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luglio 1948, l’Italia tutta è in subbuglio per l’attentato a Palmiro Togliatti,
colpito dalla mano fascista di Antonio Pallante, alle 11:30 del mattino in
Piazza Montecitorio. Nonostante la notizia del buon esito dell’intervento
chirurgico cui è stato sottoposto il leader del PCI, la folla è insorta: per le
strade e nelle piazze infuria lo scontro tra il popolo e le forze dell’ordine.
Sembra di rivivere la guerriglia urbana tra partigiani e tedeschi: l’Italia è
sull’orlo della Guerra Civile. Sono trascorsi appena 3 mesi dalla bruciante
sconfitta elettorale delle Sinistre alle prime elezioni repubblicane della
storia italiana, che hanno visto la netta vittoria della DC di Alcide De
Gasperi, con il Fronte Democratico del PSI e del PCI confinato all’opposizione.
Gli uomini che hanno combattuto per la Liberazione del Paese, frustrati dalla
debacle delle urne, ritenendo l’attentato un attacco alla democrazia da parte
delle forze reazionarie, incarnate dalla DC, scendono in piazza, occupano le
fabbriche, la CGIL indice lo sciopero generale, il Ministro degli Interni,
Mario Scelba, organizza la repressione: è Guerra. E si vive il terrore della
Guerra: negozi chiusi, comunicazione radio saltata, la gente si aggira per le
strade con facce stravolte e poco rassicuranti, intanto gli ex partigiani
ritirano fuori le armi, mai riconsegnate dopo il 25 aprile, sull’altro fronte
interi reparti dell’esercito vengono trattenuti in caserma pronti ad
intervenire, mentre gli scontri con le Forze dell’Ordine cominciano a contare
le prime vittime: 30 morti e 800 feriti. Nel frattempo in Francia, dove si
festeggia la ricorrenza della “presa della Bastiglia”, si corre la 35° edizione
del Tour de France e, approfittando della giornata di riposo prima delle Alpi,
i giornalisti italiani ritornano in patria, allarmati dai fatti di cronaca e
ormai convinti,sebbene manchi ancora metà giro, che la spedizione della squadra
azzurra sia stato un fallimento. Partita senza Coppi e Magni, a guidare questa
presunta “Armata Brancaleone”, c’è il 34enne Gino Bartali, troppo vecchio per
il Tour, come dicono gli stessi giornalisti nostrani. “Ginettaccio” è staccato,
in classifica, di 21 minuti dalla maglia gialla Bobet, per la gioia dei
Francesi che hanno ancora il dente avvelenato per la pugnalata alle spalle della II Guerra Mondiale. Quella sera, il
premier Alcide de Gasperi, chiama al telefono proprio Bartali e lo prega di
vincere “perché qua c’è grande
confusione”, rassicurando l’intera squadra circa le sorti dei loro
familiari, per i quali i corridori azzurri erano a tal punto preoccupati da
aver ponderato il ritiro dalla corsa. Il giorno successivo, nella frazione di
274 km, da Cannes a Brianzon, il Gino nazionale, dopo aver controllato la
corsa, scatta sull’ultima salita: il leggendario Izoard la cui vetta è posta a
2361 metri. E’ un trionfo, sui 16 km di tornanti, il corridore di Firenze
guadagna 19’ dalla maglia gialla. All’indomani ripete l’impresa: altro tappone
alpino di 264 km con 4 montagne da scalare e nessuno che riesce a tenere la sua
ruota.
La sera, nelle
case italiane, la radio annuncia che Gino Bartali ha riconquistato la maglia
gialla al Tour. La notizia passa più rapida di un fulmine, lega i gruppi dei
cittadini in allarme con un nastro tricolore, ricordandogli che sono tutti
italiani. I volti, cupi di paura e odio nei giorni precedenti, sono di nuovo
illuminati dai sorrisi: dalle città, dalle campagne si leva, come un grande sospiro
di liberazione. La segreta virtù delle imprese sportive, capaci di far sentire,
nella gioia, gli italiani tutti uguali e tutti fratelli (come testimoniano i
bagni di folla nelle strade cui assistiamo dopo i successi della Nazionale di
Calcio), ci è restituita dal volto sorridente di Gino Bartali, l’uomo che,
pedalando, salvò il Paese dalla Guerra Civile.
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