Il Cinquantenario del Regno d'Italia


Domani l’Italia Unita compie – anche se nessuno se ne ricorda con i toni, iperbolici, propri dei festeggiamenti di due anni or sono - 152 anni. L’anniversario è conteggiato da quel 17 marzo del 1861 in cui il Parlamento di Torino acclamava Vittorio Emanuele II “Roi d’Italie”: sì, in francese!
Con negli occhi ancora le immagini dei festeggiamenti del 150° anniversario, ricorriamo ad oltre un secolo fa: a quel 1911 in cui, tra la guerra di Libia, il varo del Titanic, l’insediamento del V governo Giolitti, si celebrava anche il cinquantenario del Regno d’Italia nella generale tensione di rivendicazioni operaie e malcontento sociale che la Grande Guerra, non essendo riuscita a stroncarle, finì per acuire.
Indizi di malumore è possibile rinvenire nelle carte del Gabinetto del Sindaco di Roma, depositate presso l'Archivio capitolino, che confortano la tesi della contrapposizione, veicolata dalla stampa socialista dell'epoca, tra due cinquantenari, quello borghese e quello, per l'appunto, proletario.
Erano dovuti passare decenni dall'annessione di Roma all'Italia, sosteneva l'«Avanti!», «perché un corpo di magistrati civici veramente italiano, cioè imbevuto profondamente di dinastismo sabaudo ascendesse il Campidoglio». Se il quotidiano socialista riconosceva che questa era stata «almeno idealmente una vittoria della civiltà contro le ultime forze superstiti della reazione baronale e papalina», aggiungeva però come sarebbe stato «un grave errore storico volere attribuire questa vittoria alle capacità intellettuali e politiche del popolo di Roma», in quanto la vittoria del Blocco era stata «determinata da ceti professionali estranei e sovrapposti all'indole popolana della città, emigrati dal Piemonte e in genere dal Settentrione e quivi sviluppatisi con un temperamento politico e una orientazione economica più avanzata senza dubbio ma profondamente diversi dalla tradizione storica di Roma». La «terza Italia a Roma» era stata «opera della burocrazia dello Stato e irradiazione diretta del Quirinale. La Corte che voleva vivere isolata in un centro di sontuose mondanità non permise mai che Roma diventasse una grande città industriale». I festeggiamenti ufficiali capitolini si riducevano quindi a «vana proclamazione del risorgimento politico», ma non potevano celebrare alcun «profondo risorgimento economico».
Ma sempre sulle colonne dell'«Avanti!» venivano denunciati tutti i limiti della svolta democratica di inizio Novecento. Se anche, infatti, la borghesia aveva «smesso certi suoi atteggiamenti polizieschi e forcaioli», era pur vero che «la politica dell'ultima parte del cinquantennio» aveva operato una «cristallizzazione delle oligarchie finanziarie industriali terriere, con appena qualche riguardo e qualche spunto di legislazione difensiva a profitto della classe operaia». Il Cinquantenario non poteva così celebrare per la classe capitalista e quella operaia una storia comune.
Il tema, peraltro, dei «due cinquantenari», oltre che a echeggiare nei titoli dell'organo socialista, ricorreva anche nei momenti di mobilitazione e propaganda; «mentre la borghesia - recitava un ordine del giorno approvato dalla Camera del Lavoro riunitasi il 4 febbraio - si prepara a solennizzare il cinquantenario del regno, il proletariato potrà levare efficacemente la sua voce per fare il bilancio dei cinquant'anni di vita nazionale in rapporto ai bisogni della classe lavoratrice, e per affermare il diritto a migliori condizioni di esistenza e protestare contro tutte le forme di sfruttamento capitalistico» [Talamo 1987, 152].
Questo segno classista era ovviamente negato nelle celebrazioni governative. Nathan, già nel discorso commemorativo della figura di Giuseppe Mazzini, tenuto il 10 marzo 1911, aveva esaltato i quattro «fattori massimi» dell'unificazione italiana («l'apostolo, il guerriero, il re, lo statista») e sottolineato come in Mazzini l'obiettivo unitario fosse stato prevalente rispetto a quello repubblicano e la religione concepita come possibile strumento di progresso civile. Il sindaco di Roma si era anche rallegrato degli «entusiasmi patriottici scoppiati spontanei» in tutti i ceti sociali in occasione del cinquantenario.
Questa «immagine oleografica» [Gentile 1997, 18; De Nicolò 2010, 41] dell'unificazione quale processo, privo di cesure, cui avevano partecipato con spirito cooperativo i suoi quattro artefici veniva riproposto da Nathan nel suo intervento del 27 marzo: «il sentimento di una Patria, libera ed indipendente dall'Alpi al mare, da Giuseppe Mazzini, con la Giovane Italia, con le cospirazioni, coi moti, trasfuso nell'animo degli Italiani, informò l'opera di ricostituzione assunta da Carlo Alberto nel 1848». Dei «quattro che sintetizzano la storia del moto ascendente», il metodo e l'azione, «apparentemente difformi ed ostili, prospettati oggi nel tempo, si armonizzano, si completano».
In questa lettura pacificata del Risorgimento si inseriva il bilancio soddisfacente dello sviluppo economico raggiunto, frutto del «silente lavoro» e dell'«imbrigliare gli smodati desideri».
Interclassismo e pacificazione sociale costituivano il leitmotiv che ricorreva anche negli interventi degli altri oratori. Il Presidente del Senato Giuseppe Manfredi esaltava l'Italiacome «elemento di ordine e di pace»e la Casa regnante che si era «immedesimata col popolo italiano»; quello della Camera Giuseppe Marcora l'«Italia unita per concordia di animi» e «fattrice di incivilimento e di pace»; il Presidente del Comitato esecutivo per le feste commemorative, il conte Enrico di San Martino, «il Paese tranquillo». A parte, infine, il breve cenno di Marcora all'affrancamento della capitale «da ogni signoria forestiera o teocratica», nelle celebrazioni ufficiali non vi era traccia alcuna del dissidio apertosi tra Stato e Chiesa con la questione romana; anzi, proprio Vittorio Emanuele III si assumeva il compito di ricordare come l'Italia, con Roma capitale, garantisse «la tranquilla convivenza delle Chiese con lo Stato» e la «piena e feconda libertà alla religione».
Ponte Vittorio Emanuele II inaugurato nel 1911, come il Vittoriano
Il cinquantenario invece, non poteva evidentemente da par suo che sentenziare sprezzante l'organo socialista, si era ridotto a una cerimonia «senza un'anima» che aveva ostentato «i simboli di una gloria cui nessuno crede». A questa «L'Avanti!» opponeva, il giorno seguente la seduta reale, Il  «Cinquantenario» del proletariato, non solo capitolino ma dell'intera penisola, e dava conto di manifestazioni socialiste e operaie a Livorno, Parma, Oneglia, Castelmaggiore, Carpi, Piombino, Pisa, Firenze e altre località. In quegli stessi giorni il quotidiano del Psi riferiva puntualmente di agitazioni promosse da varie categorie di lavoratori, prima di tutto i particolarmente attivi tranvieri. Ancor più duro sarebbe stato il bilancio di fine anno stilato dal foglio della frazione intransigente del Partito socialista che tacciò l'amministrazione comunale di aver «vissuto una vita a sé, ignorando il popolo che le aveva conferito il mandato». Aveva buon gioco allora «L'Osservatore Romano» ad ironizzare sulla distanza che separava lo sfarzo e la retorica delle celebrazioni dalle precarie condizioni sociali in cui versava la classe lavoratrice. Agli operai, infatti, non poteva che fare «penosa impressione» assistere «agli sbandieramenti, ai banchetti, alle inaugurazioni, alle luminarie che si riflettono sinistramente nella stanzetta buia e disadorna ove regnano ancora la miseria e forse la fame».
Ma motivi di malcontento serpeggiavano non solo tra le fila operaie e non solo a causa del mancato invito a prendere parte ai festeggiamenti.
Il Consiglio direttivo della Società Ufficiali Pensionati del Regno, in verità, nella deliberazione approvata all'unanimità nella seduta del 30 marzo, pur non volendo portare «una nota dissonante nel giubilo delle presenti feste», non poteva non «dolersi» per essere stata esclusa dai festeggiamenti; il Consiglio dei Reduci delle Patrie Battaglie “G. Garibaldi” nella seduta straordinaria del 26 marzo 1911stigmatizzava all'unanimità l'esclusione dalle celebrazioni di «coloro, che volontariamente esposero la loro vita nei campi di battaglia e sacrificarono il loro avvenire per realizzare in Roma l'aspirazione di tutti gl'Italiani», ricevendo il sostegno del «Giornale d'Italia» che lamentava l'assenza «di riconoscenza da coloro che dimenticano come, senza gli sforzi ed i sacrifici e gli ardimenti dei volontari, né Roma sarebbe stata liberata, né i gaudenti occuperebbero gli alti posti, su cui siedono signorilmente senza curarsi dei doveri verso chi ha lottato e versato il sangue per questa Italia»; gli Ufficiali in congedo, esclusi dalla cerimonia del 27 marzo, non mancarono di ironizzare sulle «democratiche origini» dell'amministrazione bloccarda che avevano indotto a dare «l'ostracismo a quelli appunto, senza l'opera dei quali i componenti la medesima non si sarebbero mai sognati di arrivare ai fastigi del potere capitolino»; infine, i ferrovieri in servizio a Roma protestavano perché, a differenza delle altre città, nella capitale le stazioni non erano state chiuse per le celebrazioni; «siamo anche noi Italiani, - osservavano stizziti - e come italiani intendiamo partecipare all'esultanza nazionale».
Ma era il Presidente dell'Unione italiana ferrovieri escursionisti a rivelare le ragioni, tutte materiali, che potevano indurre il ceto impiegatizio a non aderire entusiasticamente al clima celebrativo; «grave» - scriveva egli al sindaco - era infatti il «malcontento che serpeggia nella classe degli Impiegati, dovuto alle condizioni economiche e morali assai tristi in cui versa e ad un vivo risentimento generale prodotto dalla mancanza di ogni benevolenza da parte del Governo. E senza essere profeta, io prevedo che dalle circolari, dalla S.V. mandate ad associazioni ed organizzazioni economiche e professionali d'Impiegati, Ella riceverà ben poche evesioni [sic] completamente favorevoli ai di Lei nobili e patriottici sentimenti».
Il tono risentito della missiva è comprensibile solo che si ponga mente alla circostanza che il ceto impiegatizio e burocratico era stato il nucleo centrale, consapevole e quindi esigente, di quel «disegno politico giolittiano di un incontro delle forze liberal-democratiche con quelle dei partititi popolari e del socialismo riformista per realizzare un progetto di buona amministrazione» [Vidotto 2001, 121] che attenuasse le tensioni che si erano andate acuendo a Roma a partire dall'incremento degli affitti registratosi nel 1903.
Se, poi, l'anticlericalismo era il collante culturale delle forze politiche che avevano dato vita al Blocco popolare, «la cultura laica e massonica aveva una forte presa e un largo seguito» [Vidotto 2001, 121] proprio nei settori dell'amministrazione.
Questo spiega presumibilmente la grande effervescenza di iniziative dell'associazionismo anticlericale nei giorni immediatamente precedenti la citata seduta reale. Era la Giordano Bruno, già dai primi giorni di marzo, ad annunciare convinta il suo protagonismo in questa direzione:«la vecchia città Leonina che sacrò alla redenzione di Italia i suoi figli migliori, che seppe le glorie della romana Repubblica, e gli strazi della tirannide papale, non poteva rimanere indifferente al fausto avvenimento che tutta Italia concordemente festeggia. E se il prete, oggi, non dimentico del potere temporale perduto, tenta opporsi all'entusiasmo dell'anima italiana, tanto più è nostro dovere, di fronte al Vaticano, ricordare i nostri martiri ed i nostri eroi che vollero Roma restituita all'Italia e che seppero per la luminosa idealità affrontare galere e patiboli».
L'Associazione, così, si rifiutava di partecipare a manifestazioni, fossero anche organizzate da comitati popolari e rionali, che non avessero «assunto carattere prettamente ostile al Vaticano».
La Sezione Macao-Castro Pretorio, sempre della Giordano Bruno, in assemblea generale, censurava «la servile politica del governo» ricordando all'«unione delle forze popolari» come suo obiettivo dovesse essere l'«ideale politico e sociale» della laicità mentre l'Associazione anticlericale Prati riusciva a promuovere conferenze con la partecipazione di consiglieri comunali.
All'anticlericalismo si accompagnava poi nelle fila repubblicane la polemica antimonarchica che si giocava sulla critica dell'annessione da parte dei Savoia della tradizione mazziniana, depurata dalla sua componente repubblicana. Le celebrazioni ufficiali erano così mirate «a glorificare uomini ed istituti intorno ai quali non può essere unanime il giudizio e il consenso degli italiani» e a confondere «in una sola apoteosi tutti gli uomini che parteciparono alla grande opera della rivoluzione italiana».
Una lettera del 14 marzo dà conto della nascita del Comitato esecutivo per i festeggiamenti popolari nei Rioni di Borgo e di Prati per il Cinquantenario, comitato che avrebbe dovuto provvedere alla raccolta dei fondi e all'attuazione del programma dei festeggiamenti. Questo, però, aveva bisogno di conoscere l'entità dei finanziamenti che il Comune e il Comitato esecutivo per le feste commemorative del 1911 erano disposti a concedere. I festeggiamenti popolari avrebbero dovuto consistere in luminarie, festoni, padiglioni, premi per i balconi e le finestre meglio illuminate, festival all'aperto, conferenze, lotterie, premi per gli alunni di Borgo e Prati, riscossione dei pegni di una lira per i poveri del rione ed eventuali assegni ai bambini nati il 27 marzo. Per tutte queste iniziative era assolutamente necessario «che il Comitato del 1911 trov[asse] modo di contribuire, in misura conveniente a queste feste popolari, quando la totalità delle sue risorse è stata impegnata in opere di cui il POPOLO VERO [sic] non potrà, con nessuna probabilità, godere e che dovrà contemplare a rispettosa distanza. Occorre che la misurata cerimonia ufficiale sia riscaldata dal palpito e dall'entusiasmo del popolo, e quindi è necessario che i discorsi che si pronunceranno nei saloni dorati e le feste che allieteranno la borghesia nei teatri e nei padiglioni, ripercuotano la loro eco nelle vie e nelle piazze, ove soltanto purtroppo, il Comitato del 1911, confinerà al buio la maggior parte dei cittadini di Roma».
Di seguito il testo integrale del discorso celebrativo tenuto in Campidoglio da Vittorio Emanuele II il 27 marzo 1911:

«Sul Campidoglio, vaticinato dal sommo Poeta latino, eterno come Roma, stanno oggi attorno al Re i liberi rappresentanti del Parlamento e dei Municipi, simbolo vivente dell’unità politica indissolubile e delle franchigie locali . Io vi saluto, evocando la memoria dei pensatori, degli eroi e dei martiri, ai quali dobbiamo la Patria! In questo convegno nazionale, irresistibile e fervido, esce dai nostri petti il giuramento di rendere l’Italia sempre più libera, più felice, più rispettata nel mondo . Nelle legittime impazienze, aspiranti a migliori fortune, giova riconoscere che non si riparano, in breve tempo, gli effetti di lunghi secoli vissuti nella divisione e nel servaggio .Per il nostro Paese scorse un’età anche più miseranda di quella dipinta dal Segretario fiorentino, quando, mancata la concordia dei cuori e delle armi, la disciplina del carattere, l’obbedienza spontanea a quelle leggi, che sono sostanza di vita e di salute, all’Italia, vinta e doma, si tolse ogni virtù di pensiero, ogni potere militare e civile .E occorre figgere gli sguardi in quelle calamitose profondità a misurare
di quale sforzo titanico fu capace l’anima della nazione per rivolgere le sorti di un volgo avvilito in quelle di un popolo libero e geloso dei suoi diritti .Nella nostra virile modestia non si dimentichi l’ufficio che la storia ha assegnato all’Italia . Essa esprime, col ricongiungersi di sparse genti infelici, il diritto intangibile delle nazioni a vivere indipendenti .Con Roma capitale, l’Italia rappresenta la tranquilla convivenza della Chiesa con lo Stato, che garantisce piena e feconda libertà alla religione come alla scienza . Quest’opera dei padri, dei redentori della Patria, non può apparire meno elevata delle due precedenti civiltà di Roma . Il Padre mio, di venerata memoria, in un discorso solenne cosi diceva: «Fra i maestosi avanzi della grandezza antica, non ci sembri modesta la grandezza nuova . L’antica, per lo spirito del tempo, fu universale, la nuova è nazionale . Dalla prima si ebbe un’Italia romana, si ha, dall’altra, una Roma italiana . Quella fu espressione della forza, questa è espressione del diritto, e come ogni diritto, Roma italiana è inviolabile» . Devota all’indipendenza di ogni popolo, l’Italia saprà custodire la propria, che è retaggio di tutta la sua storia antica e recente, e contribuirà con l’opera della pace al progresso universale in una ascensione continua verso ideali sempre più alti . Ed è fatidico che di tanti imperatori sul Colle aperto ai fasti consolari e alle istituzioni romane, restò solo il simulacro di Marco Aurelio, salutante il trionfo, illuminato dalla luce austera della virtù stoica: immagine sacra e propiziatrice di quel culto della legge morale e civile che la Patria nostra vuole osservare, fidente in un sicuro avvenire di prosperità e di gloria».
Tratto da L. Tedesco, Roma 1911 e la disfida dei Cinquantenari

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