26/10/2011 - Nel vasto panorama simbolico del Risorgimento pochi momenti
e pochi eventi raggiungono l’intensità evocativa e starei per dire
drammatica di quello che è passato alla storia come l’incontro di Teano.
Forse solo la giornata di Aspromonte ebbe un impatto più forte sulla
coscienza del paese giunto all’Unità da poco più di un anno, ma in un
senso e con una percezione del tutto opposta, tragica più che
drammatica. Quanto meno così la rappresentò lo stesso Garibaldi che
nella stesura definitiva delle
Memorie, poche pagine dopo avere
appena accennato all’incontro del 26 ottobre 1860 senza nemmeno nominare
il luogo dove avvenne (“… deposi in mano di Vittorio Emanuele la
Dittatura, che m’era stata conferita dal popolo – proclamandolo re
d’Italia”), riservò parole di vero sdegno e sofferenza interiore allo
scontro “fratricida” del 29 agosto 1862 che ebbe per teatro i monti
della Calabria: i soldati di Vittorio Emanuele ci trattarono come
briganti, scrisse, attaccandoci appena fummo a tiro di fucile: “Noi, non
rispondemmo. Terribile fu per me quel momento! Gettato nell’alternativa
di deporre le armi come pecore – o di macchiarmi di sangue fraterno!
Tale scrupolo non ebbero certamente i soldati della monarchia – o, dirò
meglio, i capi che comandavano quei soldati. Che contassero sul mio
orrore per la guerra civile? Anche ciò è probabile – e realmente, essi
marciavano su di noi con una fiducia che lo faceva supporre”. Rivelatore
di fratture che i trionfi dell’anno precedente avevano in qualche modo
nascosto alla vista, Aspromonte fu un autentico choc, anzitutto per
quanti lo vissero, e per Garibaldi più di altri, sebbene già nell’aprile
del 1861 la discussione parlamentare sull’Esercito Meridionale gli
avesse fatto capire che la collaborazione con la monarchia non gli
restituiva ciò che essa gli era costata.
Teano dunque, o Taverna Catena, o Vairano Patenora, ché sono molte le
località che, come avveniva nella Grecia antica per Omero, si
contendono l’onore di avere ospitato un atto così carico di significati.
Quello che si percepì subito da tutti fu la conseguenza geo-politica
dell’incontro, conseguenza del resto già scontata dopo l’esito del
plebiscito napoletano di cinque giorni prima: respinta ogni richiesta di
convocazione di una Assemblea avanzata dai democratici raccolti attorno
a Mazzini e a Cattaneo, Garibaldi aveva lasciato che il pro-dittatore
Pallavicino preparasse il passaggio dei poteri dal governo dittatoriale
al sovrano; e con esso l’annessione dell’intero meridione al Regno
sardo. “Salute al re d’Italia”: queste le parole che l’uomo dei Mille
avrebbe rivolto a Vittorio Emanuele II nella ricostruzione lasciataci da
Giuseppe Cesare Abba. Non molto diversa la versione di un altro
memorialista, Alberto Mario, che riferisce un breve scambio di
convenevoli concluso da Garibaldi con una esclamazione rivolta al suo
seguito: “Ecco il re d’Italia!”. Comune a questi, e ad altri testimoni
diretti, è la sottolineatura del clima finto-festoso in cui i due
personaggi si vengono incontro a cavallo e si salutano sotto gli occhi
poco partecipi e poco convinti dei rispettivi stati maggiori: tant’è che
nel riprendere il cammino, mentre Garibaldi invitava i contadini ai
lati della strada ad applaudire il re e quelli invece si ostinavano a
gridare “Viva Calibardo”, gli ufficiali del seguito, dopo aver provato a
mescolarsi, “a poco a poco si separarono”, tornando ciascuno “al
proprio centro di gravità; in una riga le umili camicie rosse,
nell’altra a parallela superbe assisi lucenti d’oro, d’argento, di croci
e di gran cordoni”: due mondi separati e distinti che gli anni avvenire
avrebbero ancor più allontanati malgrado gli sforzi compiuti da
Garibaldi perché l’annessione, ossia la conquista e lo spirito in cui si
compiva, non fosse tale almeno nei rapporti umani.
Nella sua simbolicità l’incontro di Teano aveva un protagonista
invisibile, ed era Cavour, trionfatore su tutta la linea: distrutto
politicamente nel 1859 dalla sospensione delle ostilità decisa a
Villafranca, nel 1860 aveva domato in un colpo solo Napoleone III, cui
aveva fatto digerire la riduzione dello Stato pontificio; Garibaldi, che
era riuscito a tenere lontano da Roma e verso il quale a cose fatte
poteva anche mostrarsi cavalleresco; la Sinistra mazziniana, alla quale
aveva negato la convocazione dell’Assemblea costituente ossia del
consesso che avrebbe dovuto discutere le modalità dell’annessione;
Vittorio Emanuele II, che ancora una volta aveva dovuto rassegnarsi
all’idea che le decisioni supreme sul futuro del paese dovessero passare
attraverso il Parlamento. Va detto che per arrivare a cogliere tutti
questi risultati Cavour, quando era stato necessario, non aveva esitato a
dimenticare di essere Cavour. “Garibaldi – gli scriverà il giorno dopo
Teano l’ultramoderato Farini, eccitatissimo per avere assistito anche
lui all’evento – ne ha dette e fatte delle grosse: ma noi facciamo le
garibaldaggini politiche meglio di lui”. Solo così, rubando qualcosa ai
rivoluzionari e facendo anche lui le sue “garibaldaggini”, Cavour era
riuscito a non essere più lo statista esitante e incerto del 1859, il
primo ministro di un piccolo regno soggetto alle manovre della
diplomazia internazionale. Per quanto potesse dir male del Duce dei
Mille a uso e consumo dei rappresentanti stranieri a Torino, l’impresa
garibaldina con le sue caratteristiche di movimento volontario sostenuto
dal consenso delle popolazioni e di gran parte dell’opinione pubblica
dell’Occidente gli aveva messo in mano una carta assai utile, da
spendere nel difficile confronto con le Potenze. Ciò voleva dire che il
diritto pubblico europeo stava subendo una significativa trasformazione:
non era più materia esclusiva della diplomazia ma era diventato un
teatro sul quale protagonisti diversi da quelli tradizionali erano in
grado di far sentire la loro voce.
Un altro potente elemento simbolico dell’incontro di Teano va
ricercato nelle varie tecniche iconografiche con cui ci si affrettò a
rappresentarlo non solo per fissare nella memoria storica collettiva un
momento storico di quella portata ma anche per venire incontro alla fame
di immagini che proprio in quegli anni stava prendendo piede in tutta
Europa. La scena fu riprodotta a caldo in un numero impressionante di
stampe, incisioni, disegni, e poi quadri, piatti di ceramica, foulard di
seta e altri gadget di facile smercio. A caratterizzarla e a conferirle
efficacia comunicativa, almeno agli occhi dell’uomo della strada, era
il fatto che i due personaggi principali, il re e Garibaldi, il primo
sul cavallino arabo bianco, il secondo in sella a un cavallo nero, erano
posti sullo stesso piano, a destra l’erede di una delle più antiche
dinastie del continente, a sinistra il figlio del popolo giunto a
stringergli la mano (solo nell’interpretazione recente di Forattini c’è
una vera e propria sproporzione fisica tra i due personaggi, con
Vittorio Emanuele che sovrasta un Garibaldi rimpicciolito). Per di più
tra i due quello che compie un atto di regale maestà è, come nota con
finezza Abba, il “popolano generoso”, che “in nome del popolo” consegna
al sovrano la corona del regno del Sud. Varianti della stessa scena sono
meno solenni, da quella che raffigura Garibaldi come un capataz
sudamericano che va incontro a Vittorio Emanuele sventolando il
cappello, a quella che molto più realisticamente raffigura Garibaldi che
per proteggersi dall’umidità ha, sotto il berretto, la testa avvolta in
un fazzoletto di seta annodato sotto il mento come quello di una
qualunque vecchietta.
Il terzo motivo simbolico dell’iconografia dell’incontro è legato
alla composizione sociale del seguito. Sono aiutanti di campo, ufficiali
di stato maggiore, ministri anche, e li si è già visti nella
descrizione che ce ne ha dato Alberto Mario: da un lato i militari
piemontesi tutti tronfi nelle loro divise tirate a lucido e scintillanti
d’oro, dall’altro i garibaldini vestiti in modo assai meno vistoso ma,
si suggerisce, tanto più di loro decorati dalle imprese appena compiute.
L’incontro è anche questo: due mondi e le rispettive mentalità e
ideologie che entrano a contatto e si uniscono in funzione dello stesso
obiettivo ma senza nessuna possibilità di integrarsi. Sono stati d’animo
che né i pittori né i disegnatori per quanto abili riescono a rendere
nel momento in cui raccontano lo storico episodio. Ma è da questa
lontananza che nasce la freddezza che si percepisce dietro i toni
festosi e su cui i democratici, con Mazzini alla testa, si soffermano,
quasi affidando a questa sensazione le residue speranze di staccare
dalla monarchia il Dittatore vittorioso: il quale, anche in un momento
come questo, si veste di umiltà per chiedere a Vittorio Emanuele di non
dimenticarsi dei suoi volontari. Sia Alberto Mario che G.C. Abba che ne
utilizza la testimonianza diretta mettono l’accento sulla mestizia del
generale che attribuiscono al fatto che insieme col potere sul
territorio conquistato Garibaldi aveva ceduto anche il comando delle
future operazioni militari: “Voi – gli aveva spiegato Vittorio Emanuele –
vi battete da troppo tempo, tocca a me adesso; le vostre truppe sono
stanche, le mie fresche: ponetevi alla riserva”. Era una frase che non
ammetteva repliche. “Ci hanno messo alla coda”, dirà Garibaldi a Jessie
White Mario; lui stesso, in un brano mai pubblicato delle
Memorie,
annoterà con amarezza: “L’esercito settentrionale, comandato dal re,
subentrava alla conclusione della guerra, e ben presto si poté capire,
che non si desiderava il nostro contatto”.
Secondo Giuseppe Guerzoni, fu questo il punto d’arrivo di una
strategia partita con l’invasione dello Stato pontificio ad opera dei
Piemontesi e finalizzata a togliere di mezzo il guerriero prima che
diventasse troppo potente: “Garibaldi aveva vinto troppo: bisognava che
la partita di quell’indiscreto donatore di regni fosse chiusa; bisognava
dimostrare che si potesse vincere senza di lui, dovesse la vittoria
costare a cento doppi più cara; bisognava […] che il futuro Re d’Italia
potesse presentarsi ai suoi nuovi popoli, non già nelle umili sembianze
d’un sovranello protetto e patteggiato, ma di un vero Re soldato e
conquistatore”. E così fu.
La simbologia di Teano racchiude in sé un altro aspetto – forse
nemmeno l’ultimo – che potremmo definire geografico, visto che vi è
rappresentato l’incontro tra il Nord e il Sud e, con esso, l’inizio
della continuità territoriale del Regno d’Italia non più spaccato in due
dallo Stato pontificio. Al di là del dato geografico, a contare è il
rapporto difficile che si profila tra un’Italia settentrionale avviata
sia pure da poco a passi sicuri verso la modernizzazione e un’Italia
meridionale che molti sia italiani che stranieri, e dunque non soltanto
il solito, citatissimo Farini, descrivono ben al di là dei confini della
civiltà pur quando ne apprezzano la bellezza e le ricche tradizioni
culturali (si è parlato in proposito di razzismo trascurando volutamente
il tono dolente e allarmato di tali osservazioni). Anche in questo
caso, anzi soprattutto in questo, la scena di Teano così come ci è stata
tramandata è ingannevolmente oleografica, pare inaugurare un’epoca di
collaborazione tra le varie forze del paese e invece è solo il
preannunzio di una sottomissione, di una subalternità destinata a durare
a lungo. Come confidava al suo
Diario politico Giorgio Asproni
uno degli esponenti più perspicaci dello schieramento democratico, “gli
Italiani della Italia meridionale impareranno a conoscere a spese
proprie la politica implacabile dei Piemontesi, che sono e saranno
eternamente mentitori, ingannatori e ladri”. La frase era scritta
quattro giorni dopo le votazioni del plebiscito e dunque sgorgava da uno
stato d’animo comprensibilmente amareggiato e deluso: ma quel che conta
è che vi era già prefigurato un futuro di netto squilibrio a danno del
Sud, così come sia in Mazzini che in Cattaneo era chiara la premonizione
che molta parte di questo squilibrio sarebbe stata resa più sensibile
dall’imminente esclusione dei democratici dal tavolo delle decisioni.
Così dicendo non si vuol mettere in discussione l’importanza storica
della giornata del 26 ottobre 1860, ma richiamare l’attenzione sul peso
che avrebbe avuto sul futuro del paese quello che con qualche cedimento
alla tentazione del revisionismo si potrebbe definire “il mancato
incontro di Teano”. Ma è ancora corretto parlare di Teano come della
località in cui il re d’Italia e l’ormai ex dittatore delle Due Sicilie
si incontrarono?