Fu
una stazione radio, quella di Gleiwitz, al confine tra Terzo Reich e Polonia, il
teatro del casus belli della più orribile guerra del XX secolo, la II Guerra
Mondiale. Se la scintilla che fece brillare la polveriera d’Europa nel 1914, l’attentato,
a Sarajevo, all’Arciduca Francesco Ferdinando, è notissimo, non altrettanto può
esser detto dell’episodio che decretò, il 1° settembre ’39, l’invasione della
Polonia da parte della Wehrmacht. E probabilmente l’incidente di Gleiwitz è
caduto nell’oblio della storia per il suo carattere del tutto fittizio: l’assalto
alla stazione radio di alcuni soldati polacchi, finalizzato all’interruzione
delle trasmissioni e alla diffusione di un messaggio antitedesco rivolto ai compatrioti
in Germania Orientale, non fu, infatti, nulla più di una messa in scena
orchestrata dallo stesso Hitler al fine di fornirsi un espediente utile per
poter intraprendere la campagna di Polonia, già progettata da tempo, come
dimostra la stipulazione, precedente al fatto, del patto Molotov – Von
Ribbentrop. A fine luglio, il fuhrer aveva chiesto all’intelligence tedesca,
l’Abwehr, di procurare 150 uniformi, armi e libretti paga dell’esercito polacco
di cui, poi, sarebbero stati dotati 364 uomini del Sicherheitsdienst (SD),
capitanati dall’Obergruppenfuhrer (alta carica delle SS ndr) Alfred Naujocks.
Alcuni membri del SD, camuffati da soldati polacchi con questo materiale,
avrebbero dovuto esplodere alcuni colpi a vuoto contro altri, travestiti, invece,
da guardie di confine tedesche, per poi simulare il sabotaggio della stazione
radio di Gleiwitz. Naujocks, che prese parte all’azione in prima persona, e i
suoi, dopo aver interrotto le trasmissioni, fecero udire dai microfoni spari,
grida ed alcuni messaggi sediziosi.
Prima di allontanarsi, uccisero e
lasciarono sul posto con indosso la divisa polacca, un prigioniero dai tratti
slavi, prelevato dai campi di concentramento, per far sì che i giornalisti
stranieri chiamati sul posto lo fotografassero, provando così l’autenticità
dell’incursione. Strano gioco del destino, la torre della stazione radio,
un’imponente antenna in legno, alta 111 metri, sopravvisse miracolosamente ai
bombardamenti sovietici, ad imperitura memoria di un evento che accosta tra loro
due elementi, la finzione e il dramma della guerra, impossibili da conciliare. Le
operazioni militari della campagna di Polonia ebbero inizio alle 4 del mattino
del 1° settembre, si sarebbero protratte per appena un mese, mostrando al mondo
la terribile potenza dell’apparato bellico tedesco, costituito, nell’occasione,
da 35 divisioni di fanteria, 6 divisioni corazzate con oltre 2 mila panzer a
disposizione e, soprattutto, da altrettanti aerei della Luftwaffe, la temibile
aviazione forgiata dal plenipotenziario di Hitler, Hermann Goring. La campagna
polacca mise il mondo difronte un nuovo modo di concepire la blietzkrieg, non più straordinari
dispiegamenti di uomini volti ad una veloce avanzata, nella sciocca pretesa che
soltanto mostrando il proprio numero al nemico questo lasci il passo, ma una
più raffinata strategia prevedente l’uso di mezzi corazzati e l’ausilio dell’aviazione.
Così come poi in Francia, in Polonia la tecnica di avanzata della Wehermacht
consistette nel creare su un ristretto fronte un rapporto di forte superiorità
numerica di uomini e mezzi corazzati, organizzati in grandi divisioni capaci di
avanzare autonomamente per molti chilometri nelle retrovie dei nemici per
impedirne una ritirata ordinata. Tale azione era preceduta da massicci
bombardamenti della Luftwaffe e completata dalle spinte laterali (costituite,
nel caso della campagna polacca, dalle divisioni della Prussia Orientale e della
Repubblica Slovacca).
Dinanzi
questo dispiegamento di uomini e l’ennesima aggressione tedesca ai precari
equilibri di Versailles, anche Regno Unito e Francia, furono costrette ad
abbandonare quella politica dell’acquiescenza in nome della quale avevano,
colpevolmente, lasciato fare ad Hitler il buono e il cattivo tempo in Europa.
Così era stato pochi mesi prima a Monaco, dove Chamberlain e Daladier, con la
mediazione di Benito Mussolini, avevano avallato l’invasione tedesca dei
Sudeti, e, con essa, il sogno della Grande Germania, iniziato con l’Anschluss,
l’annessione unilaterale dell’Austria, patria del fuhrer.
Egli
l’aveva lasciata nel lontano 1914, da artista fallito, per non combattere
nell’esercito austro-ungarico, “crogiuolo di popoli inferiori”, come ricordò
nel Mein Kampf, vi rientrò in
trionfo, accolto come un liberatore carismatico. In quell’occasione potè anche
soddisfare un segreto desiderio, nato, passeggiando nelle sale del museo
Hofburg di Vienna, nel 1909: possedere la Heilige Lanze, la lancia con la quale
San Longino trafisse il costato di Cristo, acquistandone poteri immensi. Essa,
secondo la leggenda, dopo esser stata portata in Occidente dallo stesso
Longino, passò per le mani di tutti i più grandi sovrani dell’epoca cristiana:
Costantino la ebbe con sé a Ponte Milvio, con essa Carlo Martello respinse gli
Arabi a Poitiers, poi divenne il simbolo del potere per gli imperatori del
Sacro Romano Impero, Carlo Magno, Ottone I, Federico Barbarossa fino ad
arrivare alla gloriosa dinastia degli Asburgo che la collocarono nella Stanza del
Tesoro al Hofburg di Vienna, dopo aver incastonato nella punta della reliquia
un chiodo della vera Croce.
Si
può solo immaginare l’enfasi con cui Hitler prelevò la lancia dalla propria
teca, sollevandola sopra di sé, consapevole di stringere tra le mani il simbolo
di padrone del mondo. La fece riporre nella Chiesa di Santa Caterina a
Norimberga, dove rimase, opportunamente nascosta, fino al ritrovamento da parte
degli Americani alle 14.10 del 30 aprile 1945, nelle stesse ore in cui la
parabola di Hitler terminava nel suicidio di Berlino. Non è difficile pensare
che Hitler considerasse la Heilige Lanze una sorta di amuleto, al possesso
della quale attribuire parte dei propri successi militari. Certo è che essi
furono in primo luogo imputabili all’appeasement
britannico, all’arrendevolezza del governo di Londra dinanzi le violazioni
tedesche del Patto di Versailles. Rileggendo l’ascesi di Hitler dal 1933 in poi
ci si accorge che difficilmente si sarebbe potuti arrivare all’immane conflitto
del 1° settembre 1939 senza il colpevole appoggio dei grandi d’Europa e della
Società delle Nazioni alle iniziative del fuhrer. Le sue teorie sull’antisemitismo
si possono leggere già nel Mein Kampf,
pubblicato nel 1925, e l’aggressiva politica estera del Nazionalsocialismo era
già prevista dal programma del NSDAP del 1920. Ad Hitler venne permesso il
riarmo unilaterale, la militarizzazione della Renania, l’annessione
dell’Austria e per ultimo lo smembramento della Cecoslovacchia, con l’invasione
dei Sudeti, a Monaco. Come ebbe a dire Churchill, dichiaratamente contrario, da
convinto assertore della democrazia, a tale politica: “Regno Unito e Francia
dovevano scegliere tra la guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore. Avranno
la guerra”.
La
ebbero
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