19 Luglio '43. Bombe su Roma


Roma 19 luglio 1943. Il cielo della Città Eterna viene oscurato dal carico di morte di 500 bombardieri americani che riversano, in tre ore, 4 mila bombe sulla capitale della cristianità, come nelle intenzioni di uno dei grandi protagonisti del secondo conflitto mondiale, Winston Churchill. Il primo ministro britannico, sbagliando, è convinto che la disfatta italiana possa significare la fine della guerra e a tale fine il bombardamento di Roma – che avrebbe, secondo quanto da lui stesso scritto il 17 luglio, stroncato la famiglia reale e Mussolini - in quanto mezzo, è machiavellicamente giustificato. Inizialmente ha addirittura pensato, con il suo stato maggiore, di bombardare casa Mussolini, rinunciando poi all’iniziativa per la duplice ragione che il duce certamente non si sarebbe fatto uccidere in tal modo e che, dunque, l’unico risultato sarebbe stato quello di distruggere il centro storico di una città, cui gli Inglesi erano particolarmente legati, come dimostravano visitandola, sempre per prima, nei viaggi in Italia, giacchè incarnazione di quel classicismo cui erano stati educati.
Veduta del bombardamento (fotografata da un aereo americano)
A seguire il bombardamento, dalle finestre del proprio appartamento, vi è un romano d’eccezione, Eugenio Pacelli, da 4 anni sul trono di Pietro con il nome di Pio XII. E’ molto scosso e chiede continuamente cosa stiano bombardando quei 500 aeroplani: ignora, infatti, che gli Americani hanno predisposto di colpire in modo “chirurgico” – cosa impossibile dato l’enorme numero di mezzi - le industrie e le ferrovie romane. Appena il lungo bombardamento termina, ordina una vettura (senza seguito) e tutto il denaro che sia reperibile. Viene preparata l’auto vecchia (tra le uniche due della "flotta" papale), essendo l’automobilista convinto che il papa voglia fare una passeggiata nei giardini, ma questi, in compagnia di Mons. Montini (il futuro Paolo VI, allora segretario) chiede di essere portato al quartiere San Lorenzo, fortemente colpito nella giornata. Quando scende dalla vettura, si inginocchia e prega per le vittime. Passa tra la gente e la talare bianca gli si sporca di quel sangue, il cui spargimento, già da molti mesi, temeva e aveva cercato di evitare.
Come racconta Sir Francy D’Arcy Osborne, Duca di Leed e ambasciatore britannico presso la Santa Sede, alla fine del 1942, pochi mesi dopo lo sbarco americano in Algeria che, di fatto, rendeva praticabili, sul suolo italiano, bombardamenti come quelli che già dal maggio di quell’anno avevano colpito il suolo tedesco, il papa aveva inoltrato all’ambasciatore americano la richiesta di fare di Roma una Città Aperta, ovvero non bombardabile in quanto inoffensiva militarmente. A tal fine aveva inviato anche al Governo Italiano una richiesta di smobilitare gli obiettivi militari nella Città Eterna, contando sul proprio ruolo di autorità morale. Ma i tempi rispetto a quel 1077 quando Gregorio VII si era permesso il lusso di far aspettare un imperatore come Enrico IV a piedi nudi nella neve di Canossa, sono cambiati parecchio e persino le preghiere del Vicario terreno di Cristo e i validissimi argomenti di natura spirituale nel senso più lato della parola circa l’inopportunità del bombardamento della città depositaria della cultura antica e culla della Cristianità, nulla possono contro effimeri interessi militari.
Pio XII tra la folla a San Lorenzo
Come scrive lo stesso Sir Osborne, che pure era un anglicano, il Vaticano aveva una “concezione quadridimensionale” - ovvero atemporale - di Roma, considerandola come centro della Cristianità e non come accidentale capitale d’Italia o di un ancor più transitorio stato fascista. A queste ragioni si aggiungeva per Pio XII, lo speciale legame che ognuno ha con la propria città natale e l’attenzione, umana ancor prima che pastorale, per le molte persone giunte nella Città Eterna, dopo l’inizio della Guerra, convinte di trovarvi riparo dalle bombe. Come già detto, simili argomenti a nulla valsero contro la volontà categorica di Churchill di dare presto fine alla guerra, nell’erronea convinzione che la sconfitta italiana coincidesse con quella dell’Asse (a tal proposito risultò sicuramente più lungimirante la strategia di Roosevelt di attaccare la Germania dal fronte occidentale). A discapito della “Open City Question”, come la chiamarono gli Americani, furono decisive la non perdonata partecipazione dell’Italia alla Battaglia di Londra, benché i suoi aerei, con base in Belgio e autonomia di volo di appena 10 minuti, non avessero, di fatto, sganciato nemmeno una bomba sul suolo britannico, e la paura che l’Italia, in quanto “paese egemone” – le virgolette sono d’obbligo – nel Mediterraneo, nei piani di Hitler, potesse spezzare i rifornimenti inglesi in tale bacino marittimo e dunque compromettere la sopravvivenza britannica in Egitto.
Il risultato del bombardamento nel Quartiere San Lorenzo
Il bombardamento del 19 luglio, da tutti avvertito come fortemente stridente con ogni sentimento di ciceroniana humanitas e le cui ripercussioni sull’opinione pubblica furono così forti da far riacquistare simpatia, da parte della popolazione, nei tedeschi occupanti, non sarà l’unico, ma il primo di addirittura 53, con un bilancio finale di 1060 tonnellate di bombe sganciate, 4 mila morti e 11 mila feriti. L’inferno finirà il 4 giugno 1944, quando nella Città entreranno gli Americani, sventando definitivamente l’ipotesi di una strenua difesa della posizione da parte dei nazifascisti, che avrebbe fatto di Roma una novella Stalingrado e, dunque, un cumulo di macerie.
Tuttavia, le bombe gettate sulla città, anziché sminuirne il carattere a contingente obiettivo militare, sottolineano ancora una volta l’impossibilità, da parte della storia, di prescindere da Roma: occorre sempre fare i conti con la Città Eterna e misurarsi con il vetusto timore che incute dall’alto di un ruolo che, se non politicamente, non ha mai abbandonato: quello di CAPUT MUNDI.