Quello che la politica non dice


​A meno di un mese dalle elezioni politiche, la moltiplicazione delle polemiche incrociate che alimentano la campagna elettorale è inversamente proporzionale al rilievo offerto a temi che invece occupano la quotidianità degli italiani, dalla famiglia alla scuola, dal lavoro alla sanità, all’impegno sociale. Per restituire a queste e altre grandi questioni pressoché rimosse nella contesa pre-elettorale il peso e la centralità che gli spetta e che hanno nella vita della gente avviamo, da oggi, una ricognizione critica delle posizioni (esplicitate o taciute) di aggregazioni e partiti che si candidano a ottenere il consenso dei cittadini e a guidare il Paese nella prossima legislatura. Il primo tema dell’«Agenda Italia» è naturalmente quello che sta a fondamento di tutto l’edificio sociale: la tutela della vita umana.

Il diritto alla vita è il primo e fondamentale diritto umano, condizione per l’esistenza stessa di tutti gli altri e per il godimento di qualsiasi libertà. Per questo la tutela della vita umana è un dovere inderogabile della società e dello Stato, e non può essere assoggetata ad alcun altro principio. La politica dovrebbe riconoscere questa come la piattaforma elementare condivisa su cui costruire qualsiasi scelta, anche perché il diritto alla vita è garantito da tutte le costituzioni e i codici internazionali.

Eppure la storia recente documenta una sequenza di eccezioni a questo primato che per natura sarebbe indiscusso e che invece – per effetto di leggi e sentenze – non lo è più quasi ovunque, Italia inclusa. Dall’aborto all’eutanasia, il diritto alla vita sta perdendo la sua funzione di fondamento di ogni affidabile etica sociale per diventare una variabile condizionata da altre libertà e altri diritti, resa funzionale e strumentale, in balia di forze, interessi, richieste, desideri. I programmi di coalizioni e partiti risentono di questa drammatica frana culturale: e a fronte di (pochi) programmi nei quali il diritto alla vita è ancora riconosciuto, prevalgono le dichiarazioni elettorali che non spendono una sola parola su questioni come l’applicazione delle leggi 194 e 40, le scelte di fine vita e le gravi disabilità – limitandosi a una neutralità rispettosa di posizioni anche antitetiche all’interno dello stesso cartello di formazioni politiche –, oppure avversano apertamente ogni limite puntando sulla deregulation nel nome dell’individualismo e della piena autodeterminazione. Opzioni politiche a favore o contro il diritto alla vita, così come i silenzi nei programmi, sono materia nevralgica per la formazione di una scelta elettorale informata.

Anche perché – che le coalizioni si pronuncino o meno – le questioni in tema di tutela della vita sono urgenti e decisive, e sarà inevitabile che Parlamento e governo usciti dalle urne si pronuncino su molti nodi tuttora irrisolti. A cominciare dal fenomeno degli aborti, che per quanto in progressivo calo è ancora attestato attorno alle 110mila interruzioni di gravidanza l’anno – un numero enorme, se si pensa a cos’è un aborto –, con una quota di donne straniere in forte crescita. Di fronte a questo silenziato mare di dolore si intende lasciar fare nel nome di un asserito "diritto" oppure si vuole valorizzare e imitare il lavoro dei Centri di aiuto alla vita, che si mettono accanto alla donna per aiutarla a scegliere senza pressioni (ambientali, economiche, culturali) improprie, cioè con piena ed effettiva libertà da bisogni indotti? La pillola abortiva, che si vorrebbe "liberante", è invece un ingannevole trucco per relegare l’aborto nel buio e nella solitudine, che può essere parzialmente risparmiato dall’obbligo di legge (eluso in vari ospedali) del ricovero fino al completamento dell’aborto. Le stesse pillole del giorno dopo e dei cinque giorni meritano uno stringente controllo per evitare che diventino la facile anticamera per il nuovo dilagare degli aborti (perlopiù assai precoci) cui si è assistito in altri Paesi. Problemi lancinanti sono anche agli aborti selettivi, l’ossessiva diagnostica prenatale a caccia di imperfezioni presunte, il numero abnorme di parti cesarei, mentre continua l’assalto contro l’essenziale e costituzionalissimo diritto all’obiezione di coscienza.

Uno dei punti più controversi è l’applicazione della legge 40, che si vorrebbe piegare fino a svellerne le regole (tuttora, checché se ne dica, quasi integralmente in piedi nonostante le spallate per via giudiziaria), per legittimare la selezione degli embrioni e la libertà di scartare gli esemplari difettosi. L’eugenetica, liquidata tra gli orrori della storia, sta rientrando dalla finestra per effetto di pratiche selettive che si pretenderebbero legali, finendo così per uccidere il malato anziché impegnare la ricerca scientifica nella strenua lotta alla malattia. La produzione e il congelamento incontrollato degli embrioni (per ogni bimbo nato ci sono dieci embrioni creati: una distorsione clamorosa e censurata) pone il problema della spinta culturale a preferire la provetta all’adozione. Per tutelare la vita umana più fragile occorre proteggere l’embrione con uno scudo legale quale quello proposto dalla mozione europea "Uno di noi", animata dalla stessa cultura che vorrebbe una legge umana sul fine vita capace di proteggere dalla solitudine e da pulsioni autodistruttive le persone nel tratto più vulnerabile della vita, risparmiando loro l’impressione di sentirsi "di troppo". Magari perché assai costosi per la collettività. Stati vegetativi, Sla, malattie neurodegenerative, gravi disabilità, malattie rare meritano la massima e incondizionata protezione dello Stato. Ma chi si espone a parlarne in campagna elettorale?


da Avvenire.it

Allarme non profit: le casse sono vuote

A comletamento dell'articolo proposto ieri sull'utilizzo dei soldi dei contribuenti italiani  per finanziare un'associzione no profit come l'Arcigay, proponiamo un interessante articolo a firma di Nicoletta Martinelli sulla situaione in cui si trovano le "vere" associazioni no profit, che non godono di suddetti finanziamenti.

​ «Tutto il terzo settore è stato duramente colpito dalla situazione economica attuale». La crisi ha sigificato meno elargizioni e non a parole ma nei fatti «la non-politica ha ridotto il 5xmille a un misero 3xmille»: Bruno Pescia racconta le difficoltà della piccola Onlus-Noprofit fondata in memoria del figlio Andrea che garantisce istruzione, pasti caldi e cure amorevoli a 150 bambini di una favela di Fortaleza, in Brasile. «I fondi del 5xmille sono passati da 12.500 a 10.000 euro. Ma lo sapevamo, l’aria che tirava era brutta da tempo, purtroppo!».

L’“Associazione Andrea Pescia” – come tantissime realtà simili – sa che è necessario ingegnarsi. Sempre, e di questi tempi anche di più. Ieri, a Padova, il signor Bruno e la rete di volontari che ha saputo tessere hanno presentato il frutto di due anni di fatica, un film – realizzato a costo zero «o quasi», ci tiene a precisare Pescia – che racconta la vicenda di Andrea, ucciso in Brasile nel 2006.

La crisi deprime anche la generosità e chi sperava che il 2012 sarebbe stato l’anno della risalita sarà quasi certamente deluso.

Paradossalmente, a entrare in crisi sono sempre più spesso quei servizi a carattere sociale o socio-sanitario che si occupano di persone in difficoltà a causa della crisi e che assumono un ruolo decisivo proprio nel contrasto di quel disagio. Il cortocircuito è dietro l’angolo: perché se è vero che molte strutture sono in sofferenza e non è escluso che si risolvano a chiudere i battenti a causa dei tagli o delle mancate erogazioni da parte delle amministrazioni pubbliche è anche vero che fino a oggi sono state quelle stesse amministrazione pubbliche ad appoggiarsi al non profit, in una logica di sussidiarietà e competenza.
L’indagine sull’andamento delle raccolte fondi nell’anno passato è in corso, realizzata come sempre dall’Osservatorio di sostegno al Non Profit sociale dell’Istituto Italiano della Donazione: le Onp che volessero dare il loro contributo alla ricerca possono compilare il questionario (entro il 17 febbraio) all’indirizzo
www.istitutoitalianodonazione.it.

I primi dati sul 2012 confermano che il periodo nero cominciato nel 2011 non è ancora superato: tra gennaio e giugno dello scorso anno le cose sono andate molto peggio di quanto le organizzazioni immaginassero. Se il 39% confidava in un miglioramento, solo poco più di un terzo – il 14% – ha visto confermate le aspettative, raccogliendo più donazioni dai privati. Vedeva un futuro nero il 24% delle associazioni e invece è stato il 39% a dover fare i conti con una realtà meno rosea del previsto e con una generosità ridotta ai minimi termini. La carità degli italiani, indicata dalla metà del campione preso in esame dall’Iid come la fonte più consistente delle entrate, perde 11 punti percentuali. Lo stesso succede con le aziende che di punti percentuali ne perdono 16.

Le Onp sono già ben oltre l’orlo della crisi. Colpa della considerevole contrazione delle offerte sborsate da privati, sia persone fisiche sia aziende, che si somma ai tempi lunghi dello Stato nel pagamento dei già risicati fondi del  5Xmille, ai tagli alle politiche sociali. Infine ma non ultimo ha avuto ricadute pesantissime sul settore la recente imposta dell’Imu applicata anche agli enti non commerciali.

Davvero la depressione delle offerte originata dalla crisi può venir trasformata in un’opportunità di crescita e di cambiamento?

«Tutto è molto più difficile e la strada è in salita. Ma grazie a parecchio entusiasmo e ad altrettanto sudore abbiamo coperto le spese per tutto il 2013 e i nostri bimbi per ora stanno tranquilli. Piangersi addosso – conclude Bruno Pescia – non serve a nulla, occorre tirarsi su le maniche e darsi da fare con idee innovative. Senza contare sulle istituzioni, più abili a togliere che a concedere».

Arcigay: i profitti di una no-profit



L’Arcigay è una rinomata e conosciuta associazione senza scopo di lucro, che - per definizione - dovrebbe vivere esclusivamente di donazioni. E tuttavia nei mesi scorsi un indecente muro di omertà è finalmente crollato, riportando alla luce una realtà di cui è davvero difficile essere orgogliosi.
Il Comune di Bologna ha difatti elargito negli ultimi mesi cifre considerevoli nelle casse della sede cittadina dell’associazione, pari non solo alla metà delle spese delle utenze, ma anche un non meglio definito contributo di 41 000 €. Si tratta di emolumenti da aggiungere al comodato d’uso gratuito della sede dell’associazione, che costa ai contribuenti bolognesi la modica cifra di 72 000 € annui, cifra appena sufficiente per consentire ai gay bolognesi di pagare abbondantemente dj e feste in discoteca.
La domanda dunque sorge spontanea: si tratta di un caso isolato o della punta di un iceberg? Si tratta di una prassi consolidata per tutte le 52 sedi dell’Arcigay sul territorio nazionale o un caso a sé stante? Speriamo - di cuore - di avere presto risposte e -altrettanto sinceramente - di essere tranquillizzati che i soldi degli onesti cittadini italiani non vadano a rifornire le casse di un’associazione apparentemente no profit.

I cattivi pensieri di Conte



Titoli unanimi sui quotidiani sportivi e non di ieri e oggi: Furia Conte, Conte: Vergogna! e chi più ne ha poi ne metta. Juve-Genoa è stata una partita delicata dunque, e - quando in ballo c'è l'aspirante al tricolore, a maggior ragione se a strisce bianconere - non può essere altrimenti. Episodi per la moviola ce ne sono stati in abbondanza e se ne è già parlato a sufficienza nonostante non siano trascorse nemmeno 48 ore dal triplice fischio. Chi ha una certa familiarità con questo blog può facilmente notare come l'argomento calcistico trovi ben poco spazio: e tuttavia ogni qual volta si decida di affrontarlo, ci si imbatte sempre in un personaggio che - se competente o meno nel suo lavoro non abbiamo la presunzione di esprimerci - si mette in evidenza più per sceneggiate fuori dal campo che per meriti sul terreno di gioco: parliamo di Antonio Conte, il cui unico episodio sul campo degno di nota di questo inizio d’anno è stata la placida ammissione di colpa sul gol dell’1-1 di Sansone nella partita con il Parma di poche settimane fa.
Sabato invece il buon Conte si è superato prima con un’indegna protesta dopo il fischio di Guida, poi con un’altrettanto vergognosa intervista ai microfoni di Mediaset. Lui che si dichiara “un uomo di sport” non dovrebbe arrivare ad avere “cattivi pensieri” sulla designazione di uno degli arbitri più in forma del campionato solo perché la sua sezione è a 20 km da Napoli. Ma, se i cattivi pensieri a Conte sono venuti in mente, bisogna chiedersi il perché: forse perché in 5 partite la Juventus ha racimolato la miseria di 4 punti? Forse perché il vantaggio sulla seconda si è ridotto a 3 punti? Forse perché la tanto augurata penalizzazione del Napoli è stata annullata?
Un ultima considerazione che ci faccia riflettere su quante sciocchezze si possano dire a caldo dopo una partita se non si fa attenzione, soprattutto davanti ai microfoni: se dessimo ragione a Conte circa le designazioni arbitrali per partite di squadre vicine in classifica alla propria (sempre che un arbitro che arriva in Serie A possa ancora avere una squadra...) i 21 arbitri della CAN A non sarebbero sufficienti a gestire 10 partite a settimana: facendo proprio il Conte-pensiero il designatore dovrebbe evitare di designare Rizzoli, Mazzoleni, Romeo, De Marco e Bergonzi per partite di squadre in zona retrocessione, essendo chi di Bergamo, chi di Verona, chi di Genova e chi di Bologna. Per non parlare poi di fischietti come Doveri, Valeri, Guida, Rocchi e Russo, che si vedrebbero precluse tutte le partite della prima colonna della classifica, “potendo favorire” Roma, Lazio, Napoli e Fiorentina. Rimarrebbero dunque solo una decina di arbitri, sempre che non si considerino i vari Massa di Imperia, Banti di Livorno, Peruzzo e Orsato di Schio potenziali “aiutanti” di Genoa, Samp, Fiorentina e Chievo. Nel qual caso domenica prossima sul campo, ma col fischietto in bocca, rischiamo di trovare Conte e Marotta.

DE GASPERI. La politica come servizio



Tra gli autorevoli ritratti delle grandi personalità della Prima Repubblica, con cui ERRATA CORRIGE sta accompagnando queste settimane che precedono le urne, quello di oggi riguarda un uomo, alla cui azione dobbiamo, in parte, la libertà sovrana e democratica grazie alla quale potremmo esprimere il voto: si tratta di Alcide De Gasperi. Il testo dell’articolo è quello scritto e pubblicato da Giulio Andreotti sulla sua storica rivista, “Concretezza”, nel lontano 1964.
“Perché Alcide De Gasperi non può considerarsi alla stregua degli altri uomini politici che hanno rimesso in cammino l'Italia dopo il totale smarrimento suscitato dalla guerra e dalla sconfìtta?
Forse non può riassumersi in una sola caratteristica il suo profilo, ma crediamo di non sbagliare scrivendo che egli si era formato alla scuola della sofferenza e della intransigente fermezza. Figlio di povera gente, potè compiere gli studi soltanto perché trovò sul suo cammino anime generose che, apprezzandone il valore, lo aiutarono a studiare. Non ebbe mai il «di più» e le cronache della sua attività organizzativa, tra gli studenti e gli operai, ci descrivono un contorno di totale mancanza di mezzi finanziari. La Vienna brillante dell’ «epoca bella » gli fu del tutto estranea e nessun cenno ne fece mai per farci capire che se ne dolesse. Credeva più consono alla sua missione l'affrontare le bastonate dei gendarmi di Innsbruck, molestati dalla insistenza dei goliardi trentini per ottenere l'Università italiana. Soffrì durante la guerra europea per il quotidiano peregrinare nei campi dove erano reclusi i profughi delle province venete e cercò con ogni mezzo di aiutarli con l'assistenza materiale e con 1’appoggio politico, tanto difficile nel momento della sospensione dell'attività del Parlamento e delle guarentigie per i deputati.
Quando la Camera viennese riapre ed altri (anche i socialisti, benché colpiti dall'assassinio di Battisti) si piegano a votare per il governo imperiale e per le spese militari, De Gasperi beve tutto intero il calice della dignità e della fermezza, resistendo sulle posizioni negative. Ed il discorso più fiero da lui pronunciato come deputato di Trento a Vienna è forse proprio quello detto all'indomani di Caporetto, quando la vittoria finale degli austriaci sembrava scontata.
Seguirono invece Vittorio Veneto, l'annessione delle terre redente ed il passaggio di lui al Parlamento di Roma. I tempi erano quanto mai difficili e noi ci guardiamo bene dal sentenziare con la facile leggerezza del poi sulle responsabilità e sugli errori di quella classe politica. Certo, un De Gasperi fatto di realismo e di idealismo insieme si trovò a disagio in un ceto nel quale la tattica prevaleva, il personalismo dominava, la vanità oscurava la vista di tutto e faceva mal comprendere le involuzioni in corso.
Più si approfondisce questo desolante quadro di democrazia in disfacimento e meglio si ridimensiona la figura storica di Mussolini e dei suoi seguaci. Fu un giuoco da bambini sopraffare anche i cattolici politici, dilaniati da opposte correnti dissolvitrici ed impreparati alla violenza di piazza.
Don Sturzo aveva detto che le vittorie sarebbero state dell'idea, le sconfitte degli uomini. Su queste sconfitte bruciò il sale amaro dell'abbandono — forse necessario storicamente — da parte del Vaticano. E fu un fuggi fuggi generale, nel quale alla nobiltà dell'esilio dello stesso Sturzo e di Donati e alla resistenza interna di altri si contrapposero troppi compromessi e tante meschine furbizie.
La terra ormai scottava per De Gasperi nel Trentino ed a Roma (dove alcuni amici facevano perfino finta di non riconoscerlo, incontrandolo per strada). L'ospitalità di Ivo Coccia era divenuta pericolosa, sia per l'amico che tanto rischiava — pur con le giornaliere visite della polizia — sia per lui che non si faceva illusioni sulla brevità della dittatura fascista.
Resta ancora da dimostrare se partendo silenziosamente per Trieste pensasse di espatriare; quel che è certo è che, arrestato ad Orvieto, fu condannato duramente a questo titolo, nonostante mancasse qualunque elemento di prova. La famiglia era ormai tornata in Valsugana e solo la fedele consorte — arrestata insieme a lui, ma presto rilasciata — veniva di tanto in tanto a spezzarne l'isolamento morale. Un Padre gesuita non sgradito ai potenti, il Tacchi Venturi (ma De Gasperi preferirà l'amicizia di Padre Rosa, sospettato e mal visto dai gerarchi) sottoporrà inutilmente alla firma di De Gasperi e della signora Francesca una domanda di grazia. Non si piegò il Presidente e, certamente con intima pena, la sua sposa non ne tradì la volontà di resistere.
Liberato, conobbe le asprezze ed anche le volgarità del pedinamento e della sorveglianza. E conobbe la fame. Dovette aspettare la conciliazione per avere un piccolo ufficio in Vaticano e nel carteggio del momento vi sono cenni di una grande preoccupazione di non compromettere chicchessia, di non disturbare, a causa di una sua sistemazione, il Vaticano nei suoi rapporti non facili (apparenze a parte) con il fascismo. E sono dello stesso tempo bellissime lettere nelle quali, vincendo ogni risentimento personale, loda i trattati del Laterano valutandone il significato storico, di chiusura di una lacerante controversia e di possibile alba di un sistema nuovo di libertà per la Chiesa, anche se si doveva attendere, lavorare, patire ancora.
Meuccio Ruini ha raccontato che quando andò da De Gasperi, in Biblioteca Vaticana, a proporgli la collaborazione dei cattolici nel costituendo Comitato centrale antifascista, era dubbioso sulle possibilità di una accettazione, non per mancanza di volontà del vecchio amico, ma per la gerarchia cattolica, che avrebbero potuto imporre cautela ai primi passi della rinata partecipazione dei cattolici alla vita politica. Tanto maggiore fu la gioia, sua e di Ivanoe Bonomi, quando a sole ventiquattro ore di distanza ebbe una adesione piena ed incondizionata. Se così non fosse stato, la guerra avrebbe egualmente sconfitto il fascismo, ma molto probabilmente l'Italia avrebbe ondeggiato tra una lunga occupazione militare ed una affermazione delle forze di estrema sinistra.
De Gasperi firma la Costituzione il 27/XII/1948
Gli anni dal 1944 al 1953 possono apparentemente sembrare estranei al ciclo della sofferenza, nella vita di De Gasperi, tutti pieni di cronache imponenti di successi parlamentari, di affermazioni internazionali, di riconoscimenti tanto vasti della sua capacità e della sua dirittura. Non mancarono, però, ombre anche sul decennio di luce. Tra queste: l'iniziale, pesante incomprensione degli Alleati; la spina di Trieste e della Venezia Giulia; l'attacco violento e inaspettato di Orlando contro la necessaria ratifica del Trattato di pace; le troppe paure per dissociarci dai comunisti; il lento incrinamento della compattezza del partito; la lotta alla candidatura presidenziale di Sforza; la scomparsa della sua cara sorella; la mancanza di solidarietà nel momento drammatico della Corea; le stupide accuse... multilaterali di empirismo, di liberalismo e di tiepidezza anticomunista; certe preoccupazioni della Chiesa per la dilagante immoralità e il futuro politico dell'Italia (non bisogna però dimenticare lo splendido elogio pubblico che di De Gasperi fece Pio XII l'11 febbraio del 1949); l'esito delle elezioni del 1953 e la « miseria parlamentare » che ne conseguì.
Battuto alla Camera, fece ancora uno sforzo che direi sovrumano — considerando lo stato avanzato della sua malattia — per tenere davvero compatta la Democrazia cristiana, della quale avvertiva la necessità storica unitaria e, in contrapposto, la discrasia avanzante. Cercò di far raggiungere questa unità con una grande ripresa di vasto respiro attorno al problema internazionale del momento — la ratifica della CED — ma sui eum non receperunt. Ormai la tattica e la ricerca di alleanze su piccole cose avevano preso la mano quasi a tutti.
E pensare che di De Gasperi — che morì con questa ansia nel cuore — si era detto che si trattava di un uomo troppo aperto al compromesso e alle transazioni. Anche chi non ne capì la grandezza comincia a doversi necessariamente ricredere."
Testo dell’articolo apparso sul numero monografico dedicato a De Gasperi della rivista "Concretezza", anno X (1964), n. 16



L'Universo e le sue meraviglie



La notizia , arrivata già al termine del 2012 e confermata negli ultimi giorni in occasione del meeting della Società Astronomica Americana, è sbalorditiva. Vengono presentati gli ultimi dati rilevati dal satellite per le osservazioni, denominato "Kepler", e gli astronomi ci restano di stucco : esistono milioni di pianeti simili alla terra , più precisamente la stima si aggira intorno ai 17 miliardi. Calcolando inoltre che le galassie sono un centinaio la cifra risulta enorme. Si consideri però che questi pianeti sono troppo piccoli per essere identificati con gli strumenti classici ; per ottenere tale risultato il satellite adotta una tecnica tanto semplice ( per modo di dire) quanto geniale. Si apposta nell'osservazione continua di determinate porzioni di stelle per un periodo di tempo piuttosto lungo e , se è presente un pianeta , accadrà che la stella che si trova sulla sua orbita subirà , per un istante, una diminuzione di luminosità essendo oggetto di una velocissima mini-eclisse , detta in inglese blink , parola utilizzata per esprimere il battere di ciglia dell'occhio umano. Rilevato quindi il blink il software di Kepler ne misura la frequenza e l'intensità di variazione luminosa ricavando la massa e l'orbita del pianeta. Il risultato sperato dagli scienziati è stato conseguito in quanto circa la metà dei pianeti rilevati presenta un'atmosfera, satura di vapore acqueo, di nebbia. L'universo insomma sembra più a portata di mano di cinquant'anni fa. Scrive il fisico italiano Carlo Rovelli :" Penso che si ragionevole aspettarsi chissà quale varietà di cose e strutture nell' universo, difficili per noi da immaginare più di quanto un computer sia difficile da immaginare per un cacciatore del neolitico", e ancora :"La scoperta che il nostro pianeta non è l'eccezione ma la norma riporta l'universo a una dimensione più umana". La tecnica necessaria per arrivare su questi pianeti è certo ancora distante anni luce. Però chissà, forse un giorno...

Parigi, Roma e la vera famiglia



Parigi. Poco più di due settimane fa, domenica 13, le strade della capitale francese si sono riempite di manifestanti, non tanto contrari alla nuova legislazione sulle coppie omosessuali e sulla possibilità di adottare bambini, quanto più a difesa della tradizionale struttura della famiglia, quella stessa struttura grazie alla quale esiste chi scrive questo articolo come anche chi legge. Non si tratta di una sterile protesta negativa, ma di una ben più fertile protesta attiva, non all’insegna di “valori” negativi, bensì all’insegna di valori positivi ed imposti alla nostra società da una cultura tutt’altro che opprimente, che al contrario ci trasmette un bagaglio di principi indispensabili per qualsiasi civile convivenza.
Il presidente Hollande si è visto recapitare una lettera dell’ex premier Francois Fillon che prende una netta posizione sull’argomento e - dall’alto della sua esperienza a capo del governo dal 2007 al 2012 -, si permette di suggerire al Presidente di abbandonare un progetto legislativo che non farebbe altro che spaccare la Francia, senza alcun vantaggio reale: non sarebbe segno di debolezza, bensì di responsabilità e coscienziosità. “Signor presidente, il 13 gennaio numerosi francesi manifesteranno contro  il suo progetto di legge che apre al matrimonio e all'adozione per le coppie dello stesso sesso. In modo grave e sincero, saranno gli interpreti di una Francia che rimane legata al quadro tradizionale del matrimonio. Questa Francia non va dimenticata o stigmatizzata. Le sue preoccupazioni sono reali, le sue motivazioni profonde e argomentate”.
“Roma come Parigi” si augura qualcuno. O forse, teme qualcuno. Un timore dettato dalla situazione estrema in cui versa la Francia socialista, una situazione che - si spera - non arrivi a dettare una simile reazione nei nostri confini. Ma, già in concomitanza con le precedenti manifestazioni parigine, anche la Città Eterna ha manifestato in difesa "della famiglia naturale composta da un uomo e una donna, della filiazione naturale e del diritto del bambino di essere allevato da un padre e da una madre". Fidarsi e bene, ma non fidarsi e meglio, e allora meglio iniziare a prepararsi a difendere a denti stretti le nostre famiglie.

Difese Asia Bibi: rischia la rimozione

Ne avevamo parlato in uno degli ultimi giorni del 2012, ed in questa settimana il tema è tornato tremendamente attuale: il nome di Asia Noreen Bibi non può tornarci nuovo, come d'altronde le terribili persecuzioni di cui sono vittime i cristiani sparsi nel mondo. Di oggi questa notizia - tratta dal sito dell'Avvenire - circa l'ambasciatrice statunitense che si espresse a favore di Bibi: per lei il governo pachistano chiede la rimozione dall'incarico.
Liaqat Baloch, segretario generale del partito islamico conservatore pachistano Jamaat-e-Islami, ha chiesto la rimozione dall'incarico dell'ambasciatrice negli Usa, Sherry Rehman, che avrebbe chiesto asilo a Washington a causa di un processo di blasfemia aperto nei suoi confronti. Lo riferisce il quotidiano The News International di Islamabad.

La settimana scorsa la Corte Suprema ha ritenuto ammissibile un ricorso di un cittadino di Lahore che ha denunciato la Rehman per aver criticato oltre due anni fa in un programma televisivo la legge pachistana sulla blasfemia in base a cui è stata condannata a morte la madre cristiana Asia Bibi.

Durante una riunione ieri del Comitato di coordinamento del partito, che ha legami con i Fratelli Musulmani mediorientali, Baloch ha sostenuto che l'ambasciatrice ha provato di essere fedele agli Usa e non al Pakistan, chiedendo asilo nonostante l'incarico diplomatico attribuitole.

Nel 2011 la Rehman fu minacciata di morte dai talebani per aver presentato una legge di modifica agli articoli del codice penale indiano sulla blasfemia che contemplano pene pesantissime, compresa la pena capitale, per chi offende il Corano ed il profeta Maometto.

Dieci anni senza l'Avvocato: il ricordo dell'Arcivescovo

“L'Avvocato Agnelli amava davvero l'Italia e Torino, quando andava all'estero era orgoglioso di essere italiano e questo è l'esempio, che si dovrebbe seguire anche oggi da parte delle istituzioni, dei rappresentanti del mondo economico, politico e dell'Azienda”. Così si è espresso monsignor Cesare Nosiglia arcivescovo di Torino, alla vigilia del decimo anniversario della morte dell’Avvocato. “L'Avvocato Agnelli - continua ancora l’arcivescovo - amava Torino nel cercare di costruire il suo futuro e questo dovrebbe essere alla base dell'azione anche oggi delle istituzioni e della stessa Azienda . Torino - afferma poi parlando della sua città oggi - ha bisogno di investimenti, certo, ma anche di affetto, fiducia e speranza per il futuro. Io non ho conosciuto personalmente l'Avvocato Agnelli, ma, come tutti, ho seguito le sue vicende e ricordo la sua perseveranza nel lavoro e la sua capacità di saper superare con lungimiranza i momenti di crisi e di promuovere relazioni e il dialogo con tutte le parti e il suo esempio dovrebbe essere ancora oggi testimonianza». Giovedì l’arcivescovo di Torino celebrerà, alla presenza del Presidente della Repubblica, una messa in suffragio nel decimo anniversario nel duomo della città. «Questa celebrazione - conclude - vuole essere uno stimolo a guardare avanti, a seguire il suo esempio e insegnamento, in modo che si possa mettere in gioco tutto ciò che serve non solo perché la Fiat resti a Torino ma perché si senta sempre più inserita nel tessuto di questa città, dove è nata”.

Tersili-Savastano: il sangue del terrorismo rosso



Era il lontano 1982 quando, in una giovedì 21 gennaio come oggi, i Carabinieri Ausiliari Euro Tarsilli e Giuseppe Savastano, entrambi della stazione di Monteroni d'Arbia, in provincia di Siena trovavano la morte per mano dei Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria. Avevano 19 e 20 anni e sono morti nell’adempito del loro dovere al servizio della comunità, come ricorda la menzione che accompagna le loro medaglie d’oro al valor civile, che recita: “Carabiniere Ausiliario impegnato in operazione di ricerca degli autori di una rapina, poi risultati appartenenti a pericolosa organizzazione eversiva, mentre si accingeva a concorrere all'azione del Comandante della Stazione improvvisamente coinvolto, durante il controllo di elementi sospetti, in conflitto a fuoco veniva raggiunto mortalmente da colpi d'arma da fuoco esplosi proditoriamente dai malfattori. Sacrificava così la propria vita nel generoso slancio al servizio della collettività”.
Dopo una rapina avvenuta a metà mattina ad un’agenzia senese della Monte dei Paschi, veniva attuato - come da prassi - il blocco delle strade limitrofe: lungo la Strada Statale 2 - la Cassia - nel comune di competenza i due carabinieri - insieme al Maresciallo Capo Augusto Barna - fermavano la corriera diretta a Montalcino. Insospettiti dal comportamento e dalle risposte di un paio di persone le invitano a scendere per ulteriori accertamenti ma, appena scesi dalla corriera, vengono colpiti dai colpi esplosi dai malviventi: il Maresciallo - ferito - riesce a rispondere al fuoco, i due Carabinieri vengono colpiti a morte.
Al momento dei funerali le indagini circa il commando terrorista colpevole della strage sono ancora in corso, ma Siena si fermava per l’ultimo saluto ai suoi uomini, i cui nomi da allora sono sempre stati uniti dal comune destino.

BETTINO CRAXI. Storia di un leader


Nel 13° anniversario dalla sua morte, avvenuta nell'esilio di Hammamet - dopo essergli stato negato il ritorno in patria per un delicato intervento chirurgico - vi sono molti italiani per cui il caso Craxi è ancora, e deve restare, esclusivamente giudiziario. Pensano che non abbia senso chiedersi se abbia avuto e quali siano stati i suoi meriti politici. Ritengono che le condanne, nei due processi in cui fu imputato, contino più di qualsiasi altra considerazione. Credo che commettano un errore. Non possiamo ridurre la vita di Craxi al suo epilogo giudiziario senza rinunciare a comprendere un intero periodo della storia nazionale. Craxi fece in quegli anni alcune battaglie politiche. Ignorarle significa implicitamente dare partita vinta ai suoi avversari. Piaccia o no Bettino Craxi va discusso e giudicato, anzitutto, sulla base dei suoi programmi e delle sue iniziative.
Craxi avanzò proposte e sollevò problemi che erano stati sino ad allora ignorati o evitati. Capì che il sistema politico si era inceppato e ne propose la riforma con la elezione diretta del presidente della Repubblica. Capì che non era possibile lasciare le sorti dell’economia nelle mani di un sindacato per cui il salario era una «variabile indipendente», e vinse il referendum sulla scala mobile. È a lui inoltre, che va ascritto il merito di aver condotto un’aspra battaglia contro l’evasione fiscale, allora galoppante, attraverso l’introduzione dell’obbligo per i commercianti del registratore di cassa e dello scontrino fiscale. Capì che la sicurezza dell’Italia dipendeva dal rapporto con gli Stati Uniti, e ribadì gli impegni presi dal governo Cossiga sulla dislocazione dei missili Cruise a Comiso; ma tenne testa agli americani nella vicenda di Sigonella, dopo il dirottamento dell’Achille Lauro, e riuscì a farlo senza pregiudicare i suoi rapporti con il presidente Ronald Reagan. Capì l’importanza dell’integrazione europea e guidò il fronte europeista contro Margaret Thatcher al Consiglio europeo del Castello Sforzesco nel giugno 1985. Capì che occorreva modernizzare i rapporti con la Chiesa cattolica e firmò con il cardinale Casaroli il Concordato del 1984. Sostenne il dissenso nell’Unione Sovietica e nelle democrazie popolari. E tentò infine di dare al partito socialista, grazie al culto di Garibaldi, un’ascendenza risorgimentale. La campagna per il «socialismo tricolore» fu anzitutto un’operazione culturale, ma le sue ricadute politiche furono complessivamente positive. Una delle sue caratteristiche più discusse fu quella che venne definita, con un termine ingiustamente spregiativo, decisionismo. Oggi, dopo l’importanza assunta da alcune personalità nella vita politica dei maggiori Paesi democratici dovremmo riconoscere che Craxi capì qual fossero, soprattutto in un’epoca di grandi modernizzazioni, le responsabilità di un leader.
Non fu avulso da alcuni eccessi di spettacolarizzazione (celebri le scenografie congressuali ideate dall'architetto Filippo Panseca) che furono criticati dai suoi stessi compagni di partito: Rino Formica coniò, per l'Assemblea Nazionale del 1991, l'eloquente immagine di una "corte di nani e ballerine". Si rinunciò al tradizionale anticlericalismo socialista (con l'approvazione del Concordato) e fu infine ridotta e poi eliminata (dal 1985) la falce e martello dal simbolo storico del PSI, sostituendola col garofano rosso, che da allora divenne emblema del partito. Ma lo stile craxiano del potere produsse anche conseguenze che non è possibile ignorare o sottovalutare. La prima fu il brusco aumento del debito pubblico (accompagnato però da un dimezzamento dell’inflazione), una colpa a cui i governi successivi non vollero o non poterono rimediare. La seconda fu Tangentopoli, vale a dire un sistema di finanziamenti illeciti che inquinò la vita politica nazionale ed ebbe effetti perversi sul bilancio dello Stato. Sono i meriti di Craxi, paradossalmente, che rendono queste colpe particolarmente gravi. Un modernizzatore deciso e intelligente non avrebbe dovuto permettere la costruzione di una macchina che era in effetti il contrario della modernità. Esiste una evidente contraddizione tra le ambizioni riformatrici di Craxi e un sistema che antepone la clientela al merito, il pagamento di una tangente alla qualità dell’opera. Non ho mai pensato che Craxi potesse essere considerato il solo responsabile di un tale fenomeno. Ma le responsabilità di un leader sono tanto maggiori quanto più grandi sono le sue ambizioni e i suoi programmi. Gli storici non potranno riconoscere i suoi meriti senza constatare al tempo stesso i suoi errori.
Adattato da Sergio Romano, Il ritratto di un leader, Corriere della Sera ®, [18/I/2010]


Arrivano le critiche per Jackson e la sua Contea


E così il povero Bilbo Baggins finisce insieme a tutta la comitiva di nani e stregoni nel cinico vortice di critiche di ogni genere. La "più bella storia per bambini degli ultimi cinquant'anni " (W.H.Auden) ,presentata da Tolkien per la prima volta nel 1937, viene coraggiosamente ripresa da uno dei migliori registi fantasy contemporanei , sir Peter Jackson , per essere trasportata nell'affascinante mondo della cinematografia. Di sicuro si concorderà a priori che l'idea è azzeccata , in quanto il tratto favolistico proprio de " Lo Hobbit " calza perfettamente con le trovate tanto fantasiose quanto geniali tipiche di Jackson. Inoltre , è innegabile che la conclusione della trilogia di film " Il Signore degli Anelli" abbia lasciato a migliaia di veterani tolkieniani e neo amanti del genere una lieve amarezza ; la fine di un sogno. Splendido quindi , si sarebbe portati a pensare, che si voglia tentare di regalare un ultimo istante di fantasia all'interno di questo mondo incantevole." Avventato , dettato da sole mire economiche!" dichiarano invece i giornali che criticano a tutto spiano l'idea giudicata presuntuosa e interessata. E naturalmente tutto ciò ha seguito con varie critiche sugli effetti e sulla decisione di dividere gli avvenimenti in un'altra trilogia. Fanpages, blog e canali youtube si riempiono d'improvviso di gente che critica, critica, critica. La maggior parte delle considerazioni negative sono però fragili, insicure, basate su di un'analisi eccessivamente pignola del film. Il primo e più diffuso rimprovero è quello sulla mancata riproposizione del tema epico - dark tipico de " Il signore degli Anelli", al quale non risulta difficile rispondere: stabilito che un libro non è l'altro e viceversa (Lo hobbit iniziò per l'autore come favola della buonanotte da raccontare ai figli...) si conclude senza problemi che le emozioni e i pensieri che si desiderano trasmettere non sono gli stessi e risulta ingenuo e ignorante aspettarsi un "Signore degli Anelli 2". In secondo luogo molti si sono scagliati contro il mancato inserimento di alcune scene e l'aggiunta di altre non presenti nell'opera originale ( Vedi Azog l'orco , Radagast ecc..). Se si riflette appena e ci si prova a figurare una trasposizione completamente fedele al libro, in tutti i suoi particolari, le sue scene e i suoi scambi di battute, si conclude che ciò è pressochè impossibile. Risulterebbe pesante, insopportabile; l'aggiunta di scene spettacolari e di alcuni personaggi caratterialmente forti è fondamentale per la riuscita di un film di tale genere avendo lo scopo di mantenere lo spettatore sull'attenti. Oggetto di critiche è stata inoltre la decisione di una trilogia, ritenuta eccessiva per la portata del libro. Ma l'errore dov'è? Per caso nel desiderio di un appassionato regista di soddisfare le pressanti richieste di numerosissimi fun desiderosi di una trasposizione esauriente e non troppo sfrondata ( Vedi " Il Signore degli Anelli" )? Se abbiamo precedentemente detto che esso non ha gli stessi tratti epici del film antecedente , c'è da dire anche che non è neanche un film d'azione, o un thriller, veloce e istantaneo; ha bisogno dei dovuti tempi, e sicuramente un solo film non li avrebbe fatti rientrare. Infine ciò che si è valutato negativamente è il nuovo effetto visivo 3D Hfr ( High Frame Rate ). Su questo c'è poco da dire: chi desidera provare una nuova esperienza di cinema può tentare; chi , più nostalgico e meno interessato , ha sempre a disposizione il vecchio 2D . La certezza è che si verrà nuovamente e "inaspettatamente" catapultati nel fantastico mondo senza fine che ormai sembra appartenere a due personalità : sir R.R. Tolkien e sir P. Jackson.

Coppa Nazionale o Coppa del Nonno?



La Coppa Italia, anche detta Coppa del Nonno o Portaombrelli (anche se a dirla tutta la forma non è delle migliori per tale uso...) continua a mantenere una tradizione che - ahinoi - ci fa vergognare in tutta Europa, dove per la coppa nazionale di interrompe addirittura il campionato. Nelle ultime settimane ne abbiamo avuto conferma: Lazio-Siena giocata di mercoledì alle 3 del pomeriggio sembra veramente un insulto ai tifosi ma - possiamo starne certi - dobbiamo essere pronti a tutto, anche molto peggio. Perché se la scelta della data degli ottavi di finale possono essere dettate da necessità contrattuali - diritti tv - quello che veramente è inammissibile è che la Lega, garante del rispetto delle regole in quanto organizzatrice dell’evento, violi essa stessa le regole. Stasera potremo assistere ad una partita che - stando ai numeri ed alle potenzialità delle squadre in campo - garantisce spettacolo: Roma e Fiorentina sono pronte a ripetere la spumeggiante prestazione che un mese fa sancì il 4-2 dell’Olimpico per la suqadra di Zeman. Se non che la partita - come sicuramente saprete - non si giocherà all’Olimpico di Roma, bensì a Firenze: non si tratta né di volontà dell’una né dell’altra società, ma di un’incomprensibile decisione della Lega. Considerando la partita di martedì scorso della Lazio in concomitanza con quella odierna della Roma - nonostante fra i due incontri trascorrano la bellezza di 8 giorni - ed applicando una norma assolutamente discriminatoria e priva di alcuna logica, la Lega Calcio ha predisposto l’inversione di campo, costringendo la Roma - che nella scorsa stagione è arrivata più avanti della Fiorentina nella competizione e nell’ultimo decennio ha dimostrato un’attenzione alla Coppa più di ogni altra squadra - a disputare una partita da dentro o fuori fra mura ostili. La prossima volta - dunque - che la nostra tanto amata Lega Calcio si lamenta della scarsa considerazione di cui gode la storica Coppa nazionale, si ricordi quantomeno che far giocare partite ad orari improbabili ed applicare insensatamente norme di poco senso può portare anche a questo.

La lezione degli antichi

Con un po’ di rammarico, osservo molti ragazzi, chini su vocabolari, intenti a dare un senso (il più accettabile) al testo che hanno di fronte, quel che basta per l’interrogazione del giorno successivo; tentano di tirar giù a memoria formule preconfezionate su autori, pienamente consapevoli e, oserei dire, rincuorati, di dimenticarle alla fine dell’anno: sarà il segno che lo strazio è finito. Come potrebbe rispondere un semplice liceale a quella che appare una opportuna e sensata domanda: “Cosa te ne fai della letteratura nella vita?”
Spiazzato, dopo qualche istante di riflessione, mi ritrovo costretto a dire: “Non lo so. O, meglio, non so come spiegartelo …”.
In fondo si tratta proprio di questo: apparentemente, parlando in termini pratici, può sorgere un po’ a tutti il pensiero che a niente giovi studiare i testi di coloro che vennero prima di noi, apprenderne il pensiero, la storia. Dopo anni di studio, quando il tempo ha cancellato dalla nostra mente buona parte dei dati – cosa normalissima – ci sembra di ritrovarci in mano con nient’altro che il ricordo di emozioni scaturite nel corso della lettura o, tutt’al più, con qualche bella citazione sentenziosa da poter esibire al momento adatto.
Forse, le nostre letture, ciò che impariamo con studio – cioè, come i latinisti potrebbero insegnarmi: con passione – ci lasciano dentro qualcosa, ma in una maniera un po’ misteriosa e difficile ad individuarsi. E’ per questo che risulta arduo spiegare, con parole comprensibili, i benefici che ne derivano e, soprattutto, quali siano le motivazioni valide per trascorrere ore ed ore dietro ad un libro di cui facilmente ci si dimentica anche nel giro di un solo anno.
In realtà, tutto ciò che abbiamo pazientemente incamerato, compreso quello di cui non abbiamo memoria, ci ha lasciato dentro un ricordo, un qualcosa che, forse, può emergere quando meno ce lo aspettiamo, e darci una chiave d’interpretazione per molte domande.
D’altronde, cosa è l’intera letteratura se non un forziere stracolmo di pensieri, riflessioni, sentimenti, passioni, che l’autore ha deciso di imprimere sulla carta affinché non fossero affondati dalla burrasca del tempo? Leggendone le opere, possiamo quasi seguire col dito l’itinerario delle sue riflessioni; leggendo i classici possiamo meditare come, nel lungo corso dei tempi, svariati uomini di diversi paesi e culture siano arrivati a conclusioni così differenti e trattando temi così eterogenei.
Nella letteratura, in due parole, è come se fosse impresso lo spettro di emissione dell’intero animo umano; e dal momento che, come dice Dostoevskij, “vasto è l’uomo”, il suo animo, altrettanto vasto è ciò che, nel corso dei secoli, è riuscito a lasciare ai posteri.
Se la storia era magister vitae nel primo secolo a.C., quanto più lo sarà ora agli inizi del III millennio! Se già a quel tempo si guardava alle opere letterarie precedenti come ad un tesoro inestimabile, come dovremmo noi amare e custodire ciò che è stato prodotto in un lasso di tempo di molto superiore! Non pensate che questo solo possa bastare per spingere allo studio, alla passione cioè, per la letteratura?

Andreotti

"Rispetto ad un’Italia che cambia o finge di cambiare rapidamente, muta convinzioni, gusti, pregi e difetti, Andreotti è una certezza: prevedibile, magari anacronistica, bistrattata, ma proprio per questo, tutto sommato, rassicurante. Permette al paese di specchiarsi nel passato, di riconoscersi e di distanziarsi dal secolo scorso; di sentirsi migliore, di rivalutarlo o magari di odiarlo, ha poca importanza. È una sorta di memoria storica dell’Italia, a partire dal 1945. 
E forse, il suo ruolo di nostalgico della Prima Repubblica, della guerra fredda e dei suoi equilibri cristallizzati e dunque protettivi si conserva grazie alla crisi del sistema attuale, finendo per fotografare le frustrazioni e l’insoddisfazione di un pezzo del paese. In questo senso, Andreotti incarna l’identità perduta non solo di una classe politica, ma di una porzione dell’Italia moderata; lo smarrimento dei suoi referenti interni e delle antiche coordinate internazionali". In questo ampio stralcio tratto dall’introduzione al suo ultimo libro (Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un’epoca, Mondatori, 2008), Massimo Franco, notista politico del Corriere della Sera, riassume con una perfetta sintesi gli elementi che approfondisce nei ventitre capitoli che ha scritto per raccontare la vita di Giulio Andreotti. La storia di un "sopravvissuto" a due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Prima repubblica e forse anche la seconda, se è vero che è in crisi. A sei processi per mafia e omicidio. Un Protagonista e testimone abbastanza unico del panorama italiano: amico di pontefici, capi di stato, suore, mendicanti, bancarottieri, santi, dittatori, attrici, emiri, pittori, calciatori, ladri, collusi con la mafia. Un ex-potente che si fa fatica a definire ex e del quali le giovani generazioni sanno poco e quelle vecchie ritengono di sapere (quasi tutto) anche se non a ragione.

Una silhouette curva che inevitabilmente per la sua corposità storica si intreccia con gran parte della storia del nostro Paese, "la storia di un’epoca" che, secondo una consolidata vulgata, è stata "segnata" da Andreotti nel bene e nel male. Un uomo dalle umili origini familiari che da parte degli estimatori, e non solo, del personaggio ne esaltano ancor maggiormente la figura (o se si vuole la leggenda) dell’uomo che ha scalato il potere dal basso, partendo “dal nulla”. E da qui fino, sostanzialmente, ai giorni nostri, la storia del "divo Giulio" che se da un lato si apre in un ambiente quasi favoloso, dove un bambino di otto anni riesce ad eludere la sorveglianza durante un’udienza papale e quindi ad avvicinarsi al Pontefice, dall’altro si chiude con la crudezza delle ricostruzioni processuali che hanno interessato larga parte dell’opinione pubblica alla fine del secolo proprio perché avevano come protagonista questo "simbolo" dell’Italia.
Comizio di Andreotti nel 1976 in Piazza del Popolo

Andreotti conserva attorno a sé molteplici e contraddittori giudizi che derivano dalle considerazioni formulate delle diverse generazioni che hanno potuto apprezzarne o criticarne la figura. Ecco perché così come è semplice trovare persone anziane che ne rimpiangono la presenza attiva sulla scena politica è altrettanto possibile trovare giovani che lo considerano il retaggio di una politica "superata" quindi vecchia. Ma può accadere anche il contrario: anziani che vedono in Andreotti un passato che non passa e giovani che, avendone sentito decantare le lodi, lo apprezzano maggiormente rispetto ai politici di oggi. 
Andreotti con De Gasperi
Certamente si può affermare che dopo aver sperimentato le conseguenze non sempre brillanti, soprattutto in diversi contesti locali, dell’azione di persone che non ritengono che la formazione alla politica debba essere un elemento indispensabile per svolgere un’attività mirata alla ricerca del bene comune, la figura di Andreotti, che intraprende attività politica per fortunate coincidenze, incarna, come ricorda la lunga citazione iniziale tratta dal libro di Franco, "l’identità perduta non solo di una classe politica, ma di una porzione dell’Italia moderata". Proprio la definizione dei confini delle identità delle forze politiche che animano il dibattito politico italiano è un compito al quale la politica non può sottrarsi, pena il suo perdurante "fallimento". E, paradossalmente, se nell’epoca di Andreotti per molti versi le identità apparivano soffocanti, oggi, queste non riescono neppure ad emergere in modo chiaro sia per un preciso desiderio (che permane) sia per delle incapacità oramai ossificate. 
Giulio Andreotti è, come scrive Franco, una "memoria storica" vivente dell’Italia. È necessario, pertanto, considerarla come tale. Ma se può essere fonte per capire il passato e scrutare il futuro, non può assolutamente trasformarsi in un comodo alibi per la politica di oggi. Dove non si arriva, dove non si riesce, dove non si comprende, ci si nasconde dietro il paravento degli errori della politica del passato. Una politica che certo non tornerà, ed è impressionante doverlo ribadire ancora una volta, ma che ci ha segnati; e se non riusciremo, una volta per tutte, a farci i conti, a capire che forse, anzi sicuramente, qualcosa di buono in "quella" politica c’era, non riusciremo a rianimare quella di oggi, che appare, costantemente, nei suoi caratteri generali, sempre più ripiegata su se stessa.

Se la fede non discrimina


E così la questione viene risolta, dati alla mano. Le donne, oggetto stesso del problema al momento forse tra i più rilevanti per la chiesa anglicana, si ribellano; o per meglio dire, metà del sesso femminile si dichiara fortemente contrario. A cosa? Presto spiegato: è già da un certo periodo che una buona parte dei giornali italiani pubblica saltuarie e spesso irrilevanti notizie riguardanti l'argomento; "L'ordinazione episcopale femminile, un tentativo di emancipazione considerevole!" dichiarano con decisione i quotidiani, spesso desiderosi più di caotiche accuse e asserzioni mirate alla ricerca della razione periodica di scandalo di qualsiasi genere al quale buona parte della società sembra non poter più rinunciare, piuttosto che dell'informazione così com'è e come dovrebbe essere presentata. Se invece si fosse prestata la giusta attenzione alla reale opinione delle donne in merito alla questione della possibilità di allargare l'ordinazione episcopale verso queste ultime, si sarebbe avvertita una netta discordanza tra le loro convinzioni e le affermazioni dei notiziari. A quanto pare infatti metà e forse un po' più si trova in un risoluto disaccordo ,come dichiara precisamente Susie Leafe una delle 2.200 donne che ha votato contro la riforma: "Non si tratta di una questione di sessismo. E’ una questione di convinzione teologica, e attraversa tutti i generi. La Sacra Scrittura è chiara, dice che uomini e donne sono uguali ma anche diversi. Ognuno deve stare al proprio posto. "

Ciò che al contrario si è cercato di fomentare quindi è quell'inopportuno desiderio utopico di uniformità assoluta e quella fobia del diverso disgraziatamente propria della società moderna, argomenti dai quali la Chiesa cattolica rimane giustamente distante ( non per paura, piuttosto perchè a trattare troppo con le malattie senza le dovute precauzioni ci si finisce per ammalare). Insomma , le solite e monotone operazione mediatiche di disinformazione le cui mire di suggestione e istigazione si concludono spesso e volentieri disastrosamente, per fortuna.

Lo Hobbit: un viaggio inaspettato

Un colossal lungamente atteso e gravato dal peso di una grande aspettativa. La sua produzione è rimasta costantemente sotto la luce dei riflettori ed è stata seguita passo passo, notizia dopo notizia, da migliaia di fan impazienti. Impossibile, poi, non tenere in considerazione la scomoda e ingombrante presenza della pluripremiata trilogia de “Il Signore degli Anelli” alle sue spalle, un successo senza pari, inevitabilmente posto come termine di paragone in relazione al quale giudicare il nuovo prodotto del regista neozelandese PeterJackson. Il quale, di conseguenza, si è trovato tra le mani un lavoro arduo, facile bersaglio di critiche. “Lo Hobbit: un viaggio inaspettato” è il primo capitolo di una trilogia ispirata all’omonimo libro di J.R.R. Tolkien, le cui opere hanno ricevuto nuovo vigore proprio sulla scia del successo cinematografico. E in effetti, non sarebbe proprio corretto parlare di “ispirazione”. Il film, infatti, appare più una traduzione, una riproduzione artistica del romanzo, piuttosto che una distaccata riproposizione. Molti avevano accolto con riserbo la notizia – tra l’altro resa nota a poco tempo dalla prima de Lo hobbit- della suddivisione in tre capitoli dell’intera saga, ritenendola eccessiva per il numero di pagine del libro, infinitamente inferiori a quelle del Signore degli Anelli. Eppure Jackson sembra essere riuscito nell’impresa. L’inizio della narrazione si riallaccia perfettamente con quello del “Signore degli Anelli”, ambientandosi durante i preparativi per la festa di compleanno dell’ormai vecchio Bilbo Beggins. Ed è proprio quest’ultimo che, colpito da un rimorso di coscienza, affida alle pagine di un libro la verità sulla sua storia passata, svelando i segreti sulla sua straordinaria avventura: un “inaspettato viaggio” in compagnia dello stregone Gandalf e di tredici buffi e valorosi nani alla conquista di un ormai nascosto tesoro. Una vicenda che lascerà profondi segni sulla sua persona. La trama del film risulta molto dettagliata, pedissequamente concorde al romanzo, distaccandosene lievissimamente in pochissimi e isolati momenti. Delle divergenze che, se nel caso del Signore degli Anelli derivavano dall’inevitabile necessità di sintetizzare, o addirittura troncare di netto, consistenti parti del racconto, ne Lo Hobbit scaturiscono dall’esplicita volontà di mettere in luce alcuni aspetti, rendere più chiari alcuni messaggi latenti negli interstizi tra le righe del romanzo; e chiaramente, adattare al grande schermo un racconto evidentemente non concepito in funzione di questa finalità (Al contrario, spesso Tolkien affermava che il genere fantasy mai si sarebbe adattato alla riproduzione cinematografica o teatrale, perché sarebbe stato svilito proprio nel suo aspetto più rilevante: quello del fantastico del magico. Una posizione che non aveva evidentemente fatto i conti con i moderni effetti speciali). Eppure, nonostante le numerose accuse, che spesso appaiono forzate e artificiose, il film può dirsi pienamente riuscito nei suoi intenti. La trama, sebbene in alcuni momenti si distenda per lasciare spazio ad ampi dialoghi, necessari per chiarire lo sfondo “mitologico” della narrazione, risulta nel suo complesso avvincente, ben calibrata e piacevole, nonostante si prolunghi per quasi tre ore. E in questo, un ruolo fondamentale è certamente ricoperto dalla numerosa compagnia dei nani, sapientemente caratterizzati singolarmente – e non, come molti suggerivano, sigillati nella stereotipata e classica raffigurazione – che conferisce dinamicità e imprevedibilità all’insieme. Degna di menzione, a tal proposito, la magistrale interpretazione di Martin Freeman nei panni di Bilbo Baggins, capace di incarnare alla perfezione le caratteristiche peculiari del personaggio letterario, in una recitazione fresca, frizzante… “da hobbit”. Insomma, se proprio è necessario muovere una critica a Jackson, questo potrebbe essere accusato di essersi eccessivamente affezionato alla Terra di Mezzo. Dal film traspare la coscienza del regista di avere tra le mani l’ultima occasione per trasferirsi in quel mondo da lui tanto amato. Per cui, come un bambino recalcitrante a uscire da un negozio di giocatoli, sembra voler indugiare il più a lungo possibile sulle storie e le tradizioni dei popoli che lo abitano; chiarire le premesse del Signore degli Anelli, attingendo a notizie ricavate dal capitolo conclusivo del Silmarillion; quasi a voler concedere al grande pubblico un vasto e completo affresco dell’universo creato dall’amato professore di Oxford.

Umberto I nell'anniversario dell'incoronazione

Umberto I di Savoia (Torino, 14 marzo 1844 – Monza, 29 luglio 1900), figlio di Vittorio Emanuele II di Savoia e di Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena, fu Re d’Italia dal 1878 al 1900. Prese parte alla terza guerra di indipendenza italiana a capo della XVI Divisione, partecipando allo scontro di Villafranca del 24 giugno 1866. Umberto sposò a Torino, il 22 aprile 1868, la cugina Margherita dalla quale ebbe un figlio, il Principe Vittorio Emanuele, Principe di Napoli (1878-1900) e Re d’Italia (1900-1946). Il suo fu il Regno più difficile e turbolento dall’unità d’Italia. Scomparso Vittorio Emanuele II compito del nuovo Sovrano doveva essere quello del consolidamento dei risultati conseguiti, in un clima di difficoltà opposte e non facilmente conciliabili. I governi di Umberto I si trovarono di fronte a diverse esigenze: bisognava attuare riforme che rendessero il più possibile moderno ed omogeneo il nuovo Stato, che presentava intere regioni assolutamente prive di infrastrutture e con ritardi storici livelli di alf
abetismo, sanitari, di giustizia e di ogni altro settore della vita civile; era necessario promuovere la crescita di un’economia, all’epoca balbettante. Doveva esser data maggiore importanza alla giustizia sociale, e erano da controllare i complotti di restaurazione antiunitaria. Tutto questo doveva essere affrontato con una vistosa sproporzione tra le risorse a disposizione ed i problemi da affrontare, una sproporzione accentuata dalla incredibile successione di catastrofi naturali che sconvolse l’intera Penisola. durante il suo regno che si definì la figura del presidente del Consiglio (1890). Riconobbe il carattere parlamentare del sistema politico italiano; non presiedeva il consiglio dei ministri, si limitava a ricevere, dopo le riunioni di Gabinetto, il presidente del Consiglio dei ministri e, sentita la relazione, a firmare i provvedimenti approvati dal suo dicastero, assumendosi in prima persona anche responsabilità che erano invece collettive e parlamentari. Venne soprannominato «Re buono», per la sollecitudine che dimostrò nel soccorrere i bisognosi. Appena asceso al trono, nel 1879 si recò tra i siciliani colpiti dall’eruzione dell’Etna; nel 1882 accorse nel Veneto devastato da piogge torrenziali; nel 1884 a Napoli, dove imperversava il colera; portando aiuti materiali. I contrasti con la Francia, accentuatisi dopo la conquista da parte dei transalpini della Tunisia (1881) indussero Umberto I a raccogliere la proposta dell’Impero germanico di dare vita alla Triplice Alleanza. Umberto I venne criticato severamente per aver insignito con la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia il generale Fiorenzo Bava-Beccaris che il 7 maggio 1898 si schierò a favore dei moti Milanesi. In realtà, in un primo tempo Umberto I era rimasto seccato per l’accaduto e avrebbe voluto punire Beccaris; furono i suoi consiglieri a convincerlo a cambiare atteggiamento.Altro fatto importante del regno di Umberto I fu la delibera del codice penale Zanardelli (1889), che aboliva la pena di morte.Umberto I manifestò costantemente orgoglio per i progressi dell’Italia; nel «Discorso della Corona» del 25 novembre 1889, affermò : «L’Italia ha fatto in trent’anni quello che altre Nazioni fu lavoro di secoli» Nell’autunno 1891 organizzò a Roma un Congresso internazionale della pace, con la partecipazione di Francia, Germania, Austria-Ungheria e di diversi altri Stati; impegnato alla Triplice Alleanza, manifestò amicizia nei confronti della Gran Bretagna, tese la mano alla Francia malgrado i ripetuti scontri. Il problema sorgeva quando si parlava di politica interna. I troppi impegni per colonizzare-che conseguentemente risultavano un grosso sforzo militare ed economico-allontanavano dai pensieri di Umberto I la difesa interna dei cittadini, che si sentivano insicuri e scontenti. Subì, anche per questo, tre attentati, i primi due falliti: il primo venne tentato da Giovanni Passannante, a Napoli, nel 1878; il secondo da Pietro Acciarito, a Roma, nel 1897. Umberto I venne ucciso a Monza il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci, il quale voleva vendicare la repressione dei moti popolari del 1898. Fu comunque uno dei più amati-e al contempo discussi- sovrani italiani. Purtroppo però alcune scelte preparavano la strada al disastro di Vittorio Emanuele III.

Par condicio in TV: ma dove?



La Campagna elettorale è ancora alle porte, ma il dibattito politica ha già monopolizzato la televisione: oltre che nei soliti programmi di approfondimento in fascia serale le poltrone di ospiti sono riservate a chi è abituato a quelle di Montecitorio anche in orari e contesti insoliti. Prima Barbara D'Urso ha abbandonato per qualche ora la sua stucchevole cronaca rosa per cimentarsi con dubbi risultati nell'intervista a Berlusconi; poi lo stesso ex premier ha testato il buon Gilletti in un ben più interessante dibattito su Rai1. Rai1 che, nella sua programmazione mattutina, ha fatto dei propri studi il teatro delle interviste a Monti, Casini e Vendola. Sembra che la facilità e la libertà con cui i direttori dei singoli canali ha invitato esponenti della politica nostrana abbia indispettito Zavoli, presidente della commissione parlamentare per la vigilanza Rai.

I due mesi scarsi che ci separano dalla fatidica data saranno dunque per le televisioni il solito slalom fra argomenti tabù ed ospiti vietati: peccato però che spesso non basti evitare l'intervista a Bersani o il dibattito sul federalismo per parlare si politica. Spesso basta parlare, soprattutto se delle persone ben note sì conoscono perfettamente gli orientamenti politici: dover vedere per 5 serate consecutive Luciana Littizzetto - oltre ad essere un notevole esercizio di autocontrollo - è soprattutto la possibilità di monopolizzare il primo canale della nostra televisione, sintonizzandolo sul solito ritornello "Berlusconi hai rotto le scatole" con cui la comica - si fa per dire - va avanti oramai da molto tempo.

Abbiamo invece da temere di memo per l'altro conduttore del Festival della nostra musica, Fazio, la cui professionalità fa da garante anche per la sua nota posizione politica. Sarà davvero par condicio? Di Pietro ha i suoi dubbi e - siamo sinceri - nessuno di noi stavolta può dargli tutti i torti.