"O tempora, o mores"


“O tempi, O costumi”: non solo le trame di Lucio Sergio Catilina, ma una più generale corruzione morale di Roma, spingevano il grande oratore, Marco Tullio Cicerone, ad usare, dinanzi il Senato, l’8 novembre del 63 a.C., questa altisonante invocazione, cui è sottintesa la crisi valoriale ancor prima che politica di un momento della storia romana, contraddistinto da lotte intestine che ebbero, come estrema conseguenza, la perdita della liberà da parte del Popolo. Il binomio etica-politica, messo in risalto dallo statista arpinate e celebrato da un altro grande pensatore politico quale Dante nella Divina Commedia, non può che ritornare, nostalgicamente, alla memoria, dinanzi i costumi della politica italiana dell’oggi, contraddistinta da ruberie e da una condotta morale affatto rispondente a quei sani principi la cui incarnazione è possibile ritrovare, senza ritornare troppi secoli addietro, già nelle vetuste figure di Padri della Repubblica, quali De Gasperi o Luigi Einaudi.
Sull’esempio dello storico Sallustio che attribuiva la crisi politica alla sostanziale incontinenza di una nobiltà che mangiava senza aver fame, beveva senza aver sete e dormiva senza aver sonno, non si può far a meno di constatare, tra i motivi scatenanti la crisi politica, l’immoralità della classe politica. Come direbbe Seneca dinanzi il buon Fiorito o l’affatto ligio Gianfranco Fini: “Come può governare gli altri chi non è in grado di governare nemmeno se stesso?”.
Clientelismi di vario genere, sezioni di partito affollate da gente scarsamente preparata e poi spedita in vari centri di potere, la concezione della politica come carriera e non come servizio, più che cause sono, a ben vedere, l’effetto di una crisi di valori dei singoli e delle idee, che è arrivata a  mettere il governo del Paese nelle mani di un uomo colluso con il potere finanziario (per non dire peggio…) con un atto la cui contrarietà al democratico principio di sovranità del popolo, ricorda quello con cui Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di costituire un nuovo governo il 30 ottobre 1922.
Il modo in cui i partiti sostengono un governo tecnico affamatore del popolo e, nella sua odiosa spocchia professorale, capace di negare la legittimità del diritto al lavoro, nonché i crescenti consensi per un movimento qualunquista come quello di Grillo, palesa la mollezza stantia di idee che hanno potuto cambiar nomi e simboli (non le facce), ma la cui azione rimane legata ad un’inattuale retorica, buona solo per i tifosi, non per gli elettori pensanti, priva com’è del benché minimo programma o intervento pratico a favore delle reali esigenze del popolo.
E che dire della credibilità di sedicenti politici che, in pubblico, cantano canzoni leggere (vedi Bersani o Letizia Moratti), immemori dell’antica massima “risus abundat in ore stultorum” quanto della serietà confacentesi agli incarichi che furono di Lapira, Spadolini, Moro, Ruini o Don Sturzo, uomini, che al di là dei colori e delle idee, condivisero la medesima specchiata moralità? Tuttavia è innegabile che più che l’assenza di tali uomini di virtù, soffriamo la mancanza di certe virtù negli uomini: giustizia, pudore, temperanza, irrintracciabili nei pranzi luculliani, feste carnevalesche, impegni mondani, vacanze da nababbi, speculazioni immobiliari, cui i nostri politici, alla faccia della cura dello spirito, amano intrattenersi.
Dinanzi l’esercito di novelli Catilina che la nostra classe politica è, non abbiamo che da unirci al grido del grande Cicerone: “Quo usque tandem abutere Catilina patientia nostra?