Lo Hobbit: un viaggio inaspettato

Un colossal lungamente atteso e gravato dal peso di una grande aspettativa. La sua produzione è rimasta costantemente sotto la luce dei riflettori ed è stata seguita passo passo, notizia dopo notizia, da migliaia di fan impazienti. Impossibile, poi, non tenere in considerazione la scomoda e ingombrante presenza della pluripremiata trilogia de “Il Signore degli Anelli” alle sue spalle, un successo senza pari, inevitabilmente posto come termine di paragone in relazione al quale giudicare il nuovo prodotto del regista neozelandese PeterJackson. Il quale, di conseguenza, si è trovato tra le mani un lavoro arduo, facile bersaglio di critiche. “Lo Hobbit: un viaggio inaspettato” è il primo capitolo di una trilogia ispirata all’omonimo libro di J.R.R. Tolkien, le cui opere hanno ricevuto nuovo vigore proprio sulla scia del successo cinematografico. E in effetti, non sarebbe proprio corretto parlare di “ispirazione”. Il film, infatti, appare più una traduzione, una riproduzione artistica del romanzo, piuttosto che una distaccata riproposizione. Molti avevano accolto con riserbo la notizia – tra l’altro resa nota a poco tempo dalla prima de Lo hobbit- della suddivisione in tre capitoli dell’intera saga, ritenendola eccessiva per il numero di pagine del libro, infinitamente inferiori a quelle del Signore degli Anelli. Eppure Jackson sembra essere riuscito nell’impresa. L’inizio della narrazione si riallaccia perfettamente con quello del “Signore degli Anelli”, ambientandosi durante i preparativi per la festa di compleanno dell’ormai vecchio Bilbo Beggins. Ed è proprio quest’ultimo che, colpito da un rimorso di coscienza, affida alle pagine di un libro la verità sulla sua storia passata, svelando i segreti sulla sua straordinaria avventura: un “inaspettato viaggio” in compagnia dello stregone Gandalf e di tredici buffi e valorosi nani alla conquista di un ormai nascosto tesoro. Una vicenda che lascerà profondi segni sulla sua persona. La trama del film risulta molto dettagliata, pedissequamente concorde al romanzo, distaccandosene lievissimamente in pochissimi e isolati momenti. Delle divergenze che, se nel caso del Signore degli Anelli derivavano dall’inevitabile necessità di sintetizzare, o addirittura troncare di netto, consistenti parti del racconto, ne Lo Hobbit scaturiscono dall’esplicita volontà di mettere in luce alcuni aspetti, rendere più chiari alcuni messaggi latenti negli interstizi tra le righe del romanzo; e chiaramente, adattare al grande schermo un racconto evidentemente non concepito in funzione di questa finalità (Al contrario, spesso Tolkien affermava che il genere fantasy mai si sarebbe adattato alla riproduzione cinematografica o teatrale, perché sarebbe stato svilito proprio nel suo aspetto più rilevante: quello del fantastico del magico. Una posizione che non aveva evidentemente fatto i conti con i moderni effetti speciali). Eppure, nonostante le numerose accuse, che spesso appaiono forzate e artificiose, il film può dirsi pienamente riuscito nei suoi intenti. La trama, sebbene in alcuni momenti si distenda per lasciare spazio ad ampi dialoghi, necessari per chiarire lo sfondo “mitologico” della narrazione, risulta nel suo complesso avvincente, ben calibrata e piacevole, nonostante si prolunghi per quasi tre ore. E in questo, un ruolo fondamentale è certamente ricoperto dalla numerosa compagnia dei nani, sapientemente caratterizzati singolarmente – e non, come molti suggerivano, sigillati nella stereotipata e classica raffigurazione – che conferisce dinamicità e imprevedibilità all’insieme. Degna di menzione, a tal proposito, la magistrale interpretazione di Martin Freeman nei panni di Bilbo Baggins, capace di incarnare alla perfezione le caratteristiche peculiari del personaggio letterario, in una recitazione fresca, frizzante… “da hobbit”. Insomma, se proprio è necessario muovere una critica a Jackson, questo potrebbe essere accusato di essersi eccessivamente affezionato alla Terra di Mezzo. Dal film traspare la coscienza del regista di avere tra le mani l’ultima occasione per trasferirsi in quel mondo da lui tanto amato. Per cui, come un bambino recalcitrante a uscire da un negozio di giocatoli, sembra voler indugiare il più a lungo possibile sulle storie e le tradizioni dei popoli che lo abitano; chiarire le premesse del Signore degli Anelli, attingendo a notizie ricavate dal capitolo conclusivo del Silmarillion; quasi a voler concedere al grande pubblico un vasto e completo affresco dell’universo creato dall’amato professore di Oxford.

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