Italiani contro Italiani: i 600 giorni della Repubblica di Salò


La Repubblica di Salò, emblema di una lacerazione aperta nella nazione da 20 anni di Fascismo e ancora non rimarginata, che riaffiora dalla storia del secolo scorso, stampata su una pagina nera come l’entusiasmo dei giovani che ne animarono i 600 giorni di vita,  ma anche come le cupe vicende di morte che la segnarono.
La Repubblica Sociale Italiana nacque il 18 settembre 1943: più che del messaggio radiofonico con cui il duce, liberato nell’Operazione Quercia di 6 giorni prima sul Gran Sasso, ne annunciò la nascita alla nazione con una voce proveniente dall’oltretomba, praticamente irriconoscibile per quei pochi che lo udirono su Radio Monaco, fu una creatura dell’8 settembre, “il giorno della vergogna” per qualunque fascista. 
Il duce tra le truppe della Repubblica Sociale
Alla luce della decisione di firmare l’armistizio con gli Alleati e del dramma nazionale della fuga del re dalla propria gente per trovare riparo a Brindisi sotto la protezione dell’esercito Anglo-Americano, molti Italiani, rifiutandosi di sparare contro quei tedeschi insieme ai quali avevano combattuto per tre lunghissimi anni, non accettarono il repentino rovesciamento di alleanze, e abbracciarono la causa alla quale erano stati educati: quella nazifascista. Il nuovo stato, ultimo bastione di un’ideologia sconfitta, si estendeva dal Lago di Garda al Veneto, non ebbe mai una Costituzione e un governo centralizzato. Gli uffici erano sparpagliati, in modo caricaturale, un po’ ovunque: a Cremona, il Ministero della Difesa Nazionale; a Brescia, le Finanze e la Giustizia; a Verona l’Economia Corporativa; a Padova l’Educazione Nazionale; a Venezia, la Camera dei Fasci e delle Corporazioni; a Salò, gli Esteri e il MinCulPop mentre il quartier generale del duce con il Consiglio dei Ministri era a Gargnano (BS). Questa mancanza di centralizzazione che fece sempre avvertire al Governo la propria provvisorietà e l’incertezza circa la legittimità della propria autorità, venne stabilita da Hitler, vero padrone della Repubblica, il quale, attenendosi all’antico principio del divide et impera, evitò la creazione di un forte potere centrale per aver pienamente sotto controllo le iniziative del neonato stato, di fatto, nulla più di una propaggine del Reich.
Mussolini a colloquio con un giovane soldato repubblicano
E infatti il fascismo di Salò fu profondamente diverso da quello che aveva contraddistinto i 20 anni precedenti: assunse sembianze molto più simili a quelle della Germania Nazista, come il nome stesso della RSI suggerisce: Repubblica, come quella di cui Hitler era cancelliere, Sociale (nel senso più lato, come disse Mussolini nel messaggio del 18/IX), per alludere ai tratti nazionalsocialisti della politica economica, quali la nazionalizzazione delle fabbriche. Ma, al di là dell’assetto istituzionale, la Repubblica di Salò fu prima di tutto storia di coloro che ne abbracciarono la causa, un’alleanza di nonni e nipoti (i "padri", gli uomini nel fiore della maturità, erano stati cancellati dalla guerra), ovvero un sodalizio dei fascisti della prima ora con quelli dell’ultima generazione, cresciuta sui banchi della scuola di regime e nelle organizzazioni paramilitari giovanili devote al duce. Per una parte si trattava di uomini e ragazzi che videro nell’adesione alla RSI la possibilità di finire la guerra al fianco di coloro con i quali l’avevano iniziata, e dunque il riscatto da quell’accusa infamante di “traditori” che l’8 settembre sembrava avergli gettato addosso. Per altri, soprattutto giovani, la guerra per il Fascismo rappresentava la causa alla quale erano stati cresciuti ed offriva l’occasione di contribuire al mito, costruito da vent’anni di propaganda, e così emulare quegli eroi fascisti, quali Carnera, la Nazionale di Calcio 2 volte Campione del Mondo, Italo Balbo ecc... , il cui culto era parte integrante dell’educazione scolastica. Per altri ancora, scegliere di arruolarsi nelle forze della Repubblica di Salò fu semplicemente una questione di vita o di morte: non rispondere, infatti, all’appello del Maresciallo Graziani, giacchè retinenza di leva, valeva la pena capitale. 
Alessandro Pavolini, il "padre" delle Brigate Nere
I Tedeschi non credettero gran che al valore di questi uomini e persino quelli da loro stessi addestrati, li rimandarono in Italia in ritardo e poco attrezzati. Parte di essi vennero inquadrati in truppe contro il c.d. ribellismo, impiegati alla caccia alle streghe contro l’opposizione interna. Proliferarono le brigate della morte, nulla più che gruppi di criminali, legalizzati dal regime, capaci di veder solo o fascisti o nemici da far fuori in un totale deserto morale: tra le più efferate, la Banda Carità e quella Koch, dal nome di Pietro Koch, il famigerato fondatore, che descrisse quella al partigiano come una caccia che dà piacere, passata tra alcool, divertimenti e prostitute. Fascisti e Partigiani, stesso sangue ma ideologie differenti, gli uni per l’onore, gli altri per una libertà di cui vent’anni di regime avevano cancellato nostalgia e ricordo. Se lo scenario apocalittico che avrebbe generato una vittoria nazista della guerra, mostra la falsità della causa che abbracciarono i repubblichini, la sconfitta comunque non cancella le barbarie compiute dall’altra parte, dalle brigate “Garibaldi”, le quali si dettero ad omicidi di industriali, preti e sospetti fascisti, in nome della lotta di classe, sognando più che la liberazione dallo straniero, la rivoluzione proletaria. E’ anche questo il dramma degli uomini e delle donne che, in buona fede, presero parte alla Repubblica Sociale: essere tacciati di una colpa, che prima dell’8 settembre, era imputabile a 40 milioni di Italiani, come ironizzò Churchill, quella di essere e sentirsi fascisti, e in virtù di ciò non esser considerati degni oltre che di umana comprensione per una scelta sbagliata, nemmeno del ricordo delle loro 50 mila vittime. E’ un dramma che va oltre la morte e rappresenta la triste sorte di uomini che da tutto, dal re che li abbandonò a loro stessi; dai falsi miti della retorica fascista da cui erano stati sedotti; infine, dalla Storia, che li considerò Italiani “indegni della libertà”, si ritrovarono traditi, per aver voluto dimostrare di “non aver tradito”.