La leggenda dell'Inquisizione


Il nome del Sant’Uffizio è spesso legata la leggenda nera dell’Inquisizione come di un tribunale sanguinario, autore di una spietata caccia alle streghe compiuta sotto le sacre insegne della Religione, identificabile come parte cospicua di quel male assoluto di cui sembra essere stata tinta la Media Aetas e, più in generale, la storia della Chiesa Cattolica. Nulla di più falso: quello dell’Inquisizione è uno dei tanti falsi miti sorti durante il secolo dei Lumi – basti pensare alla leggenda di Ipazia, diffusa da Voltaire  - e che un’attenta documentazione storica permette di dimostrare erroneo ed infondato.
Il 23 gennaio di 15 anni or sono venivano aperti gli archivi del Sant’Uffizio e l’allora prefetto della “Congregazione per la Dottrina della Fede”, il cardinal Joseph Ratzinger, dichiarò: “Sono sicuro che aprendo i nostri Archivi si risponderà non solo alle legittime aspirazioni degli studiosi, ma anche alla ferma intenzione della Chiesa di servire l’uomo aiutandolo a capire se stesso leggendo senza pregiudizi la propria storia"
Intervistato dallo scrittore Vittorio Messori nel 1984, lo storico Luigi Firpo (1915-1989), esponente di rilievo della cultura laicista, uno dei pochi studiosi che ha avuto accesso anche ai documenti riservati del Sant’Uffizio, si esprimeva così: "Sono sicuro che l’apertura di quell’archivio, sinora assai limitata anche per esigenze organizzative, gioverebbe molto all’immagine della Chiesa [...]. Aprendo a tutti gli studiosi quelle carte, cadrebbero altri pezzi della abusiva leggenda nera che circonda l’Inquisizione".
Lo studioso italo-americano John Tedeschi, che all’Inquisizione ha dedicato il libro “Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione Romana” nota come, in merito alla diffusione del falso mito: "Si va dall’uso improprio delle fonti alle affermazioni non sorrette dai dati di fatto e, in qualche caso, a quelli che appaiono deliberati tentativi di distorcere la realtà", cui si aggiungono la tendenza da parte di alcuni autori a considerare regola le aberrazioni, la presenza di contraddizioni anche in una stessa opera e il disaccordo fra gli storici su punti fondamentali pure se facilmente verificabili sulla base dei documenti consultabili. Infatti, la gamma di fonti a disposizione degli studiosi è piuttosto ampia, nonostante le gravi perdite subìte dagli archivi dell’Inquisizione romana, distrutti o dispersi in Irlanda, in Belgio, in Francia, in Italia e, in misura minore, negli Stati Uniti d’America, in conseguenza del saccheggio del Sant’Uffizio operato da funzionari napoleonici nel 1810 e dei danni patiti dalle Inquisizioni provinciali di Firenze, di Milano e di Palermo a causa del vandalismo giacobino o della soppressione delle istituzioni religiose. "La politica della porta chiusa del Sant’Uffizio — osserva Tedeschi — si basa su una decisione burocratica interna e non rappresenta la posizione ufficiale della Chiesa cattolica riguardo all’accesso ai documenti dell’Inquisizione. Raccolte ecclesiastiche provinciali ricche di documenti su tale argomento a Napoli, Pisa, Udine, Firenze e altrove, in misura crescente vengono messe a disposizione degli storici a scopo di ricerca; e innumerevoli codici inquisitoriali conservati presso la Biblioteca Vaticana e l’Archivio Segreto Vaticano sono stati messi a disposizione di studiosi di tutto il mondo, anche sotto forma di microfilm".
L’Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e le testimonianze – giacchè gli inquisitori "[...] non ritenevano di avere niente di vergognoso da nascondere"—, è una delle prime istituzioni del passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile ogni travisamento storico sia sull’organizzazione sia sulla prassi adottata. Gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili, poco inclini a decidere in fretta e arbitrariamente la sorte dell’imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa. Diverse garanzie giuridiche a tutela dell’accusato erano parte integrante della procedura inquisitoriale. È accertato che più di un imputato abbia chiesto e ottenuto il cambiamento della sede e la sostituzione dell’inquisitore che si occupava del suo caso, avendo potuto dimostrarne la mancanza di obbiettività. "Non è un’esagerazione affermare che il Sant’Uffizio fu in certi casi un pioniere della riforma giudiziaria. L’avvocato difensore era parte integrante della sua procedura [...], nei tribunali dell’Inquisizione l’imputato riceveva una copia autenticata dell’intero processo [...] e disponeva di un ragionevole lasso di tempo per preparare la propria replica". Inoltre, molti manuali inquisitoriali abbondavano di consigli su possibili strategie difensive.
Sebbene fino al secolo XVII l’Inquisizione, come tutti gli altri sistemi giudiziari europei – la voce di Cesare Beccaria contro tale pratica si alzerà solo nel 1764- non abbia rinunciato a ricorrere alla tortura in quelle particolari situazioni in cui si riteneva che una parte essenziale della verità venisse celata pervicacemente, gli inquisitori, a differenza dei giudici civili, ne facevano uso raramente, ritenendo che fosse un fragile e rischioso strumento, spesso incapace di condurre alla verità, soprattutto perché molti riuscivano a sopportare i tormenti grazie alla loro forza d’animo e fisica.
Sebbene si pensi generalmente il contrario, solo una piccola percentuale di procedimenti inquisitoriali si concludeva con la condanna a morte, che era riservata ai pertinaci, non disposti in alcun caso a riconciliarsi con la Chiesa, e ai relapsi, i ricaduti, giudicati colpevoli di eresia già in passato."I dati disponibili sui rei consegnati dall’Inquisizione al braccio secolare indicano che una percentuale decisamente modesta di essi fu giustiziata". Fra i primi mille imputati che comparvero davanti al tribunale di Aquileia fra il 1551 e il 1647 solo quattro furono giustiziati. A Milano nella seconda metà del 1500 si contarono dodici esecuzioni capitali per eresia e soltanto una a Modena, nel 1567. Quanto alle oltre duecento sentenze, alcune concernenti più di un imputato, contenute nei manoscritti del Trinity College, solo in tre di esse era invocata l’estrema sanzione, mentre a Roma si contarono novantasette condannati a morte dal Sant’Uffizio fra il 1542 e il 1761. Dati analoghi emergono dal confronto con l’Inquisizione spagnola, che fra il 1540 e il 1700 ha comminato 820 volte la pena capitale su un totale di 44.000 casi, cioè una percentuale dell’1,9 per cento. A tal proposito basti pensare che dal 1976 al 2000, in appena 24 anni e in epoca post-contemporanea (non medievale o moderna), negli aurei Stati Uniti, le sentenze capitali sono state 3.703.
Inoltre, poiché la carcerazione come pena anziché come misura precauzionale durante il procedimento fece la sua comparsa in Europa negli ultimi decenni del 1500, "[...] l’Inquisizione, col suo secolare ricorso alla detenzione ad poenam, dev’essere considerata all’avanguardia anche nel diritto penale, in un’epoca in cui le altre opzioni a disposizione del giudice si riducevano al rogo, alla mutilazione, alle galee e all’esilio". Basandosi su vari documenti, compresi quelli del processo a Giordano Bruno (1548-1600), nonché su un sopralluogo in prima persona, Luigi Firpo ha ricostruito le condizioni di vita nelle prigioni romane del Sant’Uffizio, demolendo le teorie fantasiose di alcuni autori: "Si scoprirebbe poi che gli Ucciardone e le Rebibbia di oggi sono le vere bolge infernali rispetto alle troppo diffamate celle dell’Inquisizione, dove la vita era ritmata da regolamenti severi ma non disumani. Era, per esempio, prescritto che lenzuola e federe si cambiassero due volte alla settimana: roba da grande albergo.... [...]Una volta al mese, i cardinali responsabili dovevano ricevere uno a uno i prigionieri per sapere di che avessero bisogno. Mi sono imbattuto in un recluso friulano che chiese di avere birra al posto del vino. Il cardinale ordinò che si provvedesse, ma, non riuscendo a trovare birra a Roma, ci si scusò con il prigioniero, offrendogli in cambio una somma di denaro perché si facesse venire la bevanda preferita dalla sua patria".
Ai responsabili di reati particolarmente gravi e ripugnanti era riservata invece la detenzione sulle galee, "[...] che possono essere considerate, in un certo senso, l’equivalente delle nostre carceri di massima sicurezza".
Per quanto riguarda la tipologia dei reati si colgono sostanziali differenze fra i due grandi sistemi inquisitoriali dell’età moderna, derivanti dal fatto che l’Inquisizione romana era stata rifondata nel 1542 per fronteggiare la diffusione del protestantesimo nella penisola italiana, mentre quella spagnola era stata istituita più di mezzo secolo prima per affrontare il problema delle false conversioni dall’ebraismo al cristianesimo. Negli Stati italiani, quindi, il "luteranesimo" fu la preoccupazione maggiore dei funzionari inquisitoriali, finché nel secolo XVII la pratica della magia soppiantò il protestantesimo come capo d’imputazione più comune. Peraltro, l’assidua vigilanza di Roma nei confronti della magia — nella quale raramente erano incluse la stregoneria o il satanismo — non comportò una grande severità in termini di pene. "Come riconosciuto anche da Lea quasi un secolo fa, entrambe le grandi Inquisizioni del Mediterraneo erano assai caute e moderate a questo riguardo, in confronto ai tribunali secolari". Tedeschi, fra l’altro, contesta la tesi secondo cui il manuale inquisitoriale Malleus maleficarum, scritto dai domenicani tedeschi Heinrich Kramer (1430 ca.-1505) e Jakob Sprenger (1436 ca.-1495), pubblicato nel 1486 e nominato in qualsiasi manuale scolastico di storia moderna, sia stato il testo canonico per la persecuzione dei sospettati di stregoneria nei due secoli seguenti, documentando come una filosofia radicalmente opposta trovasse consensi crescenti nei tribunali del Sant’Uffizio nella seconda metà del 1500 fino a raggiungere dignità di norma con l’Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum, del 1624.
La storia di questa istituzione è stata travisata e deformata per secoli, finché accurate ricerche documentarie hanno aperto la strada a lavori scientifici innovativi, anche grazie all’esempio e allo stimolo forniti dall’opera di John Tedeschi. È auspicabile ora che la nuova immagine dell’Inquisizione esca dall’ambito specialistico ed entri a pieno titolo nel patrimonio culturale anzitutto dei cattolici, i quali sono ancora affetti da un ingiustificato complesso d’inferiorità a causa di una scarsa conoscenza della loro storia.

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