Il Papa Comunista apre ai gay: e vissero tutti felici e contenti


Papa Francesco ci stupisce da oramai più di quattro mesi: un Papa che rompe la tradizione, parla alla gente, augura buon pranzo e non fa le vacanza come gli italiani in crisi. Un Papa innovatore a tal punto da essere comunista. Eh già, perché non può che essere definito così un Papa che parla della tenerezza proprio come Che Guevara e di indifferenza come Gramsci, che accenna alle periferie dell’esistenza rifacendosi a Fuksas, che apre ai Gay come forse solo Vendola riesce a fare.

Se qualcuno ha avuto il di continuare a leggere questo articolo, che solo nel suo primo paragrafo è riuscito a condensare una serie incredibile di controsensi, dimostrazione di follia pura, sappia che siamo riusciti a sintetizzare in quattro righe la linea editoriale di molti media nazionali su Papa Francesco. L’ultimo episodio che ha stuzzicato la fantasia di molti è rappresentato dall’intervista concessa dal Papa durante il volo di ritorno dal viaggio in Brasile per la GMG: il Papa ha parlato per quasi un’ora con i giornalisti, toccando marginalmente la questione “omosessualità”. I giornali – ovviamente – hanno aperto con i titoli più vari, estrapolando di fatto una sola frase: “Se una persona è gay, chi sono io per giudicarlo?”. Senza voler mancare di rispetto ai signori giornalisti e titolisti che lavorano solo per fare titoli accattivanti e vendere qualche copia in più, procediamo rapidamente a smontare l’impalcatura di invenzione create ad hoc per Papa Bergoglio, con la schiettezza e l’onestà di chi non guadagna nulla con un titolo interessante o un visitatore in più.

San Giovanni Bosco, esempio luminoso di cristiani impegnati nel sociale.
Per prima cosa appare indispensabile leggere le parole pronunciate dal Papa, per non ridurci a fare inutili commenti su citazioni oramai di seconda mano. “Si scrive tanto della lobby gay. Io finora non ho trovato in Vaticano chi ha scritto "gay" sulla carta d'identità. Bisogna distinguere tra l'essere gay, avere questa tendenza, e fare lobby. Le lobby, tutte le lobby, non sono buone. Se una persona è gay e cerca il Signore con buona volontà, chi sono io per giudicarlo? Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna che le persone gay non si devono discriminare, ma si devono accogliere. Il problema non è avere questa tendenza, il problema è fare lobby e questo vale per questo come per le lobby d'affari, le lobby politiche, le lobby massoniche”.

Già alla luce di questa semplice operazione di trascrizione – anche detta “informazione” – Papa Francesco diventa un po’ meno comunista, o quantomeno ci viene il dubbio che non voterebbe per SEL… Un’ulteriore considerazione ci permette di comprendere quale sia la reale preparazione di chi è solito scrivere a livello nazionale su Papa e Chiesa: perché mai dovrebbe fare scalpore un’intervista in cui non si fa altro che ripetere il contenuto del Catechismo? Forse non tutti i giornalisti conoscono il Catechismo? E allora forse tanti, troppi articoli sulla Chiesa e su Papa Francesco non sono altro che giudizi espressi senza alcuna cognizione di causa, nascondendo magari un qualche intento ideologico anticlericale?
Ma, se qualcuno ancora fosse convinto che Papa Francesco possa rappresentare il partigiano modello, si interroghi sul ruolo fondamentale svolto nel sociale da tanti personaggi che vantavano la fede cattolica. Si interroghi anche sull’atteggiamento di dura condanna dell’allora arcivescovo di Los Angeles nei confronti della Teologia della Libreazione, di chiara ispirazione marxista-leninista. E si dia qualche risposta. E magari la prossima volta che vuole comprare il Fatto Quotidiano, risparmi un euro.


Processo Mediaset: rinvio per salvare anche il PD?

Finalmente è arrivato il 30 luglio. Generazioni di anti-berlusconiani si sono ritrovate nel preparare l’evento odierno in un’attesa quasi religiosa, generazioni di onesti cittadini attendono col fiato sospeso una sentenza che, vada come vada, segnerà il nostro Paese. Le considerazioni scontate sono all’ordine del giorno, e le conseguenza di una sentenza di condanna sono sicuramente le più facilmente immaginabili: sicuramente il primo ad essere terrorizzato da un’ipotesi del genere è il premier Letta, che non dubita della veridicità dell’equazione Berlusconi condannato=Letta a casa. Se infatti da una parte il Cavaliere continua a sostenere che le sue vicende giudiziarie hanno poco a che fare con il governo, appare realisticamente difficile immaginare un PdL privo di Berlusconi capace di mantenere l’alleanza di governo col PD: il rischio più grave è rappresentato dall’interdizione dai pubblici uffici, che renderebbe di fatto acefalo il movimento politico rappresentante milioni di elettori.


Il vero problema del governo però si chiama PD: qualunque sia la sentenza di oggi i democratici si troverebbero a doversi confrontare con l’acuirsi di una crisi interna datata ormai diversi mesi. L’ineleggibilità di Berlusconi e il voto sospensivo dei lavori in aula sono stati solo gli ultimi due sintomi di un caos regnante nel partito di Renzi: già, Matteo Renzi. Chissà che cosa si augura lui, che ha sempre sostenuto di voler mandare in pensione Berlusconi dopo averlo battuto alle urne e non in carcere per la sentenza di un qualche tribunale… Il PD oggi esploderà: se il Cavaliere viene condannato, si ritroverà probabilmente con un governo sfiduciato, un congresso da fissare e nuove elezioni da preparare, senza sapere nemmeno se il segretario sarà candidato premier o meno. Pochi giorni fa il senatore democratico Ugo Sposetti ha confidato al Fatto Quotidiano: “Se condannano Berlusconi per il PD sarà la fine: il partito non reggerà l’urto e salterà in aria come un birillo. Siamo politicamente annientati, nessuno ha ragionato di questa vicenda sul piano politico, non la reggeremo: per noi sarà una botta tremenda e il partito imploderà”. Se invece il governo Letta continuerà a vivere, il PD, “pur volendolo mandare a casa, dovrebbe sostenerlo. Comincerà allora una fase ancora più fessa di quella attuale”. L’equazione di Sposetti non fa una piega: chissà in quanti, a sinistra, hanno la sua stessa consapevolezza. Se il Cavaliere sarà assolto, chi terrà a bada la frangia del PD che si sente rappresentata dai 70 senatori firmatari della lettera “Basta autogol” di inizio luglio?

Appare probabile, a questo punto, che la difesa del Cavaliere oggi riesca ad ottenere un rinvio: una mezza vittoria del PdL, che sostiene che fissare la sentenza in tempi così rapidi sia stata l’ennesima dimostrazione dell’accanimento giudiziario nei confronti del proprio leader, e un sospiro di sollievo per il PD, che avrebbe quantomeno il tempo per preparare un congresso, sedare il caos interno e buttare giù due idee su una campagna elettorale che adesso lo troverebbe incredibilmente impreparato. Insomma, niente di più facile che la Cassazione oggi se ne esca con l’ennesima soluzione all’italiana, che accontenta tutti e nessuno.

Regolamento: Procedure per determinare la vincente di una gara

Le reti segnate in trasferta, i tempi supplementari ed i tiri di rigore sono i tre metodi approvati per determinare la squadra vincente quando il regolamento della competizione prevede che ci debba essere una vincente al termine di una gara che si è conclusa in parità.

Reti segnate in trasferta

Il regolamento della competizione può prevedere che, laddove le squadre giochino “in casa” dell’una e dell’altra, se il risultato complessivo delle reti segnate e subite è in parità al termine della seconda gara, le reti segnate in trasferta valgano il doppio.


Supplementari
Il regolamento della competizione può prevedere di giocare due ulteriori periodi di gioco uguali (tempi supplementari) che non superino i 15 minuti ciascuno. In tal caso, valgono le condizioni stabilite dalla Regola 8.

I tiri di rigore
Procedura
• L’arbitro sceglie la porta verso la quale i tiri di rigore devono essere eseguiti.
• L’arbitro procede al sorteggio lanciando una moneta e il capitano della squadra che vince il sorteggio decide se eseguire il primo o il secondo tiro.
• L’arbitro annota i tiri eseguiti.
• Le due squadre eseguono ciascuna cinque tiri, conformemente alle disposizioni menzionate qui di seguito.
• I tiri di rigore vengono eseguiti alternativamente da ciascuna squadra.
• Se, prima che le due squadre abbiano eseguito i loro cinque tiri di rigore, una di esse segna un numero di reti che l’altra non potrà realizzare terminando la serie dei tiri, l’esecuzione degli stessi sarà interrotta.
• Se dopo che le squadre hanno eseguito i loro cinque tiri di rigore, entrambe hanno segnato lo stesso numero di reti o non ne hanno segnata alcuna, si proseguirà con lo stesso ordine fino a quando una squadra avrà segnato una rete in più dell’altra, dopo lo stesso numero di tiri.
• Un portiere che si infortuna durante l’esecuzione dei tiri di rigore e non è più in condizione di continuare, potrà essere sostituito da un calciatore di riserva, sempre che la squadra non abbia già usufruito del numero massimo di sostituzioni consentite dalla competizione.
• Ad eccezione del caso precedente, solo i calciatori presenti sul terreno di gioco al termine della gara o, nell’eventualità, dei tempi supplementari, sono autorizzati ad eseguire i tiri di rigore.
• Ogni tiro di rigore è eseguito da un calciatore diverso e tutti i calciatori aventi diritto ad eseguire i tiri di rigore devono averne eseguito uno prima di eseguirne un secondo.
• Ogni calciatore avente diritto ad eseguire un tiro di rigore può in qualsiasi momento assumere il ruolo di portiere durante l’esecuzione dei tiri di rigore.
• Solo i calciatori aventi diritto ad eseguire i tiri di rigore e gli ufficiali di gara sono autorizzati a restare sul terreno di gioco durante l’esecuzione dei tiri di rigore.
• Tutti i calciatori, eccetto colui che esegue il tiro e i due portieri, devono restare all’interno del cerchio di centrocampo durante l’esecuzione dei tiri di rigore.
• Il portiere, il cui compagno esegue il tiro, deve restare sul terreno di gioco, all’esterno dell’area di rigore in cui si svolge l’esecuzione dei tiri, nel punto ove la linea dell’area di rigore interseca quella di porta.
• Se, al termine di una gara e prima dell’inizio dei tiri di rigore, una squadra ha un numero di calciatori maggiore di quello della squadra avversaria è tenuta a ridurre tale numero per eguagliarlo a quest’ultima ed al capitano della squadra spetta il compito di comunicare all’arbitro il nome e il numero di ciascun calciatore escluso dai tiri di rigore. Ogni calciatore così escluso non potrà partecipare ai tiri di rigore.
• Prima di dare inizio all’esecuzione dei tiri di rigore, l’arbitro deve assicurarsi che per ciascuna squadra un numero uguale di calciatori aventi diritto ad eseguire i tiri si trovi all’interno del cerchio di centrocampo.
Salvo disposizioni contrarie, queste sono le Regole di Gioco e le decisioni dell’IFAB, che devono essere applicate in occasione dei tiri di rigore.

Strage di Bologna: impronta fascista?


La strage della Stazione Bologna è stata attribuita in via definitiva a Francesca Mambro e Giuseppe Fioravanti. Sulla stazione è stata posta una targa a ricordo della ‘strage fascista’. VSembrerebbe tutto a posto, tuttavia ragionevoli dubbi sorgono in merito alla presunta paternità fascista dell’attentato sia riguardo il movente che il principale testimone che hanno contribuito alla condanna dei due sopranominati NAR.
Il Corriere ha pubblicato un’intervista all’ex presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, in cui l’ex senatore PDS ha sostenuto che il movente attribuito ai condannati per quell’eccidio, gli ex terroristi neri Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, “non ha alcun senso”. Mambro e Fioravanti hanno ammesso altri delitti assai gravi per i quali hanno ricevuto condanne pesantissime; ma si sono sempre professati innocenti per quella bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto del 1980. Adesso la Cassazione ha annullato con rinvio la condanna per Luigi Ciavardini che sarebbe stato l’autore materiale di quel mostruoso gesto terroristico.
Senza iscriversi al fronte degli innocentisti che sostiene per partito preso l’assoluta estraneità di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti per la strage di Bologna del 1980, occorre notare che da quando Mambro e Fioravanti sono stati chiamati in causa per quella vicenda i dubbi sono sempre aumentati e le certezze sempre diminuite.
Le perplessità sorgono dalle ragioni connesse all’annullamento della condanna di Luigi Ciavardini, e anche perché, come dice l’ex presidente della Commissione Stragi, non è verosimile né credibile la ricostruzione del fine politico della strage di Bologna che è sempre stato accostato, quasi si trattasse di un remake, a quello della bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Per fortuna questi dubbi sono ormai condivisi anche da quelle forze politico-culturali politicamente nemiche dei “neri” (oggi radicali) Mambro e Fioravanti. Un giornalista di sinistra, Gianluca Semprini, ha scritto un libro per la Bietti, “La strage di Bologna e il terrorista sconosciuto”, in cui spiega come per quell’orribile delitto (85 morti, oltre duecento feriti) a carico dei due ex terroristi non ci sia altro che l’assai dubbia parola di un pentito della banda della Magliana, Massimo Sparti.
Il 5 agosto 2003 Furio Colombo ha pubblicato sull’ Unità un articolo molto coraggioso in cui raccontava di aver “scritto e detto” – prima, da giornalista, su Panorama e su Repubblica , poi da parlamentare PDS – “di non credere che Francesca Mambro e Valerio Fioravanti fossero gli esecutori della strage alla stazione di Bologna” e di esserli andato a trovare, con questo spirito, in carcere. Dopodiché ha aggiunto che “non ci sono dubbi sulla matrice fascista della strage di Bologna”. Un evento luttuoso di cui poi, però, ha parlato in questi termini: “Una strage feroce, immensa e misteriosa, eseguita da mani oscure per motivi che restano oscuri e che forse sono ancora adesso protetti dalla condanna definitiva di due apparenti colpevoli”.
Colombo ha messo, come si suole dire, il dito nella piaga. Probabilmente qualcuno – in primo luogo i parenti delle vittime – teme che un’assoluzione di Mambro e Fioravanti possa rimettere in discussione la “matrice fascista” di quel misfatto e lasciarlo impunito. Ma per delitti di tale gravità (in realtà per qualsiasi delitto) non possiamo permetterci di additare degli innocenti alla colpevolezza solo perché questo ci conferma nell’idea che ci siamo fatti del delitto stesso. Non c’è alcun dubbio: quel processo è da rifare e se contro i due terroristi dei Nar non verranno fuori le prove convincenti che fin qui non sono emerse dovremmo avere, tutti, l’onestà intellettuale di chiedere a gran voce che il marchio dell’infamia (limitatamente a quel che riguarda Bologna) venga tolto dalla fronte di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti.
Massimo Sparti, che viene citato più sopra, è il testimone che ‘inchiodò’ Mambro e Fioravanti sostenendo che due giorni dopo la strage Fioravanti era stato da lui a Roma per chiedergli documenti falsi per lui e la Mambro. E parlando aveva testualmente detto: ‘Visto che botto?’.
«Mio padre nella storia del processo di Bologna ha sempre mentito». Lo ha rivelato, in un’intervista esclusiva al Gr1, Stefano Sparti, figlio di Massimo Sparti, il pentito, testimone principale dell’accusa nel processo di Bologna, che ha inchiodato Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. «Mio padre – ha spiegato Stefano Sparti – ha sempre affermato di essere a Roma due giorni dopo la strage di Bologna per ricevere la richiesta di documenti falsi da parte di Fioravanti e Mambro. In realtà eravamo tutti a Cura di Vetralla, vicino Viterbo, nella nostra casa di campagna, pronti a partire per le vacanze, nei giorni precedenti, nei giorni successivi e nel giorno stesso della strage».
Sparti, dopo avere accusato i due terroristi, viene scarcerato nel maggio del 1982 perché gli viene diagnosticato, dai sanitari del penitenziario di Pisa un tumore al pancreas. Massimo Sparti, secondo il racconto del figlio, avrebbe mentito anche sulla sua malattia, un tumore al pancreas che gli permise di uscire di galera nel 1981. «Mio padre – ha dichiarato Stefano Sparti – si è sempre vantato, di fronte a noi, con altre persone, di avere le lastre di un’altra persona, relative a una malattia che in realtà lui non aveva, cioè il tumore. Un’altra cosa a cui aveva fatto più volte riferimento è che aveva trovato una via per riuscire ad avere in carcere anfetamine così da simulare il dimagrimento da tumore».
Nel 1981 i medici dell’ospedale penitenziario di Pisa certificano che Sparti è un malato terminale e gli viene concessa dai magistrati di Bologna la libertà provvisoria. Nonostante la diagnosi – tumore al pancreas allo stadio terminale – Sparti rifiuta qualsiasi tipo di terapia, in particolare quella chirurgica. Una volta dimesso e scarcerato, torna a Roma e il 6 marzo 1982 è ricoverato all’Ospedale San Camillo. Dopo circa un mese di accertamenti, Sparti viene operato per una laparotomia esplorativa: «Negativa l’esplorazione dello stomaco, duodeno, fegato e pancreas». Il tumore è sparito. Nel maggio del 1997, quando i carabinieri vanno al San Camillo per acquisire la cartella clinica di Sparti, su ordine del pubblico ministero di Bologna, scoprono che la cartella è andata distrutta a seguito di un incendio scoppiato il 20 settembre 1991 proprio nell’archivio del nosocomio. Stefano ha quindi raccontato di essere andato a trovare il padre in una clinica, tre giorni prima che morisse, perché voleva «chiudere il cerchio»: «Quando gli chiesi come mai si fosse infilato in quella situazione mi disse ‘mi dispiace ma non potevo fare altrimenti’». Quanto al perché non abbia rivelato prima tutto ciò ai magistrati, Stefano Sparti ha risposto: «Sto pensando di andare sinceramente. Non che questo possa cambiare la situazione perché ho visto come sono state trattate le tre persone che hanno sempre detto la verità: mia madre, mia nonna e la tata. Non sono mai state credute».

Nel 1980 l’Impero (sovietico) scricchiolava, i servizi segreti del Patto Atlantico ne erano a conoscenza e quella strage è stato il primo colpo di coda di un Regime che non sapeva come rinnovarsi, che doveva vivere con un “mostro” da combattere perché per quello era stato progettato, costruito e sostenuto. I fatti ritornano, anche oggi siamo in una situazione in cui si deve trovare un “contro” che unisca.

26 luglio 1953: la rivoluzione rossa a Cuba.

In un giorno d'estate di 60 anni fa, ebbe luogo l'assalto alla caserma MOncada. Fu l'inizio di una nuova era per Cuba, perché l’attacco, seppure infruttuoso, diede il via alla Rivoluzione cubana che portò al rovesciamento del regime dittatoriale di Fulgencio Batista. Il fatto ispirò il nome del movimento di rivolta, che si chiamo “Movimiento 26 de julio” (Movimento del 26 di luglio), l'organizzazione creata da Fidel Castro nel 1955 con l’intento, appunto, di rovesciare la dittatura di Batista, ma non solo. Infatti i piani di Castro erano anche quelli di sovvertire l'ordine economico del paese, e garantire diritti e autorità alle forze comuniste. Al movimento si unirono poi molti militanti del “Movimiento nacionalista revolucionario”. Le adesioni più significative furono quelle di Ernesto Guevara (detto “Che”) e di Camilo Cienfuegos. L’organizzazione si ispirava alla tradizione socialista rivoluzionaria e al pensiero umanista, libertario e antimperialista di José Martí.

Durante l’assalto alla base militare Moncada di Santiago di Cuba molti rimasero uccisi. Fidel Castro e suo fratello Raúl furono arrestati e subirono un processo, che per alcuni versi si può definire politico, per molti altri più che giusto, visto che vennero uccisi molti civili, per il semplice motivo di sostenere il governo di Batista. Durante il processo Fidel Castro pronunciò la famosa frase. “La historia me absolverá”(La storia mi assolverà). Alla fine fu condannato a scontare una pena di 16 anni nel carcere di massima sicurezza dell’Isola dei Pini. 

Quando, nel 1955, Batista liberò tutti i prigionieri politici, Fidel e Raúl furono mandati in esilio in Messico, dove cercarono di radunare altri esuli cubani per riorganizzare il movimento rivoluzionario. Fu durante l’esilio che Fidel Castro incontrò ilmedico argentino Ernesto Guevara, che si unì al gruppo.

Nel novembre del 1956 una squadra di 82 ribelli si imbarcò sulla nave Granma diretta a Cuba. Appena giunti sull’isola furono attaccati: solo 12 persone riuscirono a salvarsi, fra essi Fidel, Raúl, Ernesto Guevara e l’italiano Gino Donè Paro. Gli altri furono catturati e condannati a morte.

Questo primo gruppetto di persone si nascose sulle montagne della Sierra Maestra e si fece crescere la barba (nessuno aveva a disposizione rasoi e lamette). Furono perciò soprannominati “barbudos”, ottennero il sostegno della popolazione locale, riuscirono a crescere numericamente e a organizzare rapide incursioni diventando un vero pericolo per Batista.Quando l’offensiva di Batista (operazione Verano) si schiantò contro Castro, il morale dell’esercito cadde a picco: le truppe ribelli iniziarono l’offensiva avanzando in due gruppi (columnas), due fronti mobili guidati da Che Guevara e da Camilo Cienfuegos che procedettero verso ovest e verso la capitale.I fratelli Castro e Juan Almeida diressero i quattro fronti nella Provincia di Oriente. Dopo la vittoria di Cienfuegos nella battaglia di Yaguajay e la vittoria di Guevara nella storica battaglia di Santa Clara, le due colonne arrivarono a l’Avana. Batista preferì mettersi in salvo con il suo tesoro fuggendo nella Repubblica Dominicana nella notte del 31 dicembre 1958.Il primo gennaio del 1959 l’Avana venne occupata dalle truppe ribelli e il 2 gennaio fu la volta di Santiago. L’8 gennaio 1959, Fidel Castro scese dalla Sierra Maestra ed entrò a l’Avana insieme al resto dei guerriglieri. La rivoluzione era compiuta. Ma per molti anni molti particolari brutali di tale rivoluzione vennero nascosti: le figure di Guevara, Castro e suo fratello vengono ancora oggi descritte come degli eroi senza macchia, ma non può essere così: Cuba passò da uno stato di assenza di libertò, ad una situazione migliore, ma molto simile: non c'era libertà religiosa(una timida apertura c'è da qualche anno, lo dimostra la visita col papa che ha avuto Castro, che ha portato ad un accordo tra S.Sede e l'Havana per il 15 agosto, ora festa nazionale), scarseggiava, e scarseggia ancor'oggi, la libertà d'espressione e di stampa.

Grave fu anche l'uso incondizionato delle armi che porta ancora oggi Cuba ad essere considerata una delle nazioni più pericolose al mondo.
Non dimentichiamoci anche che Cuba non ha regolari elezioni da molto tempo. O meglio, su questo punto è meglio fermarsi un attimo. Le elezioni per l'Assemblea Nazionale del Potere Popolare si svolgono in due fasi: in un primo momento i candidati vengono scelti in una sorta di elezioni primarie e l'accettazione della candidatura è subordinata al vaglio del comitato elettorale. Successivamente i candidati sono sottoposti al vaglio del corpo elettorale provinciale e devono conquistare la metà più uno dei consensi per essere eletti. Hanno diritto di voto i cittadini cubani incensurati e maggiorenni (l'età prevista per il raggiungimento della maggiore età a Cuba è 16 anni). Ma, attenzione, notiamo che, nessun partito politico è autorizzato a nominare candidati o fare campagna elettorale. La Costituzione riconosce il diritto di parola di ognuno ma l'articolo 62 limita l'esercizio delle libertà personali affermando che queste non possono essere esercitate in contrasto con lo Stato socialista e con la volontà popolare di edificare il comunismo. Gli oppositori del sistema politico vigente sostengono che queste condizioni implichino la non libertà dei processi elettorali. Fidel Castro ha ricoperto ininterrottamente la carica di Presidente, venendo sempre eletto all'unanimità dall'Assemblea, fin dall'adozione della Costituzione del 1976, quando sostituì Osvaldo Dorticós Torrado. Il 18 febbraio 2008, dopo 49 anni di presidenza, Fidel Castro ha dichiarato che non avrebbe accettato una nuova elezione alla Presidenza del Consiglio di Stato e del consiglio dei Ministri. L'incarico è adesso ricoperto da Raul Castro Ruz, fratello minore di Fidel nonché Generale Rivoluzionario dal 1958. 

Ma allora, siamo sicuri che Cuba sia davvero libera?

25 luglio 1943: tutte le ombre sull'inizio della fine

Domenica 25 luglio 1943, ore 2.30 della notte. Il Gran Consiglio del Fascismo approva l’Ordine del Giorno Grandi: è l’inizio della fine. Dei 27 partecipanti 19 firmano a favore: Grandi (Presidente della Camera: propose in prima persona la sfiducia a Mussolini), De Bono e De Vecchi (due dei quadrumviri che marciarono su Roma nel 1922), Ciano (genero di Mussolini), Acerbo (Ministro delle Finanze: diede il nome alla legge elettorale del 1923), Federzoni (Presidente dell’Accademia), De Marsico (Ministro della Giustizia), Pareschi e Cianetti (Ministri dell’Agricoltura il primo e per le Corporazioni il secondo), Albini e Bastianini (Sottosegretari agli Interni e agli Esteri), Balella, Gottardi e Bignardi (Confederazione dei datori di lavoro, dei Lavoratori del’’Industria e degli agricoltori), De Stefani (ex Ministro delle Finanze e del Tesoro),Marinelli (ex segretario del PNF), Alfieri, Rossoni e Bottai (membri a titolo personale).

Un anno di blog: l'immenso modesto potere dei media

"Oggi, 24 luglio 2012, alle ore 19.31 nasce il blog ufficiale de La Gazzetta del PAGO.

Con l'indispensabile aiuto di Voi lettori ci auspichiamo di poter festeggiare molti felici compleanni all'insegna dell'informazione vera e sincera."

Abbiamo aperto così il nostro blog nella serata del 24 luglio dell'anno scorso: il primo compleanno è arrivato, e non può che essere felice: 80 000 visite totali, 333 pubblicazioni, commenti ed interventi a dimostrazione della partecipazione del lettore. L'informazione che cerchiamo di offrire ogni giorno è - come promesso un anno fa - vera e sincera, lontana da qualsiasi distorsione ideologica o manipolazione di alcun senso. Un anno fa abbiamo aperto con questa vignetta di Luigi Alfieri, in cui il sarcasmo del vignettista faceva trapelare la triste rassegnazione dovuta alla presa di coscienza dell'assenza di libertà d'informazione in Italia: cogliamo l'occasione offertaci dalla ricorrenza di oggi per esporre in maniera più compiuta lo stimolo che ci ha portato ad intraprendere questa esperienza nel mondo dell'informazione, offrendo il pezzo stesso come sentito ringraziamento per tutti i lettori di questo primo anno di vita.

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Nel 1965 uno studio dell’università di Princeton ha ricercato tutte le possibili definizioni scientificamente fondate di “opinione pubblica”: il risultato, oltre 50 diverse definizioni, dimostra quanto sia difficile spiegare che cosa sia realmente l’opinione pubblica; ciò che invece è difficile negare è che ogni individuo di una società si confronta quotidianamente con tale nebulosa entità. Dato per certo che le sue origini risalgono alla nascita stessa della scienza politica, è innegabile che essa ha acquistato rilievo particolare con l’avvento delle idee democratiche, nate sulle indispensabili basi della stampa e dei moderni mezzi di comunicazione sociale.

Negli stessi anni in cui l’Università di Princeton si cimentava nella definizione di “opinione pubblica”, in Germania la professoressa Noelle-Neumann verificava sperimentalmente un dato di fatto che mette in luce l’aspetto più importante dell’odierna opinione pubblica, qualunque sia la sua definizione: in occasione delle elezioni tedesche del 1965 si verificò che le intenzioni di voto prospettavano un divario fra i primi due contendenti di appena 6 punti percentuali, mentre l’aspettativa su chi avrebbe vinto le elezioni presentava una differenza del 50%. Lo stesso fenomeno fu rilevato nelle elezioni del 1976.

A partire da queste verifiche sperimentali, Noelle-Neuman giunse alla definizione di “clima d’opinione”: si tratta della percezione che ha ognuno di noi sull’ambiente esterno circa le opinioni pubbliche. Tale teoria comprende anche la concezione secondo la quale le opinioni avvertite in recessione tendono a diventare come mute e quelle percepite come vincenti riempiono il vuoto lasciato e si ingigantiscono. La studiosa tedesca, approfondendo il campo, ha trovato conferma delle sue ipotesi nei precedenti studi sulla paura dell’isolamento degli individui rispetto al gruppo ed anche in un passo del filosofo ottocentesco Alexis de Tocqueville sulla Rivoluzione Francese: “gli uomini che serbavano l’antica fede temettero di essere soli, e temendo l’isolamento più che l’errore, si unirono alla folla senza pur pensare come essa. Per tal motivo quello che non era ancora se non il sentimento di una parte della nazione, parve l’opinione di tutti”.

La ‘spirale del silenzio’ – questo il termine con cui la Noelle-Neumann definisce la propria teoria – risponde dunque al semplice meccanismo della paura dell’isolamento.

Un’abbondante e documentata ricerca sociologica sugli effetti cognitivi dei media ha messo in rilievo la grande spaccatura fra il mondo reale ed il mondo rappresentato dai media, che possono intervenire sull’opinione pubblica e sul suo spostamento in modi diversi. Da una parte coloro che hanno un punto di vista percepito come minoritario sono maggiormente disposti a renderlo pubblico se sostenuti dai media anche se consapevoli della propria posizione di minoranza; dall’altra un determinato punto di vista nei media consente a coloro che sposano l’opinione espressa dai media di esprimerlo e difenderlo nelle interazioni sociali nel modo migliore, grazie ai mezzi forniti loro dagli stessi media. Infine i sostenitori di un’opinione maggioritaria sufficientemente diffusa diventeranno a lungo andare incapaci di argomentare pubblicamente a loro favore, non trovandosi quotidianamente in contrasto con un’opinione differente.

Circa il rapporto fra media ed opinione pubblica si cade sempre nella domanda se siano i media a creare l’opinione o l’opinione a influenzare i media: sicuramente i mezzi di comunicazione forniscono la pressione ambientale alla quale le perone rispondono con acquiescenza e silenzio e allo stesso tempo rappresentano una delle fonti di osservazione dell’opinione pubblica.

I media in conclusione sono detentori di un gran potere sull’opinione pubblica, ma allo stesso tempo hanno in sé un’insanabile fragilità: Walter Lippmann, giornalista statunitense vissuto a cavallo del ‘900, afferma che “essa difatti è ben più fragile di quanto la teoria democratica abbia finora ammesso, troppo fragile per portare il peso della sovranità popolare”.

Appare, infatti, difficile ignorare il fatto che i media hanno la facoltà di rendere visibile del mondo solo ciò che vogliono, e ciò finisce per costituire il mondo dei soggetti; ma allo stesso tempo non potrebbe esistere l’azione dei media senza un ordine di priorità nella massa: ecco dunque l’immenso, ma anche modesto, potere dei media.

Ddl omofobia: agire per resistere

Siamo lieti di comunicare che da oggi nasce La Manif pour Tous Italia con l’autorizzazione ed in stretto legame con La Manif pour Tous francese. La Manif pour Tous in Francia ha avuto l’inaspettato merito di risvegliare milioni di coscienze. Con un taglio trasversale portato avanti prima di tutto dalla gente comune, condiviso personalmente da personaggi politici di tutti gli schieramenti, da associazioni di persone omosessuali, e da credenti di tutte le religioni e non credenti, ha sostenuto con fermezza e rispetto che il matrimonio possa essere composto solo da un uomo ed una donna. Un movimento nato nella società civile e apertamente apolitico e aconfessionale. La Manif pour Tous Italia si sente in sintonia con queste istanze e con questo metodo.


LA SITUAZIONE IN ITALIA


La proposta di legge in discussione alla Camera dei Deputati che ci ha messo tutti in allarme è quella sul Contrasto all’omofobia e alla transfobia scaricabile dal sito della Camera dei Deputati (http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0003090.pdf). Ma poche persone sanno che il 18 giugno 2013 è stato avviato l’iter legislativo al Senato della Repubblica sulla proposta di legge per l’Accesso al matrimonio da parte delle coppie formate da persone dello stesso sesso (chiamata “Matrimonio egualitario”). Inoltre, nel cassetto c’è anche quella della Modificazione dell’attribuzione di sesso. Il tutto è consultabile in maniera chiara su internet sul sito della Rete Lenford (http://www.eventiretelenford.it/ ), una rete di avvocati che ha redatto queste proposte.

La discussione della legge in “Contrasto all’omofobia e alla transfobia” proposta dal deputato Ivan Scalfarotto (PD) come integrazione della Legge Mancino Reale, istituisce tra i reati che persegue, il crimine legato alla discriminazione di genere, punendolo con il carcere. È quindi una vera e propria legge bavaglio. Una volta espiata la pena, il condannato potrà anche subire una “rieducazione sociale” prestando servizio civile nelle associazioni “omosessuali, bisessuali, transessuali o transgender”.

Cosa vuol dire? Che se pubblicamente si dichiara che il matrimonio tra persone dello stesso sesso non sia paragonabile a quello tra uomo e donna (sulla proposta di legge giocano sul concetto di “idee fondate sulla superiorità”), questa affermazione possa essere benissimo letta come una discriminazione, se non addirittura un incitamento alla violenza, verso le persone omosessuali, cosa che può portare al carcere fino a quattro anni. In più, strumentalizzando episodi di violenza contro persone omosessuali, che noi tutti condanniamo con fermezza, ufficializza per la prima volta a livello legislativo l’ideologia gender, che rappresenta solo una minoranza all’interno del variegato mondo omosessuale.

È chiaro che questa prima proposta è un cavallo di troia per far passare senza troppa fatica le altre due proposte di legge, compresa l’adozione da parte delle persone dello stesso sesso. Nella proposta di legge sul “Matrimonio egualitario” c’è l’esplicita volontà di sostituire le parole “marito e moglie” con la parola “coniugi”. Insomma, una vera decostruzione di ciò che da sempre ed in tutte le culture è stato considerato il cardine della società umana, la famiglia fondata tra un uomo ed una donna.


OBIETTIVI DE LA MANIF POUR TOUS ITALIA


La Manif pour Tous Italia ha lo scopo di essere il portavoce di tutti coloro che, al di là della propria provenienza e sensibilità, si senta rappresentato a contrastare una legge che vuole istituire un reato di opinione e preparare la strada allo stravolgimento dell’istituto matrimoniale composto da un uomo ed una donna. Soprattutto in un momento nel quale la politica non si interessa dei problemi veri degli italiani, che risiedono in campo economico e lavorativo.

La Manif pour Tous Italia ha perciò tra i suoi obiettivi anche quello di far conoscere ai cittadini italiani – rendendole comprensibili – l’esistenza di tali leggi e fin dove esse si spingano. Riteniamo vincente l’iniziativa che parte dalla società civile, e che coinvolge trasversalmente tutti sotto forma di rete. Ognuno è indispensabile alla causa. Sentiamo il dovere di ribadire che questa iniziativa è apolitica e aconfessionale.


MANIFESTAZIONE DEL 25 LUGLIO


Come atto inaugurale delle nostre attività, abbiamo organizzato la nostra prima uscita pubblica sullo stile dei Veilleurs, che in Francia hanno dato testimonianza con la semplice e pacifica presenza in prima persona. Ci disporremo su piazza Montecitorio, davanti al Parlamento, giovedì 25 luglio dalle ore 19.00 alle ore 21.00 circa. Verrà distribuita a tutti i partecipanti una candela da utilizzare durante la veglia, come richiamo a non spegnere la propria coscienza.

A chiunque verrà, consigliamo di portare anche un bavaglio, a ricordare che la libertà di pensiero e di parola può sempre essere a rischio. A voi chiediamo cortesemente di:

- promuovere l’iniziativa tra i vostri contatti, via mail, Facebook e Twitter, ecc.;

- collaborare ad allargare questa rete in tutta Italia.

Regola 17: Il calcio d'angolo

Il calcio d’angolo è un modo di riprendere il gioco.
Un calcio d’angolo viene accordato quando il pallone, toccato per ultimo da un calciatore della squadra difendente, ha interamente superato la linea di porta, sia a terra, sia in aria, senza che una rete sia stata segnata in conformità a quanto stabilito nella Regola 10.

Una rete può essere segnata direttamente su calcio d’angolo ma unicamente contro la squadra
avversaria.

Procedura
• il pallone deve essere posto all’interno dell’arco d’angolo più vicino al punto in cui il pallone stesso ha oltrepassato la linea di porta;
• la bandierina d’angolo non deve essere rimossa;
• i calciatori della squadra avversaria devono rimanere ad almeno a m. 9,15 dall’arco d’angolo fino a quando il pallone non sia in gioco;
• il pallone deve essere calciato da un calciatore della squadra attaccante;
• il pallone è in gioco quando è calciato e si muove;
• il calciatore che ha eseguito il calcio d’angolo non deve toccare il pallone di nuovo prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore.

Infrazioni e sanzioni
CALCIO D’ANGOLO ESEGUITO DA UN CALCIATORE DIVERSO DAL PORTIERE:

se, dopo che il pallone è in gioco, il calciatore che ha eseguito il tiro tocca il pallone di nuovo (non con le mani) prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore:
• un calcio di punizione indiretto verrà accordato alla squadra avversaria nel punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).

se, dopo che il pallone è in gioco, il calciatore che ha eseguito il tiro tocca volontariamente il pallone con le mani prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore:
• un calcio di punizione diretto verrà accordato alla squadra avversaria nel punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).
• un calcio di rigore verrà accordato se l’infrazione è stata commessa all’interno dell’area di rigore del calciatore che ha eseguito il calcio d’angolo.

CALCIO D’ANGOLO ESEGUITO DAL PORTIERE:
se, dopo che il pallone è in gioco, il portiere tocca di nuovo (non con le mani) il pallone prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore:
• un calcio di punizione indiretto verrà accordato alla squadra avversaria, nel punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).

se, dopo che il pallone è in gioco, il portiere tocca volontariamente il pallone con le mani prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore:
• un calcio di punizione diretto verrà accordato alla squadra avversaria se l’infrazione è stata commessa all’esterno dell’area di rigore del portiere. Questo calcio di punizione diretto dovrà essere eseguito dal punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).
• un calcio di punizione indiretto verrà accordato alla squadra avversaria se l’infrazione è stata commessa all’interno dell’area di rigore del portiere. Questo calcio di punizione indiretto dovrà essere eseguito dal punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).

Per tutte le altre infrazioni a questa regola:
il calcio d’angolo dovrà essere ripetuto.

La coerenza di Gramsci

«Vorrei che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai vergogna di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in un certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione». 
Chi scrive è Antonio Gramsci in una delle Lettere dal carcere, diretta alla madre. Oltre il dramma personale, ciò che emerge è l’ostentata coerenza del politico, pronto a sopportare persino la prigionia del confino in nome delle proprie idee. Peccato che quegli ideali per i quali, a conti fatti, fu costretto a subire un odioso destino, l’intellettuale comunista li abbracciò solo in un secondo momento, dopo essersi fatto foriero di idee totalmente contrarie alla democrazia.
Alla fine di giugno del 1911, Antonio Gramsci conseguiva la licenza liceale a Cagliari. A ottobre si trasferiva a Torino, dove si iscriveva all'università. I suoi studi (aveva dato meno della metà degli esami previsti) si interromperanno nella primavera del 1915, al momento in cui decise di dedicarsi a tempo pieno alla politica. Ma la decisione di iscriversi al Partito socialista italiano l'aveva maturata già alla fine del 1913. Il suo più grande amico all'epoca era Angelo Tasca, a fianco del quale vivrà l'intera stagione iniziale della sua vita, dall'esperienza socialista a quella comunista. La sua prima uscita pubblica, sul settimanale «Il Grido del popolo», fu però di critica a Tasca per aver, quest'ultimo, condannato con toni eccessivamente radicali la svolta interventista di Benito Mussolini (ottobre 1914). A suo avviso Mussolini non aveva torto, dal momento che la politica di preparazione rivoluzionaria del proletariato poteva trarre vantaggio dall'intervento italiano nella guerra contro gli Imperi centrali. Successivamente sarebbe stato tentato di collaborare al «Popolo d'Italia», il nuovo giornale di Mussolini, ciò che gli verrà rinfacciato - dal sindacalista Mario Guarnieri - nel 1921, al momento della fondazione del Partito comunista.
Un curioso debutto, su cui si sofferma Leonardo Rapone nel capitolo iniziale di Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919) , un grande studio sulla formazione del leader comunista, pubblicato nel 2011. Rapone sostiene che considerare quella presa di posizione filomussoliniana di Gramsci come un «mero incidente di percorso» o «un'acerba esercitazione giovanile» è un modo di far torto alla sua già complessa personalità degli inizi.
Quel Gramsci ai primordi è un ragazzo colto, che interviene in tutti i dibattiti dell'epoca. Condanna come «intorbidante» l'anticlericalismo dell'«Asino» di Guido Podrecca, saluta con entusiasmo la beatificazione di Giuseppe Benedetto Cottolengo. Combatte alcune sue piccole e grandi battaglie contro i gesuiti, contro la massoneria (ma nel '24, con l'unico discorso che tenne a Montecitorio da deputato comunista, si pronuncerà contro il decreto mussoliniano di messa fuori legge della stessa), contro la bestemmia, contro il commercio al minuto («medievalismo economico»). Si pronuncia contro l'adozione dell'esperanto come lingua unica che, secondo i suoi compagni di partito, dovrebbe giovare alla comprensione tra i popoli. Si schiera contro il gioco del lotto. A favore del calcio («Un modello della società individualistica, vi si esercita l'iniziativa ma essa è definita dalla legge»). A favore dello scoutismo «officina del carattere», ma solo nella versione inglese di sir Robert Baden-Powell. Più in generale è affascinato da tutto ciò che riguarda l'Inghilterra. Nello stesso tempo disprezza la borghesia italiana «arruffona, senza una cultura, senza una idealità» così come da una celebre lettera di Engels a Turati del 1894.
Il primo articolo di Gramsci sulla stampa socialista, nell’ottobre 1914, mostrava interesse per la posizione di Mussolini, contrario a un neutralismo assoluto del Psi di fronte alla Prima guerra mondiale.
Ha in grande antipatia i socialisti riformisti: Claudio Treves, Filippo Turati. È, invece, un grande ammiratore di Gaetano Salvemini, lettore della sua rivista «L'Unità», e fa parte del gruppo di giovani socialisti che nel '14 gli propongono di candidarsi come indipendente nel Psi, partito che aveva lasciato polemicamente qualche anno prima. Lo è ancor più di Giovanni Amendola, del quale apprezza i toni di deprecazione («L'Italia come oggi è, non ci piace», aveva scritto Amendola su «La Voce» nel dicembre del 1910). Stima personaggi lontani dal materialismo marxista quali Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, Giovanni Gentile, al quale, quando l'Università di Torino nel 1914 gli negherà la cattedra di Storia della filosofia, lui e Tasca faranno giungere, tramite il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, un'affettuosa lettera di solidarietà. E, in modi ancor più espliciti, mostra interesse nei confronti del liberale Benedetto Croce. Approva Francesco De Sanctis per aver denunciato alcuni aspetti negativi del carattere italiano: «l'insincerità», «il fare e non fare, il permettere e non permettere», «l'ipocrisia nei rapporti tra singolo e collettività... tra singolo e singolo», «quello stare in sull'ambiguo e tenersi nel mezzo e lasciarsi dietro l'uscita». Sulla scia di Bertrando Spaventa, si dichiara antipatizzante di Giuseppe Mazzini, al quale imputa l'astrattismo delle idee democratiche.
Un segno particolare della subalternità di Gramsci alla cultura del suo tempo - messa in evidenza per primo da Eugenio Garin - è riscontrabile nell'adesione del giovane socialista sardo alla campagna (di Salvemini, Prezzolini, Papini, Amendola e del «Corriere della Sera») contro Giovanni Giolitti. Il rigetto di Gramsci nei confronti della politica di Giolitti, fa notare Rapone, «non è semplicemente il frutto della critica del decennio giolittiano da parte di un socialista profondamente calato, come è Gramsci, nel nuovo spirito intransigente del socialismo italiano affermatosi al congresso di Reggio Emilia del 1912, in rotta con il riformismo filogiolittiano del periodo precedente». Per lui Giolitti è il simbolo di tutto ciò che testimonia della corruzione dell'organismo nazionale e che fa diversa l'Italia da un vero Stato liberale. «Il giolittismo», afferma, «è la marca politica del decimo sommerso italiano: l'insincerità, l'affarismo, il liberalismo clericale, il liberalismo protezionistico, il liberalismo burocratico e regionalista».
Il giovane Gramsci, come molti intellettuali d’inizio secolo, si mostra sempre nettamente ostile alla politica dello statista liberale Giovanni Giolitti (nella foto), visto come il massimo corruttore della vita pubblica italiana proprio per la sua politica di cauta apertura verso il socialismo riformista
Le modalità della sua invettiva contro Giolitti diventeranno uno schema che si ripresenterà più volte, anche dopo la sua morte e quando di Giolitti si sarà quasi persa memoria, per tutto il Novecento: ottimo era il «liberalismo autentico» di Cavour; pessimo quello dei «tempi in cui viviamo», in un'Italia nella quale i liberali «hanno preferito mandare Cavour in soffitta» e «i partiti politici non perseguono programmi di politica generale, ma seguono singoli individui, i "cacicchi", come li chiamano in Ispagna». Anche lui, sulla scia del direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini, prenderà l'abitudine di qualificare il metodo di governo di Giolitti come una «dittatura». E ancora nel 1917, quando tra i socialisti si fa largo la tentazione di accogliere le avances di Giolitti per dar vita ad un governo «migliore» che prepari «le condizioni più favorevoli di vita e di sviluppo della classe operaia», Gramsci indica quello statista come «il pericolo maggiore da combattere per i socialisti» e lo definisce «un avversario, forse, in questo momento, il più temibile degli avversari». Nell'urto assai forte con il giolittismo, fa notare Rapone, «resta, malgrado le analogie verbali, una fondamentale diversità di ispirazione, e non solo per l'ovvia ragione che si trattava di antigiolittismi che muovevano da fronti politici opposti, ma per il diverso rapporto che dalle due parti si istituiva tra Giolitti e il liberalismo: se per la frizzante intellettualità borghese Giolitti era il simbolo dello scivolamento del liberalismo verso la democrazia, qui stava l'origine della sua funzione corruttrice e da qui veniva ammonimento a stringere piuttosto che ad allargare le maglie della concezione liberale, per Gramsci Giolitti, semplicemente, nulla aveva a che vedere con il vero liberalismo e ne faceva rimpiangere l'assenza in Italia». «I liberali in Italia sono soltanto uno scherzo di cattivo genere. Essi non si distinguono in nulla dalle altre correnti sociali; politicamente valgono zero», scrive. Quanto a Giolitti, «in concreto ha sempre voluto dire: protezione doganale, accentramento statale con la tirannia burocratica, corruzione del Parlamento, favori al clero e alle caste privilegiate, schioppettate sulle strade contro gli scioperanti, mazzieri elettorali». Nessuna indulgenza per le aperture di Giolitti al riformismo socialista. Anzi: il suo è «un programma di trasformismo, di confusionismo delle forze politiche italiane». L'uomo di Dronero «ha dato sempre all'Italia i peggiori dei governi, i più truffaldini dei governi». Ma il vero bersaglio polemico di Gramsci è la democrazia contrapposta al liberalismo, in particolare quello dell'esperienza storica inglese.
Pagine molto interessanti sono quelle dedicate dal libro di Rapone all'atteggiamento assai critico di Gramsci nei confronti della democrazia. Pagine che echeggiano quelle molto lucide scritte all'inizio degli anni Novanta da Luciano Cafagna in C'era una volta... Riflessioni sul comunismo italiano (Marsilio). E, in parte, anche quelle di Massimo Salvadori in Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi). «La democrazia è la nostra peggiore nemica, è quella con la quale dobbiamo sempre essere pronti a fare a pugni, perché intorbida il limpido distacco delle classi, e vorrebbe quasi diventare le molle della carrozza che servono a far pesar meno sulle ruote il carico dei passeggeri e ad evitare gli scossoni che possono far ribaltare», sentenzia Gramsci sull'«Avanti!» nel febbraio del 1916.
È un Gramsci che appare in sintonia con Georges Sorel, il quale nella democrazia aveva visto «all'opera lo spirito corruttore della pacificazione sociale» e l'aveva condannata per la sua «pretesa di attenuare la contrapposizione tra le classi e di temperare il conflitto con sdolcinatezze umanitarie e logiche di compromesso». Meglio, molto meglio il liberalismo. La diversità di trattamento riservata da Gramsci al liberalismo e alla democrazia riflette, secondo Rapone, la convinzione che mentre il liberalismo è dottrina francamente borghese e capitalistica, e come tale ben saldamente collocata sulla direttrice dello sviluppo storico, la democrazia, con la sua pretesa di porre la sovranità del popolo a fondamento dello Stato, è una maschera, un travisamento della realtà, perché i «fini essenziali» dello Stato sono «determinati dalla struttura economica della società»; la democrazia è perciò un'illusione e una fonte di illusioni, una capitolazione dell'intelligenza e dell'analisi storica davanti al sentimentalismo irriflessivo e passionale.
La democrazia, scriverà ancora Gramsci su «Il Grido del popolo» nell'ottobre del 1918, «esplica una funzione morbosa di confusionismo, di scrocco, di predicazione dell'incoerenza. È impaludamento, più che effettivo progresso». Parole che rimandano a Sorel, il quale per primo aveva usato l'espressione «pantano democratico». Ma richiami, diretti o indiretti, coinvolgono anche Benedetto Croce. L'imputazione alla democrazia del vizio dell'astrattismo politico, ad esempio, rimanda alla polemica crociana contro l'«assai sommaria cultura» dei democratici francesi e italiani.
Nell'individuazione del giacobinismo, e dunque dello spirito democratico borghese della Rivoluzione Francese, come sorgente inquinata del pensiero democratico si deve sottolineare, secondo Rapone, la sua insistenza sulle inclinazioni autoritarie connaturate a una concezione della storia e della politica come lotta per l'affermazione di valori assoluti e trascendenti. Sono temi su cui si è soffermato Vittore Collina nel saggio Giacobinismo e antigiacobinismo, pubblicato nel monumentale I (Utet), a cura di Salvo Mastellone. «Giacobinismo?», si domanda Gramsci nel momento per lui più drammatico, quello in cui con un colpo di mano Lenin fa sciogliere l'Assemblea Costituente (gennaio 1918). E così risponde: «Il giacobinismo è un fenomeno tutto borghese di minoranze tali anche potenzialmente. Una minoranza che è sicura di diventare maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità e di instaurare il suo ordine all'infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità». Dunque «lo scioglimento della Costituente è per noi un episodio di libertà nonostante le forme esteriori che fatalmente ha dovuto assumere». Tesi azzardata, ma che, per Gramsci, serviva a tenere in piedi l'impianto ideologico ostile al giacobinismo.
Scrive su «Il Grido del popolo» nel giugno del 1918:«Il "pensiero libero" dei socialisti porta con sé una grande tolleranza nelle discussioni e nelle polemiche, mentre il "libero pensiero" dei massoni e dei libertari è intollerante e giacobino. I socialisti, in quanto pensano liberamente, storicisticamente, comprendono la possibilità della contraddizione, e perciò più facilmente la vincono, e allargano così la sfera ideale e umana delle proprie idee. I libertari, in quanto sono dogmatici intolleranti, schiavi delle particolari loro opinioni, si insteriliscono in vane diatribe, rimpiccioliscono tutto. Non potendo immaginare che gli altri la pensino diversamente da loro (e questa mancanza di fantasia logica e storica è appunto la schiavitù del loro pensiero), nella contraddizione, nella critica non sanno vedere che motivi volgari, bassamente interessati». Di qui la necessità del «riconoscimento dell'avversario»: «Primo canone di realismo è riconoscere la realtà degli altri». E ancora: «Non rimproveriamo agli avversari del socialismo di essere avversari del socialismo; avendo una coscienza esatta della nostra personalità, del compito che ci siamo proposti, del metodo attraverso il quale cerchiamo di raggiungere i nostri fini, comprendiamo perfettamente che possano e anzi debbano esistere i nostri avversari».
Nel corso della Prima guerra mondiale, allorché - in seguito ai moti torinesi dell'agosto 1917 - fu varato il «decreto Sacchi» che introduceva limiti alla libertà di espressione e di stampa, Gramsci tornò a criticare fortemente la democrazia: «La tradizione giuridica italiana», denunciò su «Il Grido del popolo», «è stata sovvertita da un ministro democratico che... ci fa tornare ai tempi barbarici».
Sulla scia di queste concezioni politiche è abbastanza sorprendente quel che Gramsci scrive al cospetto della rivoluzione russa dell'ottobre 1917. Merito della rivoluzione sarebbe stato quello di aver «ignorato il giacobinismo». Secondo Gramsci, la rivoluzione leninista «non tende all'instaurazione di un potere che abbia bisogno di sostenersi con la violenza e il dispotismo; il movimento non è sospinto da una fazione, ma esprime i bisogni della maggioranza della popolazione, e questa maggioranza, appena sarà messa in condizione di pronunciarsi, dimostrerà di volersi riconoscere nell'opera della rivoluzione».
Poi verrà, come si è detto, l'amara sorpresa dello scioglimento della Costituente. Alla quale ne seguiranno di peggiori. E, drammaticamente, Gramsci dovrà rivedere molte delle idee che avevano caratterizzato, tra il 1914 e il 1919, la sua formazione. Quasi tutte, dando ragione, con buona pace di qualsiasi coerenza incrollabile, a Biagio Pascal, qualora afferma: «Non c'è uomo che differisca di più da un altro che da se stesso nella successione del tempo».

Giovanardi a La Gazzetta del PAGO: "Emergenza omofobia? La inventano i media"

Onorevole Giovanardi, quali risvolti avrebbe il disegno di legge proposto da Scalfarotto in materia di omofobia se diventasse legge?

E’ evidente che se passasse questa legge verrebbero criminalizzate diverse affermazioni: ad esempio che al matrimonio possano accedere non più solo un uomo e una donna, ad esempio che i bambini possano essere adottati soltanto da coppie eterosessuali e non da coppie omosessuali. Ci sarebbero sanzioni penali nei confronti di chi sostiene queste tesi. Una volta scattata la pena ci sarebbero inoltre forme di rieducazione, da scontare addirittura presso associazioni di omosessuali: tutto ciò è veramente lesivo della libertà religiosa. Chi può impedire alla Chiesa Cattolica di leggere quello che c’è scritto nella Bibbia, nel Vangelo o negli Atti degli Apostoli? Purtroppo la questione in Francia ed in Inghilterra sta assumendo aspetti tragici: abbiamo esempi di fermi, di arresti e di interrogatori di persone che si limitavano a predicare quello che c’è scritto nel Vangelo. Il ddl è eterofobo: rappresenta un’aggressione alla libertà di pensiero e di parola contenuta nella nostra Costituzione.


Qual è la posizione del PdL a riguardo?

Il PdL non condivide questo testo, ma la vera battaglia adesso è mettere a conoscenza i cittadini italiani di quello che sta accadendo perché purtroppo questi aspetti non sono emersi quasi da nessuna parte.


Esiste in Italia un’emergenza omofobia che giustifichi iniziative legislative in materia?

L’emergenza omofobia se la inventano i media. L’altro giorno circa l’incendio al Liceo Socrate a Roma, tutti i giornali hanno affermato che era un attentato omofobo: poi dopo due giorni si è scoperto che erano stati quattro studenti che, essendo stati bocciati, hanno dato fuoco alla scuola per vendetta. Ma l’Italia è o non è il paese in cui i presidenti di due delle più grandi regioni del Sud sono entrambi dichiaratamente omosessuali praticanti, sia Vendola che Crocetta? E’ o non è il Paese in cui un ministro, Pecoraro Scanio, si dichiarava pubblicamente omosessuale? E’ o non è il Paese un cui nell’arte, nello sport, nella cultura, nell’impresa ci sono, per meriti loro e delle loro capacità, ci sono persone straordinarie che hanno fatto carriera e sono dichiaratamente omosessuali? Ma di che cosa stiamo parlando? Un conto è il rispetto per tutti, la piena libertà per tutti, un conto è voler imporre un’ideologia eterofoba, imbavagliando gli altri e sostenendo cose che vanno contro la nostra Costituzione, laica e repubblicana, e anche contro il diritto naturale.


Il ddl sull’omofobia va in contrasto con la Costituzione per quanto riguarda la libertà religiosa, ma anche per la libertà di stampa sancita dall’articolo 21: è d’accordo?

Certamente. Se queste idee vengono criminalizzate, per la legislazione sulla stampa, anche chi pubblica questo tipo di impostazione, rischia la denuncia. Sarebbe una gravissima limitazione anche alla libertà di stampa.

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Calderoli razzista, sinistra buonista

Come tutti ricordano, domenica è stato il giorno dello scandaloso turpiloquio del vicepresidente del Senato, Calderoli, leghista, rivolto al ministro Kyenge, additata come "un orango".
Un pazzo, null'altro. Calderoli non è nuovo a accuse di questo genere, e getta sempre più fango su un partito già in profonda crisi.

Le sue uscite non tengono conto della sua vita politica, disastrosa come il porcellum da lui ideato, e non possono proprio esistere nel 2013 in un paese civilizzato. 

Oltretutto, ormai la Kyenge (a cui va piena solidarietà per l'accaduto) è incriticabile, perché si è fatta (in questa affermazione non c'è alcuna critica al ministro) una sorta di scudo che la dovrebbe proteggere in futuro da attacchi politici, gli unici in realtà giustificabili. 

Ma, dopo aver condannato ampiamente il fatto, una riflessione sorge spontanea. La sinistra si è -ovviamente e giustamente - scagliata contro Calderoli, addirittura offendendo -i più estremi lo hanno fatto - anche lo stesso senatore dal punto di vista estetico (per logica, non andrebbe offeso nemmeno lui, anche se poteva venire facile, ma le offese in risposta ad offese francamente non hanno senso). 
Molti gli hanno dato del "porcello", del "classico leghista pezzo di m...", e via discorrendo. Male, a nostro avviso.
E poi c'è il grande buonismo solito di una certa sinistra.Tutti hanno espresso ribrezzo, e ci sta, ma se un Vendola, o un Civati, o non so chi, avesse dato del "nano" a Brunetta, della "prostituta" ad ogni donna del PDL, della "mummia" a Berlusconi, allora non sarebbe stato male. Allora sarebbero state delle dichiarazioni innocenti, alle quali non deve seguire alcuna scusa, perché è più facile esigere le scuse, piuttosto che scusarsi. 

Lungi dal giustificare Calderoli, impariamo - tutti, sia a destra che a sinistra - a non fare i buonisti, a non fare industria del "oh che schifo, oh che vergogna", per raccattare voti, qua e là. Iniziamo dall'essere coerenti, e non offendere mai. Il resto viene da sé.

Ingroia da Crocetta: la politica del riciclo non tramonta mai

La politica del riciclo va sempre di moda ed Antonio Ingroia ne è l'ultimo esempio: il supertrombato delle ultime elezioni - una volta supermagistrato - ha finalmente trovato un lavoro ben retribuito nella sua Sicilia. Niente di strano, se non fosse che questo lavoro  è - più o meno direttamente - alle dipendenze dell'amico di sempre Rosario Crocetta. L'esule di Aosta sarà infatti commissario di una società pubblica di informatizzazione, la Sicilia e-Servizi, commissariata per una truffa di oltre 200 milioni di euro. Crocetta, dopo aver mancato l'accordo con Ingroia per l'ufficio riscossione, spiega il nuovo incarico dell'ex procuratore con la presenza mafiosa nelle aziende in questione: "alla Sicilia e-Servizi lavorano la figlia di Stefano Bontade, il capomafia, e alla Venture il genero. È una società molto strana la Venture, fa parte del cartello di Sicilia e-Servizi ma prende tutti i suoi appalti".

La domanda del cittadino medio sorge spontanea. Ingroia è un dipendente pubblico da una vita al quale i contribuenti pagano da sempre lo stipendio, recalcitrante nei confronti del Consiglio Superiore della Magistratura, sprezzante del principio basilare delle democrazie moderne della divisione dei poteri: è possibile che una figura del genere debba continuare a vivere con le imposte degli stessi cittadini che cinque mesi fa lo hanno cancellato dalla politica con il voto delle politiche? È possibile che la nostra burocrazia e la nostra pubblica amministrazione non riesca mai a dare un'immagine di sé che non sia quella di chi sperpera denaro riciclando poltrone a chi non vuole smettere di scaldarne una alle spalle dei cittadini?

Ddl contro l'omofobia: l'Italia a un passo dalla dittatura

La questione Biancofiore ci aveva messo sull’attenti circa la dittatura del pensiero debole – o, se si preferisce, leggasi dittatura delle lobby omosessuali – nella quale rischia di cadere il nostro Paese. A distanza di due mesi il rischio sembra essere ancora più concreto. Considerazione necessaria per la comprensione di quanto ci apprestiamo a scrivere e motivazione fondante del concetto – sicuramente grave ma purtroppo reale – appena esposto è la definizione di dittatura; carattere fondante della dittatura è l’accentramento dei poteri in una sola istituzione, ma la storia ci insegna che ciò è possibile in un solo caso: quando la libertà di parola non è più garantita ugualmente a tutti i cittadini.
Ivan Scalfarotto, deputato PD promotore del ddl contro
l'omofobia  e la transfobia.

Tenendo ben chiaro questo aspetto – o, se ancora non se ne è convinti, tenendo a mente i regimi dittatoriali instauratosi da un secolo a questa parte – è possibile chiarire l’affermazione con cui abbiamo aperto questo articolo: il ddl «per il contrasto dell’omofobia e della transfobia», presentato dall’on. Ivan Scalfarotto (PD, dichiaratamente omosessuale), andrà a modificare la legge n°205/1993, in tema di la violenza discriminatoria motivata da odio etnico, nazionale, razziale o religioso.

Il ddl, proposto da 70 deputati, si apre con queste parole: “Onorevoli colleghi! Sulla scia degli episodi di omofobia e transfobia che hanno funestato il nostro Paese negli ultimi anni, è diventato ineludibile affrontare un problema che da tempo le associazioni a tutela delle persone lesbiche, omosessuali, bisessuali, transessuali e transgender (LGBTI) denunciano. L’omofobia e la transfobia sono fenomeni non affatto nuovi, ma l’eco mediatica di quanto accaduto di recente ha destato finalmente l’attenzione sociale e della classe politica”. La sostanziale aggiunta del ddl proposto da democratici, montiani, esponenti di SEL e del MoVimento 5 Stelle sta nella pena fino a 18 mesi di reclusione per chi commette atti discriminatori motivati dall'identità sessuale o anche solo incita a commetterli: si tratta fra l’altro di una pena ben superiore a quella di chi discrimina per motivi etnici, razziali, religiosi o nazionali.

Il ddl rappresenta un pericolosissimo attentato all'articolo 21 della nostra Carta Costituente, che garantisce a tutti i cittadini il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione: è infatti prevista un pena detentiva per tutti coloro si macchiano di uno dei seguenti “reati”:

  • sollecitare istituzioni pubbliche o parlamentari a non legalizzare il matrimonio omosessuale;
  • rendere pubblico il proprio disaccordo con l’ideologia sublimata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, secondo la quale non ammettere una coppia gay al matrimonio costituirebbe discriminazione motivata dall'identità sessuale;
  • manifestare in qualsiasi maniera il proprio disaccordo con la legalizzazione delle nozze gay;
  • esprimere il proprio dissenso dall’ideologia che disconosce l’omosessualità come “grave depravazione”, magari citando addirittura la Bibbia;
  • dichiararsi contrari all’omosessualità in quanto atto “contro natura”. 

Alla luce di quanto appena evidenziato è chiaro che una tale legge imporrebbe un censura severissima su una quantità di pubblicazioni difficilmente immaginabili (questo blog compreso!), e colpirebbe sicuramente gli scritti del Beato Giovanni Paolo II, del Papa Emerito Benedetto XVI, che ad oggi permeano una parte – seppur minoritaria – della nostra informazione: sarebbe inoltre oggetto di censura anche la prima enciclica di Papa Francesco, la Lumen Fidei, in cui – al punto 52 – il Santo Padre afferma che “la famiglia nasce dal loro amore [dell’uomo e della donna], […] dal riconoscimento e dall’accettazione della differenza sessuale”.

Se il ddl in questione diventasse legge tutti gli omosessuali avrebbero riconosciuto il diritto di far chiamare in giudizio chiunque manifesti una sessualità diversa dalla loro, indipendentemente dall’atteggiamento di quest’ultimo, esclusivamente per aver espresso un pensiero diverso da quello che si vuole imporre secondo il quale l’omosessualità necessita indispensabilmente di essere legalizzata. L’aspetto forse più grave della proposta sta nel tentativo di omologare la morale facendola sottostare ad una legge imposta dall’alto che non risponde in alcun modo né alla volontà popolare né ai supremi valori dettati dalla nostra Carta Costituzionale: viene assunto come parametro giuridico il relativismo etico, prospettando così che in futuro si possa discutere l’equiparazione indistinta di tutte le pratiche sessuali.

Si riportino alla mente le nozioni di storia acquisite circa le dittature del XX secolo: non si è trattato di società in cui lo Stato ha voluto regolamentare ogni aspetto della vita del cittadino, morale compresa? Il ddl presentato da Scalfarotto & Co. rappresenta dunque a tutti gli effetti un attacco giudiziario contro chi non ritiene necessario legalizzare il matrimonio omosessuale e l’adozione di figli da parte di coppie gay: si tratterebbe di un pericoloso e rapido passo verso la situazione francese, in cui anche è diventato motivo di arresto anche semplicemente vestire una maglietta con stilizzata una famiglia “normale”.

La Gazzetta del PAGO appoggia la raccolta firme per fermare la legge contro l'omofobia: clicca qui.

Regola 16: Calcio di Rinvio


Il calcio di rinvio è un modo di riprendere il gioco.
Un calcio di rinvio viene accordato quando il pallone, toccato per ultimo da un calciatore della squadra attaccante, ha interamente superato la linea di porta, sia a terra, sia in aria, senza che una rete sia stata segnata in conformità a quanto stabilito nella Regola 10.

Una rete può essere segnata direttamente su calcio di rinvio ma unicamente contro la squadra avversaria.

Procedura
• il pallone è calciato da un punto qualsiasi dell’area di porta da un calciatore della squadra difendente;
• i calciatori avversari devono restare al di fuori dell’area di rigore fino a quando il pallone non sia in gioco;
• il calciatore che ha eseguito il calcio di rinvio non deve toccare il pallone di nuovo prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore;
• il pallone è in gioco quando è calciato direttamente al di fuori dell’area di rigore verso il terreno di gioco.

Infrazioni e sanzioni
Se il pallone non è stato calciato direttamente fuori dall’area di rigore:
• il calcio di rinvio dovrà essere ripetuto.

CALCIO DI RINVIO ESEGUITO DA UN CALCIATORE DIVERSO DAL PORTIERE:
se, dopo che il pallone è in gioco, il calciatore che ha eseguito il tiro tocca di nuovo il pallone (non con le mani) prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore:
• un calcio di punizione indiretto verrà accordato alla squadra avversaria nel punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).

se, dopo che il pallone è in gioco, il calciatore che ha eseguito il tiro tocca volontariamente il pallone con le mani prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore:
• un calcio di punizione diretto verrà accordato alla squadra avversaria e dovrà essere eseguito dal punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13– Punto di esecuzione del calcio di punizione).
• un calcio di rigore verrà accordato se l’infrazione è stata commessa all’interno dell’area di rigore del calciatore che ha eseguito il calcio di rinvio.

CALCIO DI RINVIO ESEGUITO DAL PORTIERE:
se, dopo che il pallone è in gioco, il portiere tocca di nuovo il pallone (non con le mani) prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore:
• un calcio di punizione indiretto verrà accordato alla squadra avversaria nel punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13 – Punto di esecuzione del calcio di punizione).
se, dopo che il pallone è in gioco, il portiere tocca volontariamente il pallone con le mani prima che questo sia stato toccato da un altro calciatore:
• un calcio di punizione diretto verrà accordato alla squadra avversaria se l’infrazione è stata commessa all’esterno dell’area di rigore del portiere e dovrà 
essere eseguito dal punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13
– Punto di esecuzione del calcio di punizione).
• un calcio di punizione indiretto verrà accordato alla squadra avversaria se l’infrazione è stata commessa all’interno dell’area di rigore del portiere e dovrà essere eseguito dal punto in cui è stata commessa l’infrazione (vedi Regola 13– Punto di esecuzione del calcio di punizione).

Per tutte le altre infrazioni a questa regola:
• il calcio di rinvio dovrà essere ripetuto.