La
contiguità con la finanza, la quale fa gridare allo scandalo in queste
settimane per le vicende del Monte dei Paschi di Siena, è una di quelle
costanti nella politica italiana, dall’Unità ad oggi, che ben permettono, alla
scuola di Giambattista Vico, di parlare di
“corsi e ricorsi storici”. L’evento che, scuotendo dalle fondamenta il
neonato Regno d’Italia, fece venire alla luce tale commistione tra politica,
banche ed affari fu il c.d. Scandalo della Banca Romana, esploso nel 1892. Le premesse di questa grave crisi finanziaria
furono da una parte la speculazione edilizia che si era selvaggiamente
scatenata a Roma, dopo la Breccia di Porta Pia, e dall’altra i circuiti poco
trasparenti generati dal finanziamento delle campagne elettorali della Sinistra
Storica, nonché l’assenza di una reale riforma del sistema bancario.
Nel
1889 alcuni istituti bancari, principalmente a causa della crisi del settore
edilizio, si trovarono sull’orlo del fallimento. La cosa accreditò le voci
che circolavano da tempo circa un’eccessiva emissione di carta moneta da parte
delle sei banche autorizzate all’emissione di cartamoneta: la Banca nazionale,
la Banca romana, la Banca nazionale toscana, la Banca Toscana di credito, il
Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Il ministro dell’agricoltura Miceli
promosse l’inchiesta amministrativa per verificare il loro operato, la
quale fu affidata al senatore Giuseppe Alvisi, già deputato della Sinistra,
insieme al funzionario del tesoro Gustavo Biagini. Bisognava capire, in
particolare, se il quantitativo di denaro emesso fosse congruo ai parametri
stabiliti. I risultati confermarono i sospetti: la Banca romana aveva stampato
25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di diversi milioni con una
serie di biglietti falsi, duplicando cartamoneta già stampata; inoltre fu messo
in evidenza il coinvolgimento diretto del suo governatore Bernardo Tanlongo.
Dalle indagini emerse anche che la Banca aveva utilizzato questo denaro non
solo per finanziare le speculazioni edilizie, ma anche politici e giornalisti. Per
evitare lo scandalo durante i tre anni successivi Crispi, Giolitti e Di Rudinì
preferirono tenere segreti i risultati in nome degli interessi più alti della
patria. L’inchiesta, dunque, venne insabbiata per scongiurare le conseguenze
negative che avrebbe avuto tanto sul sistema creditizio che sul mondo politico.
Il 24 novembre 1892 Alvisi morì di crepacuore, senza esser riuscito nemmeno a
leggere la sua relazione sulla situazione “morale” delle banche. I risultati
della sua inchiesta arrivarono – dopo la sua morte – nelle mani di Napoleone
Colajanni, deputato radicale, che li riferì alla Camera durante la seduta del
20 dicembre. Lo scandalo era scoppiato.
Corriere della Sera del 21 gennaio 1893 |
Le
resistenze di Giolitti alla possibilità di avviare un’inchiesta parlamentare,
portarono ad avviare una nuova ispezione sugli istituti di emissione presieduta
da Gaspare Finali; Enrico Martuscelli, che si occupò della Banca romana,
confermò quanto scritto nella relazione Alvisi. Quando la Camera fu informata
dei risultati, Zanardelli (che la presiedeva) indicò i nomi dei sette membri
della commissione parlamentare d’inchiesta (che per questo diventerà nota,
nelle cronache del tempo, come “la commissione dei sette”, presieduta da
Antonio Mordini) per esaminare i documenti e le testimonianze raccolte. Per quanto relativo alla Banca romana, furono
arrestati il direttore Michele Lazzaroni e il governatore Bernardo Tanlongo che
disse di aver versato cifre significative anche a diversi presidenti del
consiglio.
Palazzo Maffei-Marescotti, sede della Banca Romana |
Dopo
le numerose rivelazioni, Giolitti fu accusato principalmente di tre cose: di
aver tenuti nascosti i risultati del lavoro di Alvisi (all’epoca era Ministro
del Tesoro), di aver proposto il nome di Tanlongo come senatore e di aver
ricevuto denaro dalle casse della Banca romana per finanziare le sue campagne
elettorali. Il presidente del consiglio si difese negando di essere stato a
conoscenza della relazione Alvisi e di aver ricevuto denaro dalla Banca romana,
ma dopo la lettura della relazione della Commissione dei sette – “Non
ricordiamo nella storia del Parlamento il caso di un presidente del consiglio
colpito così in pieno petto, dinnanzi alla Camera affollata e fremente, da una
sentenza solenne, che lo convince di reati gravi in ordine politico e morale”
scriveva l’editorialista del Corriere della Sera il 23 novembre 1893 – rassegnò
le dimissioni e decise di trascorrere un periodo all’estero.
I
nomi legati a quello strano e oscuro personaggio che era Tanlongo erano molti
ed eccellenti: lo scandalo della Banca romana aveva travolto la politica,
almeno in parte e allo stesso tempo rappresentava la crisi finanziaria che il
paese stava attraversando. Ma il processo del 1894 assolse tutti, anche
Tanlongo (Sor Berna’, come lo chiamavano in Banca), per insufficienza di prove:
i giudici accolsero la tesi che sosteneva la sottrazione, nel corso delle
indagini, di importanti documenti. Le ripercussioni, però, furono notevoli. Dal
punto di vista politico la più evidente fu la scomparsa – momentanea – di
Giolitti dalla scena politica. Dal punto di vista finanziario, la più
importante fu sicuramente l’istituzione nel 1893 della Banca d’Italia – che
sarebbe poi diventata l’unico istituto di emissione dello Stato – a cui fu
affidata la liquidazione della Banca romana.
Tratto da G. Pezzella, Lo Scandalo della Banca Romana, in Enciclopedia Treccani
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