“Di questa costa,
dov’ella frange
Più sua rattezza,
nacque al mondo un sole,
come fa questo
talvolta di Gange.
Però chi d’esso
loco fa parole,
non dica Ascesi,
chè direbbe corto,
ma Oriente, se
proprio dir vuole.”
Con
queste terzine, il Sommo poeta celebra la figura di San Francesco attraverso
una straordinaria metafora con cui accosta la figura del santo a quella del pianeta che mena dritto altrui per ogne
calle, e la sua città natale, Assisi (citata secondo l’antica lectio,
Ascesi) allo stesso Oriente, donde il sole nasce.
Siamo
nel Paradiso, nel XI Canto, quello degli spiriti sapienti e le lodi del santo
vengono tessute dal domenicano e Dottore della Chiesa Tommaso d’Aquino secondo
un felice schema narrativo, ideato dal Sommo e riproposto nel canto successivo dalla
lode dell’altro riformatore del XIII secolo, San Domenico, per bocca del
teologo francescano San Bonaventura da Bagnoreggio.
L’impossibilità
di trattare separatamente l’elogio dei due santi, è dettato per Dante dalla
massima biblica “Quod Deus coniunxit,
homo non separet”, dalla volontà cioè, attraverso una lode congiunta, di
riconoscere uno stesso progetto divino nella contemporanea nascita agli
antipodi della Cristianità ( San Domenico ad Occidente, San Francesco ad
“Oriente”) dei due santi in grado di sconfiggere i due nemici, al tempo, della
Chiesa: all’interno, gli ecclesiastici corrotti, all’esterno, gli eretici,
combattuti rispettivamente dalla povertà francescana e dall’ortodossia
domenicana.
Da
questo imprescindibile particolare strutturale del canto, è possibile
riconoscere il fine tutto politico quanto religioso del viaggio ultraterreno di
Dante: riportare gli uomini al Vero Bene, mostrando i castighi e il trionfo
riserbati, nell’eternità, rispettivamente a coloro che, in vita, trasgredirono o
seguirono i divini precetti, dettati da una fede, i cui caratteri fondamentali
erano stati abbandonati, in prima istanza, proprio dagli uomini di Chiesa,
dimentichi di quella povertà evangelica che Francesco pose al centro della
propria missione. Su questo carattere l’Alighieri insiste, ricorrendo ad
un’immagine cui il contemporaneo Giotto, impegnato nella decorazione della
Basilica di Assisi, non dà lo stesso peso, evidenziando, al contempo,
l’originalità e i secondi fini di natura politica, sottesi all’arte di Dante:
si tratta del matrimonio tra San Francesco e la Povertà, colei che aveva pianto
con Cristo sulla croce ed era, poi, rimasta vedova per più di 1100 anni.
E’
un’immagine straordinaria che il poeta fiorentino preferisce ai caratteri più
propriamente ascetici della vita del santo di Assisi per porne in evidenza
l’insegnamento dato all’esistenza di ciascun cristiano: a Dante, riformatore
dei costumi e, dunque, della politica, interessa celebrare di San Francesco non
tanto la spiritualità così santa da apparire irraggiungibile a noi poveri
mortali, ma più propriamente il purissimo affrancamento dalla cupidigia, passo
fondamentale di quella battaglia che la vita cristiana è e che, prima di tutto,
si combatte nel nostro cuore per sconfiggere l’insaziabile egoismo di desideri
e brame senza fine e raggiungere, così, la santità di una donazione
incondizionata all’altro.
Alla
vigilia della ricorrenza del santo di Assisi, Dante, attraverso l’eternità
della sua poesia, giunge al cuore di noi uomini del terzo millennio, così come
credette di fare per quelli della sua generazione, indicando la straordinaria
esistenza di San Francesco, come faro per una vita vissuta nella
Carità e lontana da quello sfrenato godimento dei beni terreni di cui ben
vediamo i catastrofici risultati nella crisi economica e morale del nostro
tempo.