! Io cerco Dio!"? Poiché si trovavano colà molti di quelli che non credono in Dio, il pazzo provocò una grande risata, "Dio è dunque andato perduto?" chiese un uomo. "Si è smarrito come un bambino?" chiese un altro. "O si tiene nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? Ha emigrato?". Così gridavano e ridevano tra loro. Il pazzo saltò in mezzo a loro ficcando in loro lo sguardo. "Dove è andato Dio?" egli gridò. "Io ve lo voglio dire. Noi lo abbiamo ucciso, voi ed io! Noi tutti siamo i suoi uccisori! Ma come abbiamo fatto ciò? Come potemmo bere tutto il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare tutto l'orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando staccammo la Terra dalla catena del suo Sole? In quale direzione ci muoviamo noi? Lontano da tutti i soli? Non precipitiamo noi continuamente? Indietro, da un lato, in avanti, da tutte le parti? C'è ancora un alto e un basso? Non voliamo noi come attraverso un nulla senza fine? Non soffia su di noi lo spazio vuoto? Non fa forse più freddo? Non sopraggiunge continuamente la notte, sempre la notte? Non si devono accendere le lanterne di mattina? Non udiamo ancora nulla del rumore dei becchini che seppelliscono Dio? Non sentiamo alcun odore della putrefazione divina? Anche gli dei si putrefanno! Dio è morto! Dio resta morto! e noi lo abbiamo ucciso! Come possiamo consolarci noi gli assassini di tutti gli assassini? Ciò che di più santo e più potente possedette finora il mondo fu dissanguato dai nostri coltelli. Chi cancella da noi questo sangue? Con quale acqua potremo purificarci? Quali solenni espiazione quali giochi sacri dovremo inventare? La grandezza di questo fatto non è troppo vasta per noi? Non dobbiamo noi stessi diventare Dei, per sembrare degni di quella grandezza? Non ci fu mai un fatto più grande, e chi nascerà dopo di noi apparterrà, a causa di quel fatto, ad una storia più grande di quanto sia stata fatta finora, qualsiasi storia!"... Si racconta ancora che quel pazzo entrò lo stesso giorno in diverse chiese ed ivi intonò il suo "Requiem aeternam Deo"».
Nel passo riportato, benchè non venga esplicitato, il riferimento allo scandalum crucis non è difficile da individuare: prima di tutto, nel riconoscimento del carattere del tutto paradossale della morte della Vita, reso, metaforicamente, dall’enunciazione dell’impossibilità di bere tutto il mare. A tal proposito, non si può non constatare, richiamando il significato letterale dell’espressione latina, da noi usata, per indicare l’evento del Venerdì Santo, che scandalum è ciò in cui si inciampa, nel caso specifico, ciò in cui la ratio inciampa. E, sicuramente, parte dell’ateismo di Nietzsche è imputabile al razionalismo con cui Hegel aveva ridotto la Rivelazione Cristiana ad un “momento” nell’emancipazione dell’Impersonale ed Assoluto Spirito della storia.
Altro elemento che, ricollegandosi direttamente alla Crocifissione del Cristo, al contempo, offre lo spazio per l’originalità dell’autore è l’attribuzione della morte di Dio, l’onnipotente creatore, all’uomo, la creatura. La riflessione filosofica relativa all’Olocausto porrà in rilievo che Dio, nell’aver creato l’uomo libero, ha rinunciato a parte della propria onnipotenza a favore del libero arbitrio umano, tanto da non arrivare ad evitare la sua stessa crocifissione, come lo invitavano a fare gli aguzzini: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto» (Lc 23, 35).
Nietzsche, invece, nell’attribuire l’uccisione di Dio agli uomini del suo tempo, non vuole denunciare il male perpetuato da mano umana - d’altro canto, nel suo nichilismo, il male non può esistere, giacchè manca quel Sommo Bene, solo esistendo il quale, può darsene la negazione in cui il male consiste – intende, viceversa, identificare la morte di Dio con il venir meno del senso del divino nella società, ossia con la secolarizzazione. Si badi che il pazzo dell’aforisma 125 non è profeta di una novità, egli, quale Diogene il Cinico faceva nell’Atene del III secolo a.C. con l’uomo, va alla ricerca di un Dio che, al pari degli altri uomini del racconto, già sa morto, perché, a differenza di questi ultimi, ha capito che senza Dio nulla ha più senso. Non si illude del positivismo, i cui effetti ben li videro gli uomini dell’epoca, nella Grande Guerra, negli orrori dei campi di sterminio, nell’ascesa di Hitler, basata su una concezione atea e materialista, quale quella veicolata dallo scientismo fin de siecle.
Francesco Guccini
Il rifiuto della croce e del mito del progresso, non può che condurre a Dioniso, agli idoli dell’irrazionalità. È significativo, a questo punto, citare il testo di una delle più felici creazioni del cantautore modenese Francesco Guccini, proprio dal titolo “Dio è morto”. La canzone, portata al successo dai Nomadi, subì la bieca censura per blasfemia della Rai, ma non della Radio Vaticana, che scorse in essa - e a ragione – un messaggio, tutt’altro, che contrario alla fede. Possiamo immaginare la voce narrante come quella di un uomo che giunga, un secolo e mezzo dopo, nel medesimo paese in cui era arrivato il pazzo di cui parla Nietzsche nella Gaia Scienza, e che incominci a raccontare:
« Ho visto la gente della mia età andare via
lungo le strade che non portano mai a niente,
cercare il sogno che conduce alla pazzia
nella ricerca di qualcosa che non trovano
nel mondo che hanno già, dentro alle notti che dal vino son bagnate,
dentro alle stanze da pastiglie trasformate,
lungo alle nuvole di fumo del mondo fatto di città,
essere contro ad ingoiare la nostra stanca civiltà
e un dio che è morto,
ai bordi delle strade dio è morto,
nelle auto prese a rate dio è morto,
nei miti dell'estate dio è morto [...]».
Non è necessario violentare, con inutili parafrasi, il testo per scorgere nelle “strade” in cui cercano appagamento gli uomini e le donne di oggi, il triste ed aberrante trionfo del dionisiaco e comprendere che la divinità di cui si annuncia la morte stavolta non è il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», come scrisse Pascal nel suo Memoriale, ma proprio il dio greco di quell’estasi, che non è un’uscita da sé, intesa, come nella tradizione cristiana, quale slancio mistico, ma un abbandono dell’essenza stessa dell’essere uomini, la razionalità.
Alla morte dell’idolo, al termine della canzone, fa da contraltare la Resurrezione del Cristo, quella che ci attende stanotte, quella di cui, come la Vergine, il cristiano porta nel cuore la speranza durante il Sabato Santo della vita e nella quale giace l’unico senso a quest’esistenza di cui l’uomo possa appagarsi.

Governo: nuove consultazioni

Al termine di una delle giornate più convulse e decisive per il nascente governo del nostro Paese, la Gazzetta del PAGO propone i testi integrali delle dichiarazioni dei diversi esponenti politici convocati dal Presidente della Repubblica per il nuovo giro di consultazioni reso necessario dall'incapacità di Bersani di formare un esecutivo capace di ottenere la fiducia nelle camere.

Verso le periferie dell'esistenza

Fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono lieto di accogliervi in questa mia prima Udienza generale. Con grande riconoscenza e venerazione raccolgo il “testimone” dalle mani del mio amato predecessore Benedetto XVI. Dopo la Pasqua riprenderemo le catechesi dell’Anno della fede. Oggi vorrei soffermarmi un po’ sulla Settimana Santa. Con la Domenica delle Palme abbiamo iniziato questa Settimana – centro di tutto l’Anno Liturgico – in cui accompagniamo Gesù nella sua Passione, Morte e Risurrezione.
Ma che cosa può voler dire vivere la Settimana Santa per noi? Che cosa significa seguire Gesù nel suo cammino sul Calvario verso la Croce e la Risurrezione? Nella sua missione terrena, Gesù ha percorso le strade della Terra Santa; ha chiamato dodici persone semplici perché rimanessero con Lui, condividessero il suo cammino e continuassero la sua missione; le ha scelte tra il popolo pieno di fede nelle promesse di Dio. Ha parlato a tutti, senza distinzione, ai grandi e agli umili, al giovane ricco e alla povera vedova, ai potenti e ai deboli; ha portato la misericordia e il perdono di Dio; ha guarito, consolato, compreso; ha dato speranza; ha portato a tutti la presenza di Dio che si interessa di ogni uomo e ogni donna, come fa un buon padre e una buona madre verso ciascuno dei suoi figli. Dio non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi. Gesù ha vissuto le realtà quotidiane della gente più comune: si è commosso davanti alla folla che sembrava un gregge senza pastore; ha pianto davanti alla sofferenza di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro; ha chiamato un pubblicano come suo discepolo; ha subito anche il tradimento di un amico. In Lui Dio ci ha dato la certezza che è con noi, in mezzo a noi. «Le volpi – ha detto Lui, Gesù – le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Gesù non ha casa perché la sua casa è la gente, siamo noi, la sua missione è aprire a tutti le porte di Dio, essere la presenza di amore di Dio.
Nella Settimana Santa noi viviamo il vertice di questo cammino, di questo disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Gesù entra in Gerusalemme per compiere l’ultimo passo, in cui riassume tutta la sua esistenza: si dona totalmente, non tiene nulla per sé, neppure la vita. Nell’Ultima Cena, con i suoi amici, condivide il pane e distribuisce il calice “per noi”. Il Figlio di Dio si offre a noi, consegna nelle nostre mani il suo Corpo e il suo Sangue per essere sempre con noi, per abitare in mezzo a noi. E nell’Orto degli Ulivi, come nel processo davanti a Pilato, non oppone resistenza, si dona; è il Servo sofferente preannunciato da Isaia che spoglia se stesso fino alla morte (cfr Is 53,12).
Gesù non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi. Sulla croce Gesù «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Ciascuno di noi può dire: Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Ciascuno può dire questo “per me”.
Che cosa significa tutto questo per noi? Significa che questa è anche la mia, la tua, la nostra strada. Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù non solo con la commozione del cuore; vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi - come dicevo domenica scorsa - per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore!
Vivere la Settimana Santa è entrare sempre più nella logica di Dio, nella logica della Croce, che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita. E’ entrare nella logica del Vangelo. Seguire, accompagnare Cristo, rimanere con Lui esige un “uscire”, uscire. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la sua misericordia che salva e dona speranza. Anche noi, se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo “uscire”, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana. Ricordate bene: uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi.
Qualcuno potrebbe dirmi: “Ma, padre, non ho tempo”, “ho tante cose da fare”, “è difficile”, “che cosa posso fare io con le mie poche forze, anche con il mio peccato, con tante cose? Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una Messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di “uscire” per portare Cristo. Siamo un po’ come san Pietro. Non appena Gesù parla di passione, morte e risurrezione, di dono di sé, di amore verso tutti, l’Apostolo lo prende in disparte e lo rimprovera. Quello che dice Gesù sconvolge i suoi piani, appare inaccettabile, mette in difficoltà le sicurezze che si era costruito, la sua idea di Messia. E Gesù guarda i discepoli e rivolge a Pietro forse una delle parole più dure dei Vangeli: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Dio pensa sempre con misericordia: non dimenticate questo. Dio pensa sempre con misericordia: è il Padre misericordioso! Dio pensa come il padre che attende il ritorno del figlio e gli va incontro, lo vede venire quando è ancora lontano… Questo che significa? Che tutti i giorni andava a vedere se il figlio tornava a casa: questo è il nostro Padre misericordioso. E’ il segno che lo aspettava di cuore nella terrazza della sua casa. Dio pensa come il samaritano che non passa vicino al malcapitato commiserandolo o guardando dall’altra parte, ma soccorrendolo senza chiedere nulla in cambio; senza chiedere se era ebreo, se era pagano, se era samaritano, se era ricco, se era povero: non domanda niente. Non domanda queste cose, non chiede nulla. Va in suo aiuto: così è Dio. Dio pensa come il pastore che dona la sua vita per difendere e salvare le pecore.
La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie - che pena tante parrocchie chiuse! - dei movimenti, delle associazioni, ed “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione.
Auguro a tutti di vivere bene questi giorni seguendo il Signore con coraggio, portando in noi stessi un raggio del suo amore a quanti incontriamo.

Papa Francesco all'udienza generale
di ieri 27 marzo 2013

La dittatura del pensiero debole: la morte dell'Europa



Domenica Parigi ha rivestito per l’ennesima volta le vesti del guastafeste dei piani del socialista Hollande, portando in piazza quasi un milione e mezzo di persone a difesa di quelli che Papa Benedetto ha definito “valori non negoziabili”: “il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme”. Si tratta di una mirabile sintesi degli argomenti intorno ai quali si è sviluppata una delle questioni di scottante attualità che dimostra inequivocabilmente la mediocrità della nostra informazione, la sua pochezza contenutistica e le sue tristi storpiature ideologiche: si tratta della questione sui diritti agli omosessuali, che, nonostante occupi quotidianamente le prime pagine ed i titoli di giornali e notiziari, non è in realtà di pubblica conoscenza quanto sembrerebbe né tantomeno quanto dovrebbe. Epurando l’argomento da tutti i commenti che possano darne un’errata visione, è ben più semplice e chiarificante esporre semplicemente i fatti con una schietta oggettività, per molti stridente con la disinformazione cui siamo tristemente abituati.

Adrian Smith, dipendente inglese, scrive sul proprio profilo facebook che il matrimonio gay è un’uguaglianza “eccessiva”: viene retrocesso sul posto di lavoro e il suo stipendio decurtato del 40%.
Peter e Hazelmary Bull, albergatori d’oltremanica, affittano camere matrimoniali solo a coppie etero sposate: vengono multati di £3 600.
Angela McCaskill, impiegata universitaria a Washington DC, fa firmare una petizione per proporre ai cittadini un referendum sulla ridefinizione del matrimonio: viene sospesa dal lavoro.
Bill Beales, preside inglese, fa notare la discriminazione presente nel proprio istituto nei confronti di chi difendeva il matrimonio “tradizionale”: sospeso.
Dale McAlphine, predicatore del Nord dell’Inghilterra, predica che l’omosessualità è peccato: arrestato.
Arthur MMcGeorge, autista inglese, propone ai colleghi una petizione sul matrimonio naturale: sanzionato dal datore di lavoro.

L’Università del Texas, grazie al lavoro del suo Dipartimento di Sociologia, ha pubblicato i risultati di una ricerca su un ampio campione di “figli” di genitori omosessuali: i dati della ricerca hanno suscitato un clamore tale da portare all’apertura di un’inchiesta interna a carico del prof. Mark Regnerus, sociologo responsabile dello studio, conclusasi con un comunicato nel quale l’Università confermava che “nessuna indagine formale può essere giustificata sulle accuse di cattiva condotta scientifica presentate contro il professore associato Mark Regnerus riguardo al suo articolo pubblicato sulla rivista Social Science Research”. Viene dunque spontaneo chiedersi che cosa abbia mai scoperto di tanto sensazionale il prof. Regnerus da sollevare le ire di così tante persone. In effetti i dati non sarebbero poi così sconvolgenti se non fossimo abituati ad una vergognosa disinformazione ideologica. Il 12 % dei “figli” di coppie gay pensa al suicidio, contro il 5 % della media “etero”, il 40% è propensa al tradimento (invece del 13%), i disoccupati fra i primi è del 28%, fra i secondi dell’8%. Insomma, non è poi così pregiudizievole ritenere dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino vivere in una famiglia incentrata su una coppia di omosessuali. La scarsissima risonanza riservata al suddetto studio è stata indegnamente accompagnata da una fantomatica cattiva reputazione della stessa Università del Texas, arrivata addirittura a difendere il “folle” ricercatore: la favola disinformativa potrebbe anche sembrare credibile se non fosse per pubblicazioni del calibro di US News and Report, The Economist o Shanghau Jiao Tong Univeristy, che collocano l’Università in questione fra il 35° ed il 67° posto nella classifica mondiale. Il New York Times ha definito la ricerca “rigorosa” in quanto ha fornito dati di gran lunga più attendibili dei precedenti studi, la cui stragrande maggioranza avanzava la teoria della “nessuna differenza” fra figli di coppie gay ed etero. Il campione dello studio non sono infatti le poche migliaia di soggetti della maggior parte degli altri studi, ma l’intera popolazione statunitense, ovvero oltre 300 milioni di persone: ciononostante lo studio è stato tacciato di inattendibilità e l’Università di essere semplicemente retrograda ed ostile all’inevitabile progresso sociale e culturale rappresentato dalla questione delle coppie gay.

Alla luce di quanto esposto non sembra poi così dissennato considerare che la società odierna vive una situazione a dir poco dittatoriale, almeno sotto tre punti di vista: da un punto di vista valoriale, sociale e culturale. La definizione di dittatura corrisponde ad una società in cui una minoranza domina con violenza - fisica o verbale - la maggioranza: appare quindi illuminante  tale definizione applicata all’odierna società, dove - circoscrivendo la situazione al dibattito in analisi - la maggioranza è messa violentemente a tacere in nome di un progresso sociale ancora ben lungi dall’essere dimostrato. Una dittatura valoriale in primis: i “valori non negoziabili” su cui si fonda la nostra millenaria tradizione culturale sono abbandonati e messi all’angolo senza rendersi conto che rappresentano la pietra miliare della nostra cultura. La dittatura diventa così sociale in ogni suo aspetto, da quello etnico a quello finanziario: indipendentemente dai dati appena riportati, esiste un mero fatto indiscutibile dalla scientifica oggettività , ovvero che una coppia omosessuale non può continuare la specie umana. Ecco dunque il presupposto per la dittatura sociale che sta lentamente portando alla morte la cultura europea. Noncurante di un tasso di natalità fra i più bassi al mondo, negli ultimi decenni la nostra società ha preferito impegnarsi in una serie di politiche mirate ad un’uguaglianza di diritti puramente apparente, fondata invero su una discriminazione accertata: tali politiche - è impossibile negarlo - faranno contrarre inevitabilmente in modo drastico la natalità, condannando di fatto il Vecchio Continente ad arrendersi davanti all’immigrazione da parte di paesi che - guarda caso - si difendono a denti stretti dagli omosessuali. L’Europa è dunque destinata a soccombere, con i suoi valori, ai colpi inferti dal pensiero debole, tristemente canonizzato anche in quest’ambito dalla Conferenza del Cairo prima e di Pechino poi: si avvicina dunque il tracollo contemporaneo della civiltà che su tali valori fonda le proprie basi e della stessa popolazione autoctona europea che di tali valori si è sempre fatta portatrice.

Lo stile paga


Il PDL c’è ed ha intenzione di farsi sentire. Ecco il messaggio forte e chiaro che rimane nella politica italiana dopo il pomeriggio di sabato. Grandi manifestazioni a Roma, con la contrapposizione a distanza fra il “popolo viola” che ha chiesto l’ineleggibilità di Berlusconi e gli stessi sostenitori del Cavaliere, con Piazza del Popolo gremita da bandiere del PdL: inutile constatare che - se voleva esserci competizione fra le due, la vittoria è andata all’adunata contro l’oppressione tributaria, giudiziaria e burocratica convocata dall’ex-premier. Una vittoria schiacciante, non solo nei numeri, ma anche nei contenuti e nei modi.

Fin dall’organizzazione delle rispettive manifestazioni emerge un atteggiamento ben diverso fra le due manifestazioni: il Cavaliere aveva annunciato di voler utilizzare Piazza San Giovanni per l’evento di sabato, ma il Popolo Viola ha chiesto al Comune la piazza per la propria manifestazione, salvo poi rinunciare per accontentarsi della ben più modesta piazza Santi Apostoli. Un comportamento scorretto condannato anche dal Campidoglio, che ha chiesto all’avvocatura di verificare se sia possibile procedere per vie legali nei confronti di chi ha creato grave disagio alla città.

Altro punto a favore della manifestazione dallo slogan “Tutti con Silvio per una nuova Italia” è rappresentato dall’organizzazione logistica: il PdL ha difatti organizzato a sue spese un’intensificazione delle corse di autobus, metro e tram nelle fasce orarie coinvolte, oltre a pullman dalle diverse città che non creassero disagio all’interno del Raccordo. Una lezione di stile, insomma, se paragonata ad episodi come quelli risalenti a due anni fa, quando in occasione della fiducia al Governo Berlusconi, le manifestazioni a Roma fecero gravare sui contribuenti italiani la nmodica cifra di 20 milioni di euro, senza dimenticare le stesse proteste NO TAV fomentate addirittura da parlamentari a 5 Stelle che obbligano lo Stato a pagare Esercito e Forze dell'Ordine per proteggere operai che non fanno altro che il proprio lavoro. Atac ha confermato di aver accettato ben volentieri l’offerta del partito, che non solo ha rimpinguato le casse non propriamente stracolme dell’Atac, ma si è anche fatto carico delle spese dei servizi straordinari dovuti alla manifestazione, compresi “il ripristino del decoro urbano della piazza e al pagamento del piano sanitario predisposto per la sicurezza dei partecipanti alla manifestazione per garantire il regolare afflusso e deflusso dei manifestanti”, come si legge nella nota sul sito del PdL.

Una lezione di stile, si diceva. Nei confronti di quasi tutte le manifestazioni degli ultimi anni che, indipendentemente dal colore politico, hanno avuto come comune denominatore un’immane spesa per le casse dello Stato e dell’Amministrazione se non addirittura gravi danni a patrimoni artistici di incalcolabile valore - si pensi alla stessa Piazza del Popolo devastata nel dicembre 2010... Berlusconi dunque si conferma quello che è sempre stato da 19 anni a questa parte: che lo si ami o lo si odi è innegabile sola una cosa. È un Cavaliere.

La storia vestita di bianco


Roma e San Pietro. San Pietro e Roma. Un binomio indissolubile che ha fatto dell’Urbe la Città Eterna, spazzando in un solo giorno la cultura pagana radicando quella cristiana prima e cattolica poi, eterizzando nel tempo il proprio ruolo nella storia. Da quel giorno di quasi duemila anni fa - forse il 29 giugno 67 - in cui l’apostolo Pietro trovò la morte nella città degli imperatori, Roma è stata sempre protagonista della storia della Chiesa universale e, dunque, del mondo. Roma è diventata la Storia - con la “s” maiuscola - perché alla momentanea istituzione dell’Impero si è sostituito quella eterna ed universale delle Chiesa. Una storia che da più di cinque secoli veste di bianco, da quando, nel 1566, Papa Pio V decise che il colore dell’abito papale dovesse essere lo stesso di quello dell’ordine domenicano cui apparteneva: da allora si sono succeduti 41 papi, fino a Papa Francesco, vestiti di talare bianca. Ma mai nella storia si erano incontrate due talari bianche. Mai prima di sabato scorso.

Proprio sabato la Chiesa di Roma, nella figura del suo Vescovo, ha scritto la storia, con un evento unico, al pari degli eventi che negli ultimi mesi la stanno vedendo protagonista. L’immagine che la giornata di sabato ha consegnato alla storia è senza dubbio quella del Papa Regnante Francesco che prega al fianco del suo predecessore il Papa Emerito Benedetto, inginocchiati allo stesso banco della Cappella della Residenza Pontificia di Castelgandolfo: un evento toccante, tanto quanto il tenero affetto manifestato dai due sin dalla discesa di Papa Francesco dall’elicottero. Il Papa Emerito, nonostante il peso degli anni che da un mese a questa parte sembra gravare sempre più su Papa Ratzinger, ha accolto il suo successore direttamente all’Eliporto, offrendosi così alle telecamere per la prima volta dopo l’ultimo commuovente saluto ai fedeli, la sera del 28 febbraio dalla finestra dello stesso Palazzo di Castelgandolfo. Un abbraccio fraterno, sincero e spontaneo, come a voler dimostrare alle tante voci diffusesi ultimamente che la presunta rivalità fra i due è - appunto - tale: semplicità e sincerità, ecco che cosa hanno trasmesso quelle storiche immagini. Semplicità nei gesti, per nulla formali, e sincerità nelle parole: “è la Madonna dell’Umiltà” dice Papa Francesco a Benedetto presentando il suo dono “ed ho subito pensato a lei”. E Papa Benedetto prende le mani del suo successore, le stringe, ringrazia. Semplici e sinceri. Ecco i due Papi che hanno scritto la storia. La storia vestita di bianco.

Le ombre rosse sul massacro delle Fosse Ardeatine


Roma, 23 marzo 1944. Si consuma l’antefatto dell’immane eccidio nazista delle Fosse Ardeatine, nel quale vennero giustiziate 335 persone, tra cui ebrei, un sacerdote cattolico, artisti, diplomatici, autisti, avvocati, ferrovieri, impiegati, merciai ambulanti, medici, meccanici, professori, studenti, musicisti, bottegai, generali, camerieri, banchieri, industriali, macellai. Una bomba, confezionata da mano partigiana con 18 kg di esplosivo misto a spezzoni di ferro, viene fatta esplodere in corrispondenza del passaggio in via Rasella dell’11° compagnia del III battaglione dello SS-Regiment-Polizei “Bozen”, formata da 156 uomini, di cui la maggior parte altoatesini (e dunque Italiani), di ritorno da un’esercitazione di tiro: 32 uomini muoiono sul colpo, uno decede il giorno successivo, tra le altre vittime il partigiano Antonio Chiaretti e il 13enne Piero Zuccheretti, tagliato a metà dall’esplosione.
Vittime dell'attentato di via Rasella, come si può ben vedere non si tratta di giovani, come detto dalla Cassazione
L’attentato fu un gesto sconsiderato, privo di qualsiasi valore militare, giacchè il battaglione colpito aveva unicamente funzioni di polizia (Roma era città aperta), e il rifiuto da parte degli autori materiali di costituirsi costò la vita a ben oltre 300 persone, benchè sul particolare dell’affissione da parte del comando tedesco dei manifesti che invitavano gli esecutori ad auto-denunciarsi non si è riuscito a produrre alcuna prova. Peraltro, il problema non si pone nemmeno perché Rosario Bentivegna (colui che accese la bomba in via Rasella) ha affermato che fu lo stesso PCI a porre il veto di costituirsi ai suoi affiliati. Questo particolare, il quale, peraltro, non sarebbe l’unico, stridente con l’immagine edulcorata, passata da certuna storiografia, del partigiano “martire”, insieme ad altri, suggerisce dei risvolti inquietanti alla vicenda, messi in luce nel 1996 dal giornalista Pierangelo Maurizio, condannato, per questo, dalla Corte di Cassazione, che, contro qualsiasi oggettività storica, definì l’attentato di via Rasella, “azione di guerra”.
Rosario Bentivegna
La Cassazione fece una descrizione precisa dei componenti del Battaglione Bozen, come "di uomini pienamente atti alle armi, di età compresa tra i 26 e i 43 anni". Pare ciascuno avesse, inoltre, un moschetto e tre bombe a mano alla cintola. La Cassazione però dimentica un piccolo particolare, raccontato al citato giornalista da un superstite del gruppo Bozen:  il Comando tedesco, in ragione dello status di Roma come “Città aperta”, con teutonica ottusità, faceva marciare con i moschetti scarichi. Erano montanari altoatesini, che avevano optato per la cittadinanza tedesca ed erano stati forzatamente arruolati. A Roma stavano seguendo un corso di addestramento, al termine sarebbero stati impiegati come piantoni.
Con buona pace della Cassazione, tuttavia, che l’attentato di via Rasella fu tutt’altro che un’azione di guerra lo dimostra, primo, quanto affermò nel '48 la sentenza del Tribunale militare di Roma contro il colonnello delle SS Herbert Kappler, condannato all'ergastolo per le Fosse Ardeatine (non per la rappresaglia ma per i condannati in più che aggiunse arbitrariamente), definendo l'attentato dei Gap un «atto illegittimo» contrario a tutte le convenzioni internazionali. Tanto che i familiari di tre poveri ebrei finiti a far numero alle Fosse Ardeatine cercarono di portare in giudizio non solo gli esecutori dell'attentato ma anche i mandanti. Per motivi incomprensibili, si trovò il modo di incardinare il processo non al Tribunale militare, non in sede penale, ma in sede civile. Nel '51, poche settimane prima che ci fosse il verdetto, il governo De Gasperi conferì onorificenze al valor militare agli esecutori materiali di via Rasella (la medaglia d'argento a Rosario Bentivegna è stata consegnata solo nell'83 dall'allora Presidente-partigiano Sandro Pertini). Qualche settimana dopo il Tribunale civile sentenziò, pressoché sulla base di questo assunto: gli attentatori sono stati appena premiati pubblicamente come eroi, dunque nessun atto illegittimo può essere addebitato loro. Da qui nasce il mito intoccabile di via Rasella «azione di guerra».
Da allora chiunque abbia osato contestarlo è stato passibile di querela, con condanna più che probabile. Ne fece le spese anche il grande Indro Montanelli, per aver violato in un libro la sacralità del mito e la Rizzoli fu costretta a mandare al macero 30mila copie.
Molto interessanti sono gli scenari che, documenti alla mano, Maurizio traccia, in riferimento a possibili secondi fini partigiani che dietro un’azione, la cui ingenuità e inutilità da un punto di vista strategico, non faticano ad affiorare, né sembrano fuori da alcuna logica: «Nella più che prevedibile rappresaglia nazista furono sterminati in prevalenza appartenenti a “Giustizia e libertà”, a “Bandiera rossa”, ai partigiani monarchici, tutte e tre formazioni contrapposte al Pci o sue rivali. Tutti, a cominciare dall'eroico colonnello Montezemolo (zio di Luca), che come capo del “Fronte militare clandestino” aveva vietato gli attentati a Roma proprio per evitare rappresaglie, nei mesi e nelle settimane precedenti erano stati arrestati, il più delle volte sulla base di delazioni provenienti dall'interno della Resistenza.
Nei mesi precedenti “l'Unità” clandestina, diretta da Mario Alicata, fece una guerra spietata a quelli di “Bandiera rossa”, formazione in cui c'erano trozchisti, un anarchico, qualche repubblicano e soprattutto numerosi ufficiali “democratici” come Aladino Govoni (trucidato alle Ardeatine), il figlio del poeta Corrado. Il foglio del Pci arrivò a definirli "emissari di Goebbels" uguagliandoli ai nazisti. Poche settimane prima di via Rasella avvertì che se qualcosa di grave fosse accaduto a Roma "sappiamo di chi è la responsabilità".
Antonello Trombadori, uno dei leader del Pci, che aveva capeggiato i gappisti romani (autori dell’attentato di via Rasella) nella prima fase e si trovava nel carcere di Regina Coeli, si salvò grazie al medico del carcere, il dottor Monaco, che lo dichiarò “intrasportabile” perché malato. Ma alle Fosse Ardeatine finirono storpi e anche un ragazzo di 14 anni». (da P. MAURIZIO, Via Rasella. Un mistero che dura da sessant'anni, il Giornale, 10.08.2007)
In una delle pagine più nere della Seconda Guerra Mondiale, ed in particolare dell'occupazione tedesca, non si fatica a scorgere - nell’occasione tra partigiani, aderenti a correnti diverse- quella lotta fratricida, che da Romolo e Remo, passando per Guelfi e Ghibellini, per approdare allo scontro ideologico tra DC e PCI ha segnato (e continua a segnare) la storia d’Italia, lasciando dietro di sé, tra le altre, le mute vittime delle Fosse Ardeatine.

Addio a Mennea, la Freccia del Sud


Si è spento a 61 anni in una clinica romana l'italiano più veloce della storia, il primatista mondiale per 18 anni sui 200 m piani, la Freccia del Sud. Se ne è andato ma rimarra per sempre nella storia del nostro Paese, non solo negli almanacchi dei primatisti sulle piste d'atletica, ma aoprattutto nella memoria e nell'affetto dei milioni di italiani che ha emozionato con quella corsa a Città del Messico con cui scolpì il suo nome accanto ad un 19''72 che aveva del sovrumano. Un record durato 18 anni, finchè nel 1996 Michael Johnson riportò ad un afroamericano il record. Eterno è invece il record sui 150 m, distanza non olimpica, in cui il 15''8 di Mennea è stato battuto solo da Usain Bolt (15''35) nel 2009 su una pista rettilinea, non consentendo così l'omologazione della Federazione.
Piace ricordarlo non solo sulla pista, ma anche al di fuori, dietro una scrivania o davanti ad un microfono. E nel giorno della sua camera ardente piace ricordarlo proprio così, con le tante parole dedicategli dalla carta stampata, con le sua numerose interviste e gli innumerevoli articoli.

Rispondeva così, meno di un anno fa, alle domande di Emanuela Audisio su Repubblica del 3/VI/2012:

"Noi non avevamo niente e volevamo tutto. Eravamo cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre Salvatore era sarto, mia madre Vincenzina lo aiutava, a me toccavano i lavori più umili: fare i piatti, pulire la cucina, lavare i vetri. Avevo tre anni quando mamma mi mandò a comprare un bottiglione di varechina che mi si aprì nel tragitto, porto ancora i segni sulle mani. Papà veniva da una famiglia di undici figli, due si erano fatte suore, non c’era da mangiare a casa. Quando ho iniziato a correre i calzoncini me li cuciva lui. Papà alla domenica mi mandava in bicicletta a portare i vestiti, anche al questore Buttiglione, io appoggiavo la bici e andavo a giocare a pallone, stavo in porta, ma i clienti protestavano e all’una tra i rimproveri ero intercettato. Correvamo in piazza o attorno alla cattedrale, mi feci la fama lì. A quattordici anni divenni collaudatore di macchine veloci. Chi comprava una Porsche o un’Alfa Romeo veniva a suonarmi a casa alle undici di sera".

E poi, ricordando la sera che lo ha incoronato nell'Olimpo dell'Atletica:

"Il pubblico urlò. Io capii, ma non ero sicuro. Non c’erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L’unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre che segnalava, poi mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione. L’avevo cercato e trovato, il record. Non era un caso, mi ero preparato per quello, senza tregua"

"Quel giorno l’Italia scoprì un altro Coppi - conclude la Audisio -. Veniva dal meridione, era magro, un po’ storto, molto contorto. Figlio di un sarto. Suo padre tagliava abiti, lui si cucì l’atletica addosso. Corse i primi cento in 10”34 e i secondi in 9”38. Quell’anno l’Italia capì che correre alla Mennea era una scienza.

Poco dopo l'impresa, il 13 settembre 1979, confessa:

"Avevo memorizzato tutto. Anche il riscaldamento: lo stretching, gli allunghi. Avevo imparato a memoria persino la strada che mi separava dallo stadio. Uno stadio antico e bello, ma la pista era logora, consumata. Ero concentrato al massimo, ripensavo a tutti gli insegnamenti dell’allenatore, quando cominciò a piovere. Per fortuna la pioggia non scese copiosa, mi graziò, altrimenti quel record non l’avrei mai battuto".

Conseguì cinque lauree: Isef, scienze motorie, giurisprudenza, scienze politiche, lettere. "Fu Aldo Moro a suggerirmi di iscrivermi all’Università: aveva capito che avevo sete di sapere" rivela a Oggi nel 2010. È stato avvocato, commercialista, revisore contabile, agente di calciatori, giornalista pubblicista, insegnante universitario. Ha insegnato anche Educazione fisica in un liceo. "Già, ma il preside mi chiese di andarci piano, perché gli studenti si lamentavano di non riuscire a salire le scale… La scuola li cresce così e poi ci lamentiamo se invece di fare sport vanno in discoteca?".


Lo piange l'Italia, lo piange tutto il mondo. "Fallece Pietro Mennea, la ultima bala blanca" scrive El Mundo: "Muore Mennea, l'ultima pallottola bianca". Quanto conobbe Cassius Clay fu presentato come "l'uomo più veloce del mondo": al che il pugile commentò "E sei bianco?". Martedì la Ansaldo presenterà un nuovo treno per le Ferrovie dello Stato, che raggiungerà la velocità di 400 km/h: si chiamerà Mennea.

Calcio e tecnologia: perchè no



Nella discussione aperta ieri su questo stesso blog circa il rapporto fra calcio e tecnologia è possibile individuare le svariate posizioni sull'utilizzo di tecnologie ausiliarie al direttore di gara in due diverse correnti di pensiero: alcuni ritengono necessario, per garantire alla direzione di gara la serenità necessaria per svolgere al meglio il proprio compito decisionale, deresponsabilizzare la terna, svilendone forse il ruolo, ma alleggerendola da compiti gravosi - come le decisioni in caso di gol-non gol o fuorigiochi millimetrici - tramite l’utilizzo di moviola, occhio di falco, pallone con microchip o simili. L’altra corrente di pensiero vede invece nella responsabilizzazione della classe arbitrale un importante stimolo per esprimere sempre il meglio e garantire dunque il regolare svolgimento del gioco: gli arbitri d’altronde sono prima di tutto uomini, e sapere che alcune decisioni non sono più di loro competenza ne diminuisce sicuramente la sicurezza ed il prestigio sul rettangolo verde. Queste idee sono state chiaramente alla base della decisione del Presidente UEFA Michelle Platini di introdurre la figura degli arbitri addizionali di porta: con l’appoggio di Pierluigi Collina - e l’aiuto della sua decennale esperienza - la sperimentazione degli arbitri di porta è stata proposta agli Europei della scorsa estate, e dai risultati è possibile difendere a spada tratta la decisione della UEFA e della FIGC, unica federazione al mondo ad aver imposto tale figura nella massima categoria scegliendo gli arbitri addizionali esclusivamente fra gli arbitri e non fra gli assistenti.
Questa nuova figura rappresenta prima di tutto un paio di occhi in più per area di rigore: prima ancora di dover segnalare le situazioni di gol-non gol, l’arbitro addizionale è chiamato a controllare ogni contatto ed ogni movimento nella zona di sua competenza. Un importante esempio a tal riguardo è stato offerto dalla partita Italia-Croazia degli ultimi europei: in occasione del contatto Chiellini-Jelavic, l’arbitro Webb ha fischiato fallo contro la formazione di Bilic, suscitandone così le più veementi proteste. Dalla posizione dell’arbitro - che pure era posizionato a norma di regolamento - sembrava effettivamente che il centrale azzurro avesse commesso fallo sull’attaccante dell’Everton, ma la vicinanza dell’arbitro addizionale inglese ha consentito a Webb di scegliere con tempismo eccellente nella maniera corretta, senza peraltro far notare il contatto con l’addizionale, avvenuto tramite auricolare. Questo è difatti il motivo più ricorrente di critiche a queste nuove figure arbitrali: quando l’errore è palese, viene immediatamente attribuita loro la responsabilità, ma quando la scelta è corretta, spesso nessuno si accorge dell’aiuto dato dall’addizionale. Euro 2012 ha offerto anche in questo senso un chiaro esempio. In Germania-Portogallo Pepe calcia il pallone che prima colpisce la traversa, poi la linea di porta: l’addizionale non fa altro che sussurrare all’arbitro “rien, rien”, in francese “niente, niente”, facendo così correre l’azione senza che nessuna telecamera si soffermasse né su di lui né sull’arbitro Lannoy.
Un altro grande merito degli arbitri addizionali è quello di sgravare di compiti l’assistente: non si tratta di una deresponsabilizzazione della classe arbitrale, perché gli stessi compiti vengono svolti da un altro membro di quella che un giorni si chiamava terna e che ormai si è allaragata a 5 uomini. Gli assistenti possono difatti concentrarsi esclusivamente sui fuorigiochi, evitando di dover tenere d’occhi anche aree di rigore e linee di porta: nei campionati continentali polacchi si è raggiunta l’altissima percentuale del 96% di decisioni corrette su fuorigiochi di meno di un metro, e tale sorprendente risultato non può che essere addebitato alla presenza degli addizionali.
Un altro ottimo traguardo tagliato dalla classe arbitrale grazie all’innovazione degli addizionali è rappresentato dalla funzione “deterrente” degli stessi arbitri d’area: nelle 31 partite disputate fra Polonia ed Ucraina, con una media di 20 calci piazzati in zona offensiva ogni partita, è stata fischiata solamente una trattenuta. È innegabile che per i calciatori sapere di avere addosso non solo gli occhi di un arbitro a 20 metri ma anche quelli di un addizionale a 5 metri è un deterrente, e ne risente indubbiamente soprattutto il bel gioco.
Il futuro dunque è già oggi, perché tanto la UEFA quanto la FIGC hanno deciso di intraprendere la strada più vicina alla cultura arbitrale europea, quella di arbitri del calibro di Frisk e Mikkelsen, ma anche dei nostri Collina e Agnolin, per insegnare al mondo del calcio che l’occhio umano è sempre meglio di quello elettronico.

Calcio e tecnologia: perchè sì

Oggi mi vorrei soffermare sulla situazione delle tecnologie che dovrebbero aiutare gli arbitri in caso di indecisione. E si perché la figura dell'arbitro resta, con tutta la sua autorità, non è questo ciò che si vuole screditare, ma è chiaro che all'arbitro fa piacere avere aiuti in caso di difficoltà. I capi di Fifa e Uefa si sono spesso detti contrari alla introduzione di questi presidi tecnologici, che più tardi analizzeremo, ma gli arbitri, chiamati spesso al voto, sono favorevoli quasi all'unanimità. Anche in Italia i presidenti delle associazioni arbitrali hanno dato parere negativo, mentre ex arbitri o calciatori hanno detto si. Si rimane fermi. O quasi. Almeno in Italia è stato introdotto l'arbitro di porta, figura "umana", ma comunque importante. Molta incertezza c'è anche su altri tipi di tecnologie, quelle che aiuterebbero i calciatori: l'uso dell'Ipad con gli schemi, introdotto dalla Roma di Luis Enrique lo scorso anno, è stato vietato, oppure il controllo Gps degli allenamenti, che fornisce al mister un totale controllo della squadra, è usato solo dal Milan. Forse il problema nasce da certi ambienti alti troppo conservatori, che non hanno capito che la tecnologia, se usata bene, aiuta l'uomo e non snaturalizza il calcio, già snaturalizzato in realtà dagli scandali, per i quali ci si muove troppo poco. Analizziamo ora le principali tecnologie. La prima riguarda il campo del gol-non gol.
Sono state avanzate numerose proposte per cercare di arginare il fenomeno dei gol fantasma: la più convincente è quella del "pallone intelligente", ossia un pallone da calcio contenente all'interno un
microchip (usato nei Mondiali Under-17 nel settembre 2005 con il consenso del presidente della FIFA, Joseph Blatter, il quale però, pochi mesi dopo, bocciò il progetto). Questo microchip segnalerebbe in
cuffia il superamento del pallone della linea di porta all'arbitro (o comunque farebbe "capire" se c'è stato o meno il gol). Su questa tecnologia si è d'accordo anche perché, quando c'è un gol fantasma, non ci sono discussioni che tengano: o è gol o non è gol. Diverso per fuorigioco e falli da rigore, per i quali si pensa a tv a
bordo campo per fare la moviola(chi scorda la lotta di Aldo Biscardi, in tv da più da 30 anni a dichiarare:"La moviola in campo, ora!"). Qui la situazione è lievemente differente: ci possono essere differenze di vedute. Comunque spetterebbe all'arbitro decidere, le polemiche non mancherebbero, ma l'arbitro si sentirebbe più sicuro.
Insomma il futuro del calcio è qui, a disposizione. Bisogna iniziare ad usarlo.

Papa Francesco: "Potere è servire"

TESTO INTEGRALE dell'OMELIA del SANTO PADRE FRANCESCO I
nella MESSA di INIZIO del MINISTERO PETRINO
con VIDEO 1 - 2

 Cari fratelli e sorelle!

Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza.


Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico.

Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato  il beato Giovanni Paolo II: «San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello» (Esort. ap. Redemptoris Custos, 1).

Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e tutto l'amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.

Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!

La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!


E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna.

Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!

E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!


Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire!

Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio.


Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato!

Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a voi tutti dico: pregate per me! Amen.


© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana

Il coraggio delle idee


Alla fine del 1900 Hobsbawn si guarda alla spalle e vede masse, moda e consumo[1]. Legge dunque con chiarezza tra le righe della storia e trova in quel fenomeno di massificazione della società, di cui si poteva percepire il peso e la potenza già all’inizio del secolo, le radici di una cultura giovanile mondiale. Tuttavia per poter vedere in maniera tanto limpida i contorni di un processo storico e il suo punto d’approdo bisogna trovarsi al varco di una nuova era, e affermando questo avremmo tutta l’approvazione di Hegel, probabilmente il più grande filosofo della storia. Allora perché non pensare che gli ultimi anni del novecento siano proprio il principio di un ponte che intende terminare ai piedi di una nuova gioventù, con la speranza di una nuova società. Infatti se fino agli anni ’90 possiamo riconoscere nelle posizioni che ogni volta la gioventù prende rispetto ai problemi sociali un senso di ribellione, astensionismo o rifiuto del sistema sociale, come afferma Tomasi[2], oggi cosa leggiamo nel comportamento della gioventù? Qualcuno potrebbe rispondere che massa, moda e consumo sono parole d’ordine oggi quanto lo erano nella società di Hobsbawn, ma è davvero così? Interessante come lo stesso Tomasi proponga di fatto una nuova accezione di “cultura giovanile” ovvero la “capacità che i giovani hanno di autodefinirsi nei loro comportamenti valoriali all’interno della società della quale sono parte”. A opporsi a questa visione è forse Miscioscia[3] che vede i giovani percorrere strade divaganti, astruse, sognanti e smarriti più che consapevoli e dinamici. Procedendo per punti, dunque, andremo ora ad analizzare le tre posizioni sopra esposte. La prima, quella che forse rispecchia il pensiero comune, è quella più difficile da affrontare. Difficile, perché siamo coinvolti da questa storia che tentiamo di interpretare quanto Hobsbawm lo sarebbe stato se avesse giudicato il suo “secolo breve” nel 1960 e non nel 1996. Tuttavia se Freud è riuscito a scrivere nel 1921 “Psicologia dell’io e delle masse” , prima ancora di aver conosciuto i totalitarismi, proveremo ad avere la presunzione di poter costruire un quadro altrettanto completo delle dinamiche che muovono la gioventù di oggi. Dunque, la moda è odiernamente la follia dei più, l’omologazione un’avanzata malattia sociale; il consumismo il male che divora irreparabilmente il pianeta Terra. Potremmo presto concludere che nulla cambia tra i giorni di Hobsbawm e i nostri. Tuttavia proprio per l’evidenza con cui questi problemi sono venuti alla luce negli ultimi anni, è offensivo anche solo ipotizzare che una cultura giovanile possa nascere sulle stesse note che hanno accompagnato le generazioni precedenti a cantare il disastro e l’eccesso. Quanto alla moda, la necessità di emergere e di differenziarsi dagli altri, proprio a dispetto di quell’omologazione forzata che i modelli sociali propongono e a volte impongono e che soffoca, spinge ad aprirsi a nuovi fronti, divorziando ogni anno di più dalla tradizionale moda. Oggi la moda è trovare qualcosa che nessun’altro ha, moda è essere originali ad ogni costo. Difficile dunque credere che nulla abbia scosso il sistema sociale dagli anni ’60 ad oggi. Tomasi d’altra parte propone di soffermarsi maggiormente su quei valori più o meno consapevolmente condivisi dai giovani forse animati dall’unica voglia di riuscire là dove le generazioni prima hanno fallito, di migliorare, di crescere. Dunque più che rifiuto e astensionismo, in questa prospettiva, si preferisce vedere l’aspetto costruttivo del comportamento dei giovani: abilità, talento, ideali, che spingono a far propri i valori che la società ha sepolto o mai considerato. Dobbiamo ammettere che nel nuovo millennio il sistema politico mondiale che si avvia verso un progressivo declino ha dato una consistente spinta alle dinamiche sociali, che si sono trasformate, consolidando le relazioni sociali internazionali, riempiendole di significato. E i primi ad essere coinvolti da questa nuova aria, aria di cambiamenti, di novità, necessità di sganciarsi dai modelli nazionali, di oltrepassare significativamente i confini degli stati, di cercare la stretta dei popoli, il senso dell’umanità più che della razza può aver coinvolto per primi i giovani. Quello che si può dire osservando la storia passata e quella che ci circonda, è che lentamente svanisce la cortina di fumo che divide un giovane dall’altro, che crea conflitto e disinteresse, oblio della comunicazione e pigrizia; che ogni anno di più fiorisce una vera cultura giovanile, intesa così come la intende Tomasi; che il confronto ha liberato la voglia di cambiare, sotto un ideale comune e verso una nuova società. Eppure Mismoscia ritrae una gioventù ancora cucciola, non abbastanza cresciuta per avere consapevolezza di sé e del proprio ruolo. Una gioventù che cerca una guida quando “utilizza la trasgressione e la provocazione”; un gioventù che fugge e si lascia cullare in quel “grande spazio onirico aperto dalle droghe e dalla realtà virtuale” scivolando nella “dimensione del gioco e del consumo”; un gioventù che auspica a un futuro “più carico di affettività, pace e socialità” solo quando da libero sfogo alle proprie “capacità intuitive ed artistiche”. Possiamo dunque parlare di una cultura giovanile che si sviluppa sì, ma che si fa sentire solo quando il divario tra le nuove menti e la società è troppo grande perché i due corpi si concilino? Che la gioventù attraversa fasi di improduttiva inerzia e percorre la strada di una cultura comune aperta da una gioventù lontana finché annoiata si disgrega, abbandonando la comunanza di idee? Si chiude nell’individualità finché la pressione di una società inadeguata risveglia il bisogno di unirsi, di confrontarsi e mano a mano spalancare la porta per un futuro più brillante per tutti. E così la cultura giovanile si evolve, ma altro non è che l’espressione più concreta dall’andamento della società, il cronometro di modelli antiquati, la melodia che risveglia il coraggio di chi vuole cambiare. Così da secoli i giovani fanno la storia con l’audacia delle idee e la storia cambia quando la società ha fiducia in loro.

***

[1] E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it. Di R. Lotti , Rizzoli, Milano 1996

[2] L.Tomasi, Introduzione, L’elaborazione della cultura giovanile nell’incerto contesto europeo, Milano 1998

[3] D. Miscioscia, miti affettivi e cultura giovanile, Franco Angeli, Milano 1999

Grillini in Parlamento: almeno l'itagliano sallo




L’onestà andrà di moda” diceva Grillo il 25 febbraio, appena si è reso conto della consistenza del suo successo elettorale. E se finora non abbiamo avuto troppe prove per contraddire il guru dei 5 Stelle - in fondo una casetta in Costa Rica non è niente di che... - abbiamo fin troppo materiale per fare una lucida considerazione sull’invasione grillina di Montecitorio e Palazzo Madama. Tralasciando la solidità politica che già le prime votazioni hanno dimostrato essere tutt’altro che rassicurante, appare immediata una riflessione tanto semplice quanto chiarificante sulla situazione presa in questione: Grillo ha raccolto un malcontento popolare - che, col senno di poi , si è dimostrato assolutamente incosciente - per riempire il Parlamento di soggetti assolutamente digiuni non solo di politica o economia, ma anche di buon senso o addirittura di grammatica italiana. Dei Parlamentari grillini preoccupati dagli OGM e dai microchip sottocutanei più che da recessione e debito pubblico - o semplicemente l’assenza di un governo - se ne è parlato a tal punto che si era sparsa la voce che Grillo avesse chiesto alla LUISS di proporre ai neo eletti delle lezioni di diritto costituzionale, come se, sapendo come si elegge il Presidente della Repubblica, ci si rendesse conto delle priorità più elementari di un paese allo sbando... La LUISS, dall’alto della sua reputazione internazionale, si è affrettata a smentire di aver mai pensato di  organizzare tali corsi.
È proprio di stamattina l’ennesima gaffe del MoVimento, con la senatrice Elena Fattori, che ha difeso la sua scelta di votare Grasso alla presidenza del Senato con un post sulla sua pagina ufficiale si Facebook: nell’imbarazzo generale la “cittadina” ha scritto di non essere comunque disposta a “appoggiare forse politiche”, dimostrando che, in fin dei conti, la collega Marta Grande non si deve vergognare di non avere una laurea perché, ne abbiamo avuto la dimostrazione, in fondo serve a ben poco se non si sa nemmeno scrivere in italiano...
L’Italia è come un malato - a che punto della sua degenza meglio non saperlo... - e agli italiani è spettato il duro compito di sceglierne il medico: c’è chi è andato sull’usato sicuro, accettando anche magari di pagare qualcosa in più pur di stare sicuri cha almeno si rendano conto della gravità del paziente. C’è chi invece ha preferito un medico onesto - lo vogliamo sperare - ma che di medicina ci capisce ben poco, che probabilmente non sa nemmeno leggere un termometro e considera più preoccupante un capello fuori posto che un quadro clinico da malato terminale.

Vecchia Signora cercasi

La Juve è tornata quella squadra tritasassi che rende noioso il campionato a tutti i tifosi di squadre diverse da quella torinese a strisce, ma purtroppo non è ancora tornata la Vecchia Signora, perché, di questa Juventus, tutto si può dire tranne che sia una squadra signorile, elegante e rispettosa. Sarà il ricambio generazionale, sarà che il calcio non è più quello dei tempi dell’Avvocato Agnelli, sarà che la dirigenza del dopo-Calciopoli ha voluto cambiare radicalmente, ma la Vecchia Signora non c’è più, né in campo, né dietro alle scrivanie né davanti ai microfoni.
L’episodio di Antonio Conte di sabato sera è solo l’ultimo di una serie di episodi che ci stanno facendo purtroppo dimenticare la semplice correttezza ed eleganza della squadra degli Agnelli, e - temiamo - ce ne saranno ancora altri: dopo ogni polemica sollevata dall’atteggiamento poco Juventus-style del tecnico pugliese la sua società si è sempre erta a difesa del proprio tecnico, incitandolo così a superarsi ogni volta, facendo di interviste e partite un’occasione per attrarre telecamere e fotografi.
Ieri sera Pioli, innervosito per l’esultanza spropositata del tecnico bianconero sotto la tribuna felsinea, ha fatto notare, con garbo ma con una certa schiettezza, di non aver apprezzato tali gesti: “viene voglia di andare all’estero” risponde stizzito il tecnico juventino, dimostrando di essere in verità un cattivo conoscitore del calcio al di fuori dell’Italia, dove il massimo dell’esultanza di allenatori del calibro di Sir Alex Ferguson e Pep Guardiola è una pacca sulla spalla ai propri collaboratori.
Basta poco per migliorare il nostro calcio, ma questi piccoli passi devono essere fatti da tutti, da chi gioca e da chi allena, da chi arbitra e da chi dirige, dalla Federazione quanto dalle società: e per fare della partita di sabato un esempio di bel calcio basterebbe molto poco, una semplicissima presa di posizione della Società di corso Galileo Ferraris, per chiedere scusa tanto ai tifosi del Bologna quanto ai propri. Ma, considerate le precedenti scelte della società di difendere a spada tratta il proprio allenatore anche di fronte ad una sentenza definitiva di condanna da parte degli organi federali, appare quantomeno utopistico sperare in un improvviso cambio di rotta per un episodio simile: e allora rimarrebbe solo la stampa e l’opinione pubblica a processare Conte, come fece con un certo Mazzone quella domenica di fine settembre del 2001, quando a Bergamo passò alla storia del calcio per un’esultanza sotto la curva dell’Atalanta dopo il gol di Baggio che regalava al Brescia un pareggio in pieno recupero. E se la stampa fu allora durissima con il tecnico romano - uno che non ha vinto nulla ma ha plasmato un ruolo di regista a centrocampo per un certo Andrea Pirlo ed ha fatto esordire in prima squadra un 17enne Francesco Totti... -, dovrebbe riservare un pari trattamento ad Antonio Conte, considerata anche la colpevole recidività del tecnico, che da quando allena a Vinovo non fa altro che scatenare polemiche su polemiche. Sempre spernado che almeno l’opinione pubblica riesca a far rinascere la Vecchia Signore, perché la Juve di oggi, per quello che dimostra fuori dal campo, sta facendo rivoltare nella tomba anche l’Avvocato, del quale - oggi più che mai - il calcio italiano soffre maledettamente la mancanza.