Salvare la patria, pedalando


 14 luglio 1948, l’Italia tutta è in subbuglio per l’attentato a Palmiro Togliatti, colpito dalla mano fascista di Antonio Pallante, alle 11:30 del mattino in Piazza Montecitorio. Nonostante la notizia del buon esito dell’intervento chirurgico cui è stato sottoposto il leader del PCI, la folla è insorta: per le strade e nelle piazze infuria lo scontro tra il popolo e le forze dell’ordine. Sembra di rivivere la guerriglia urbana tra partigiani e tedeschi: l’Italia è sull’orlo della Guerra Civile. Sono trascorsi appena 3 mesi dalla bruciante sconfitta elettorale delle Sinistre alle prime elezioni repubblicane della storia italiana, che hanno visto la netta vittoria della DC di Alcide De Gasperi, con il Fronte Democratico del PSI e del PCI confinato all’opposizione. Gli uomini che hanno combattuto per la Liberazione del Paese, frustrati dalla debacle delle urne, ritenendo l’attentato un attacco alla democrazia da parte delle forze reazionarie, incarnate dalla DC, scendono in piazza, occupano le fabbriche, la CGIL indice lo sciopero generale, il Ministro degli Interni, Mario Scelba, organizza la repressione: è Guerra. E si vive il terrore della Guerra: negozi chiusi, comunicazione radio saltata, la gente si aggira per le strade con facce stravolte e poco rassicuranti, intanto gli ex partigiani ritirano fuori le armi, mai riconsegnate dopo il 25 aprile, sull’altro fronte interi reparti dell’esercito vengono trattenuti in caserma pronti ad intervenire, mentre gli scontri con le Forze dell’Ordine cominciano a contare le prime vittime: 30 morti e 800 feriti. Nel frattempo in Francia, dove si festeggia la ricorrenza della “presa della Bastiglia”, si corre la 35° edizione del Tour de France e, approfittando della giornata di riposo prima delle Alpi, i giornalisti italiani ritornano in patria, allarmati dai fatti di cronaca e ormai convinti,sebbene manchi ancora metà giro, che la spedizione della squadra azzurra sia stato un fallimento. Partita senza Coppi e Magni, a guidare questa presunta “Armata Brancaleone”, c’è il 34enne Gino Bartali, troppo vecchio per il Tour, come dicono gli stessi giornalisti nostrani. “Ginettaccio” è staccato, in classifica, di 21 minuti dalla maglia gialla Bobet, per la gioia dei Francesi che hanno ancora il dente avvelenato per la pugnalata alle spalle della II Guerra Mondiale. Quella sera, il premier Alcide de Gasperi, chiama al telefono proprio Bartali e lo prega di vincere “perché qua c’è grande confusione”, rassicurando l’intera squadra circa le sorti dei loro familiari, per i quali i corridori azzurri erano a tal punto preoccupati da aver ponderato il ritiro dalla corsa. Il giorno successivo, nella frazione di 274 km, da Cannes a Brianzon, il Gino nazionale, dopo aver controllato la corsa, scatta sull’ultima salita: il leggendario Izoard la cui vetta è posta a 2361 metri. E’ un trionfo, sui 16 km di tornanti, il corridore di Firenze guadagna 19’ dalla maglia gialla. All’indomani ripete l’impresa: altro tappone alpino di 264 km con 4 montagne da scalare e nessuno che riesce a tenere la sua ruota.
La sera, nelle case italiane, la radio annuncia che Gino Bartali ha riconquistato la maglia gialla al Tour. La notizia passa più rapida di un fulmine, lega i gruppi dei cittadini in allarme con un nastro tricolore, ricordandogli che sono tutti italiani. I volti, cupi di paura e odio nei giorni precedenti, sono di nuovo illuminati dai sorrisi: dalle città, dalle campagne si leva, come un grande sospiro di liberazione. La segreta virtù delle imprese sportive, capaci di far sentire, nella gioia, gli italiani tutti uguali e tutti fratelli (come testimoniano i bagni di folla nelle strade cui assistiamo dopo i successi della Nazionale di Calcio), ci è restituita dal volto sorridente di Gino Bartali, l’uomo che, pedalando, salvò il Paese dalla Guerra Civile.

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