Cappella Sistina, 5 secoli di storia



Era il 31 ottobre 1512 quando papa Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, svelò al mondo uno dei maggiori capolavori dell'arte, meta ogni anno di oltre 5 milioni di visitatori, frutto del lavoro di un solo uomo che in 4 anni dipinse oltre i 1000 metri quadri. Si tratta della volta della Cappella Sistina, nella quale oggi il Santo Padre Benedetto XVI celebrerà i Vespri in occasione del cinquecentesimo anniversario di tale evento, con la stessa cerimonia con cui 5 secoli fa l’allora Pontefice aveva inaugurato la cappella appena affrescata.
Senza voler ridimensionare l’innegabile merito di Michelangelo - che tuttavia si considerava più scultore che pittore - bisogna allo stesso modo dare giusto merito anche a Giulio II che volle più di ogni altro che la Cappella fossi affrescata, anche a costo di cancellare i dipinti di notevole valore come quelli di Botticelli.
Michelangelo affermò più volte di essere stufo di lavorare a dipingere un "granaio" - così definiva la Cappella, per via della sua forma e dei pochi affreschi che la ornavano - ma l'instancabile caparbietà del Pontefice fece di un grande scultore - come si definiva a ragione Michelangelo - l'autore del più celebre affresco del mondo intero. L’opera non rientra negli ultimi lavori di Michelangelo - il Giudizio Universale è successivo - ma, essendo realizzato nell’arco di quattro anni, testimonia la crescita e la maturazione dell’artista: se i primi dipinti della volta sono scene piene di figure mediamente piccole, le ultime sono costituite prevalentemente da poche figure di grandi dimensioni; e ancora, gli studi a raggi X hanno dimostrato che i primi dipinti sono basati su dei disegni a carboncino sulla parete, gli ultimi sono stati realizzati direttamente con il colore.
Senza addentrarci troppo in ambiti che non ci competono e tralasciando dunque la critica artistica, possiamo “limitarci” a apprezzare questo capolavoro, massimo esempio di Biblia pauperum, rappresentazione artistica dei contenuti delle Sacre Scritture, compendio senza eguali della storia della Cristianità.

Intolleranti dei tolleranti

"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali".

L'articolo 3 della nostra Costituzione rappresenta indubbiamente motivo di orgoglio per tutti gli Italiani, ed I suoi contenuti sono spesso richiamati - talvolta fuori luogo - nei dibattiti di attualità; appare dunque doveroso citare tale articolo nell'ambito di una vicenda che si è guadagnata in questi giorni i titoli di giornali e telegiornali: una scuola elementare del Trentino ha vietato ai bambini che la frequentano di fare il segno della croce o pronunciare la preghiera sui pasti nella mensa scolastica.

Il divieto di esprimere la propria fede in una delle sue manifestazioni più semplici pone la nostra attenzione sull'effettiva validità dell'articolo 3 e dell'uguaglianza formale e sostanziale che esso dichiara essere principi fondamentali della nostra Repubblica: dopo l'ormai arcinota questione del crocifisso nelle aule ci troviamo ancora una volta a discutere di una mancanza di rispetto camuffata da necessità di affermare quel principio di uguaglianza che in realtà non si fa altro che infrangere.

L'Italia non è nuova a situazioni di questo genere, che sollevano la questione dell'effettiva violazione dei principi che i Padri Costituenti posero alla base del nostro Stato: senza più valori saldi né certezze l'uomo, schiavo della propria presunta libertà, si erge a difensore di quegli stessi principi che ha ormai disconosciuto e dimenticato.

Il più devoto dei figli d'Italia

Umberto Nicola Tommaso Giovanni Maria di Savoia, re con il nome di Umberto II, è passato alla storia come Re di Maggio, avendo guidato il Paese dal 9 maggio al 18 giugno, quando la Corte di Cassazione ufficializzò i risultati del Referendum costituzionale del 2 giugno. Il 13 il Re lascia l’Italia dall’aeroporto militare di Ciampino, alle porte di Roma, dando di fatto il via libera alla proclamazione della Repubblica. Re Umberto pronunciò un discorso prima di lasciare l’Italia, il suo ultimo discorso da Sovrano, facendo seguito al proclama agli Italiani del 1 giugno immediatamente prima del Referendum.

Il Caso Mattei


27 ottobre 1962: l’aereo India Alfa Papa è diretto da Catania a Milano. Il pilota sembra tranquillo, nonostante il maltempo. Siamo in fase di atterraggio. La torre di controllo ha già indicato la pista e dato l'autorizzazione all'atterraggio: 9 gradi pista 36. “Ricevuto”, sono le ultime parole, poi India Alfa Papa non risponde più. Qualche minuto dopo, il bireattore precipita nella campagna di Bascapé. Muore l'intero equipaggio: Enrico Mattei, il giornalista inglese William Mchal e il pilota Irnerio Bertuzzi.
Un incidente tuttaltro che inspiegabile sul quale dubbi, più che ragionevoli – per usare una formula giudiziaria- gettano il ruolo e il carattere della vittima di esso: il presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi, Enrico Mattei, l’uomo più potente d’Italia.
Dopo la guerra, alla quale aveva partecipato attivamente nella Resistenza Cattolica, la commissione economica del Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia lo aveva nominato commissario straordinario dell'AGIP, con il compito di liquidare la grande industria italiana e cedere tutto ai privati. Ma Mattei si era rivelato da subito contrario al progetto assegnatogli ritenendo che l’Agip fosse una delle più interessanti eredità del Fascismo. Così si oppose, mettendo addirittura in discussione, con forte imbarazzo dell’amico e ministro Ferruccio Parri, le clausole dei trattati di pace con gli USA che prevedevano pesanti vincoli per l'Italia nella delicata fase della Ricostruzione. E’ allora che nasce il suo grande progetto, che porterà in qualche anno alla nascita dell’ENI. Mattei non ha dubbi, per la Ricostruzione italiana le fonti energetiche sono strategiche. Richiama i tecnici dell'Agip fascista e riprende ricerche e perforazioni. Per raggiungere l'obiettivo che si è prefisso trasgredisce a 8000 ordinanze, i suoi operai lavorano di notte, ed egli garantisce con le sue stesse proprietà gli investimenti. All'inizio del 1946 l'Agip trova il metano in Val Padana. 
Le azioni dell'azienda petrolifera salgono e il gas arriva in tutte le case italiane. Il miracolo italiano ha a che fare con la grande intuizione di Mattei sulle potenzialità del metano che l'Agip trovò nella cosiddetta cassaforte padana e che letteralmente strappò alle varie compagnie private che se ne volevano impossessare con una certa rapidità. Mattei ha avuto un'idea geniale. Cercando il petrolio nella pianura Padana ha trovato il gas. Sono in molti a contrastare apertamente la sua iniziativa: lo scontro sull'Agip è politico, tra chi difende la legittimità dell'intervento pubblico nei settori produttivi strategici e chi difende invece il primato del libero mercato e dell'iniziativa privata. Tutto il mondo della finanza, guidato da Giorgio Valerio, presidente del più grande monopolio italiano, è contro Mattei, in alleanza con l'industria petrolifera americana sostenuta dalla politica energetica del dipartimento di Stato.
Tuttavia è proprio nella contesa che Mattei rivela, accanto alla genialità, quella vena autoritaria del proprio carattere che contribuisce a procurargli nemici. Vuole e finanzia la nascita di un organo di stampa che lo sostenga, Il Giorno, la cui direzione viene affidata al giornalista Gaetano Baldacci. Mentre la produzione dell'ENI si intensifica e si sta costruendo la prima centrale nucleare italiana, si moltiplicano gli attacchi rivolti verso la sua persona. Mattei corrompe, compra i suoi amici, paga i partiti, dicono i suoi oppositori.
Indro Montanelli firma una serie di articoli durissimi contro Mattei sul Corriere della Sera denunciano le commistioni tra politica e affari e i metodi corrotti del presidente dell'ENI. Molti anni dopo, in un'intervista,
Mattei e il cane a sei zampe, emblema della ENI
l'editorialista ricordava così la sua inchiesta su Mattei: “Non è che Mattei pagava delle tangenti per avere questo o quell'appalto, Mattei pagava i partiti perché facessero una scelta politica, si imponeva era lui il padrone. Mattei era un uomo che agiva in grande, non paragonabile ai corrotti e i corruttori di oggi.”
La grandezza di questo personaggio, tuttavia, non è tanto nella machiavellica predisposizione per il potere e gli intrighi ad esso connesso o nella geniale intuizione nel metano, quanto nello straordinario modo in cui, novello Prometeo sfida l’Olimpo delle Sette Sorelle, e, per il bene dell’Italia e degli Italiani, si industria nello stringere accordi con paesi estranei all’orbita statunitense: i paesi ex coloniali, quei paesi ricchi di risorse che vogliono affrancarsi dal dominio del cartello del petrolio per i quali Mattei si occupa addirittura della formazione dei tecnici. Per le grandi compagnie ormai Mattei è un problema serio, parlano di un uomo che va in giro per il mondo come un guerrigliero. E lo scontro assume effettivamente i caratteri di una guerra. Riferendosi ad uno dei suoi viaggi, in Tunisia, Mattei racconta di aver visto “una lotta terribile, senza esclusione di colpi, di aver visto insieme società americane inglesi francesi olandesi, tutti uniti contro di noi. Di aver perso, in qualche occasione, ma poi di aver vinto, perché l'Italia offriva ai paesi una collaborazione vera, vantaggiosa per entrambi, ponendo condizioni molto più umane, e non arrivava nei paesi come un colonizzatore”. Giorgio La Pira, allora sindaco di Firenze, racconta in un'intervista come in quegli anni (dopo la conferenza di Bandung del 1955) “il fatto storico fondamentale fosse l'emergenza dei popoli del terzo mondo e come tale emergenza significasse proprio dare a quei paesi la possibilità politica ed economica perché divenissero delle forze storiche nuove. Mattei capì questa cosa semplice, elementare, quindi capì che se un'economia si sviluppa in quel senso quello è il senso della storia e lui fu uno che più degli altri ebbe il senso della storia presente”.
Mattei con il presidente egiziano Nasser
Sul nome di Enrico Mattei cominciano a sprecarsi inchieste e dossier, soprattutto quelli dei servizi segreti statunitensi, preoccupati del suo ruolo nella politica estera e sulla sua crescente influenza sui paese del Mediterraneo. In un documento del National Security Council del 1961 si legge: La politica petrolifera italiana, dominata da Mattei, ha sferrato attacchi alle maggiori compagnie petrolifere occidentali,e alla loro struttura internazionale dei prezzicon un impatto distruttivo nei rapporti tra le stesse compagnie e i governi del Medioriente. Le tattiche di Mattei hanno alimentato, specialmente in Africa, sentimenti anticolonialisti.
Rileggendo questo rapporto ben si scorgono motivi che avrebbero potuto indurre i servizi segreti a liberarsi di un soggetto così scomodo oltre che per la propria politica per ciò che essa rappresenta.
Analizzando i frammenti di metalli dell’aereo su cui morì Mattei vi sono inequivocabili segnali che a provocare l’incidente è stata una bomba. Il 20 febbraio 2003 il procuratore di Pavia Vincenzo Calia ha chiuso l'inchiesta sulla morte di Mattei, chiedendo l'archiviazione per quanto riguarda esecutori e mandanti. L'aereo fu dolosamente abbattuto. Non si sono trovati i colpevoli. Nelle conclusioni del magistrato si legge anche che “la programmazione e l'esecuzione dell'attentato furono complesse e comportarono il coinvolgimento di uomini inseriti nello stesso ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano”.
Uno dei tanti misteri d’Italia di cui, mai, avremo una risposta univoca, dovendo accontentarci della crepuscolare luce d’un sospetto, dettato da tutt'altro che malizia…

Teano, l'obbedienza ed il potere

26/10/2011 - Nel vasto panorama simbolico del Risorgimento pochi momenti e pochi eventi raggiungono l’intensità evocativa e starei per dire drammatica di quello che è passato alla storia come l’incontro di Teano. Forse solo la giornata di Aspromonte ebbe un impatto più forte sulla coscienza del paese giunto all’Unità da poco più di un anno, ma in un senso e con una percezione del tutto opposta, tragica più che drammatica. Quanto meno così la rappresentò lo stesso Garibaldi che nella stesura definitiva delle Memorie, poche pagine dopo avere appena accennato all’incontro del 26 ottobre 1860 senza nemmeno nominare il luogo dove avvenne (“… deposi in mano di Vittorio Emanuele la Dittatura, che m’era stata conferita dal popolo – proclamandolo re d’Italia”), riservò parole di vero sdegno e sofferenza interiore allo scontro “fratricida” del 29 agosto 1862 che ebbe per teatro i monti della Calabria: i soldati di Vittorio Emanuele ci trattarono come briganti, scrisse, attaccandoci appena fummo a tiro di fucile: “Noi, non rispondemmo. Terribile fu per me quel momento! Gettato nell’alternativa di deporre le armi come pecore – o di macchiarmi di sangue fraterno! Tale scrupolo non ebbero certamente i soldati della monarchia – o, dirò meglio, i capi che comandavano quei soldati. Che contassero sul mio orrore per la guerra civile? Anche ciò è probabile – e realmente, essi marciavano su di noi con una fiducia che lo faceva supporre”. Rivelatore di fratture che i trionfi dell’anno precedente avevano in qualche modo nascosto alla vista, Aspromonte fu un autentico choc, anzitutto per quanti lo vissero, e per Garibaldi più di altri, sebbene già nell’aprile del 1861 la discussione parlamentare sull’Esercito Meridionale gli avesse fatto capire che la collaborazione con la monarchia non gli restituiva ciò che essa gli era costata.
Teano dunque, o Taverna Catena, o Vairano Patenora, ché sono molte le località che, come avveniva nella Grecia antica per Omero, si contendono l’onore di avere ospitato un atto così carico di significati. Quello che si percepì subito da tutti fu la conseguenza geo-politica dell’incontro, conseguenza del resto già scontata dopo l’esito del plebiscito napoletano di cinque giorni prima: respinta ogni richiesta di convocazione di una Assemblea avanzata dai democratici raccolti attorno a Mazzini e a Cattaneo, Garibaldi aveva lasciato che il pro-dittatore Pallavicino preparasse il passaggio dei poteri dal governo dittatoriale al sovrano; e con esso l’annessione dell’intero meridione al Regno sardo. “Salute al re d’Italia”: queste le parole che l’uomo dei Mille avrebbe rivolto a Vittorio Emanuele II nella ricostruzione lasciataci da Giuseppe Cesare Abba. Non molto diversa la versione di un altro memorialista, Alberto Mario, che riferisce un breve scambio di convenevoli concluso da Garibaldi con una esclamazione rivolta al suo seguito: “Ecco il re d’Italia!”. Comune a questi, e ad altri testimoni diretti, è la sottolineatura del clima finto-festoso in cui i due personaggi si vengono incontro a cavallo e si salutano sotto gli occhi poco partecipi e poco convinti dei rispettivi stati maggiori: tant’è che nel riprendere il cammino, mentre Garibaldi invitava i contadini ai lati della strada ad applaudire il re e quelli invece si ostinavano a gridare “Viva Calibardo”, gli ufficiali del seguito, dopo aver provato a mescolarsi, “a poco a poco si separarono”, tornando ciascuno “al proprio centro di gravità; in una riga le umili camicie rosse, nell’altra a parallela superbe assisi lucenti d’oro, d’argento, di croci e di gran cordoni”: due mondi separati e distinti che gli anni avvenire avrebbero ancor più allontanati malgrado gli sforzi compiuti da Garibaldi perché l’annessione, ossia la conquista e lo spirito in cui si compiva, non fosse tale almeno nei rapporti umani.
Nella sua simbolicità l’incontro di Teano aveva un protagonista invisibile, ed era Cavour, trionfatore su tutta la linea: distrutto politicamente nel 1859 dalla sospensione delle ostilità decisa a Villafranca, nel 1860 aveva domato in un colpo solo Napoleone III, cui aveva fatto digerire la riduzione dello Stato pontificio; Garibaldi, che era riuscito a tenere lontano da Roma e verso il quale a cose fatte poteva anche mostrarsi cavalleresco; la Sinistra mazziniana, alla quale aveva negato la convocazione dell’Assemblea costituente ossia del consesso che avrebbe dovuto discutere le modalità dell’annessione; Vittorio Emanuele II, che ancora una volta aveva dovuto rassegnarsi all’idea che le decisioni supreme sul futuro del paese dovessero passare attraverso il Parlamento. Va detto che per arrivare a cogliere tutti questi risultati Cavour, quando era stato necessario, non aveva esitato a dimenticare di essere Cavour. “Garibaldi – gli scriverà il giorno dopo Teano l’ultramoderato Farini, eccitatissimo per avere assistito anche lui all’evento – ne ha dette e fatte delle grosse: ma noi facciamo le garibaldaggini politiche meglio di lui”. Solo così, rubando qualcosa ai rivoluzionari e facendo anche lui le sue “garibaldaggini”, Cavour era riuscito a non essere più lo statista esitante e incerto del 1859, il primo ministro di un piccolo regno soggetto alle manovre della diplomazia internazionale. Per quanto potesse dir male del Duce dei Mille a uso e consumo dei rappresentanti stranieri a Torino, l’impresa garibaldina con le sue caratteristiche di movimento volontario sostenuto dal consenso delle popolazioni e di gran parte dell’opinione pubblica dell’Occidente gli aveva messo in mano una carta assai utile, da spendere nel difficile confronto con le Potenze. Ciò voleva dire che il diritto pubblico europeo stava subendo una significativa trasformazione: non era più materia esclusiva della diplomazia ma era diventato un teatro sul quale protagonisti diversi da quelli tradizionali erano in grado di far sentire la loro voce.
Un altro potente elemento simbolico dell’incontro di Teano va ricercato nelle varie tecniche iconografiche con cui ci si affrettò a rappresentarlo non solo per fissare nella memoria storica collettiva un momento storico di quella portata ma anche per venire incontro alla fame di immagini che proprio in quegli anni stava prendendo piede in tutta Europa. La scena fu riprodotta a caldo in un numero impressionante di stampe, incisioni, disegni, e poi quadri, piatti di ceramica, foulard di seta e altri gadget di facile smercio. A caratterizzarla e a conferirle efficacia comunicativa, almeno agli occhi dell’uomo della strada, era il fatto che i due personaggi principali, il re e Garibaldi, il primo sul cavallino arabo bianco, il secondo in sella a un cavallo nero, erano posti sullo stesso piano, a destra l’erede di una delle più antiche dinastie del continente, a sinistra il figlio del popolo giunto a stringergli la mano (solo nell’interpretazione recente di Forattini c’è una vera e propria sproporzione fisica tra i due personaggi, con Vittorio Emanuele che sovrasta un Garibaldi rimpicciolito). Per di più tra i due quello che compie un atto di regale maestà è, come nota con finezza Abba, il “popolano generoso”, che “in nome del popolo” consegna al sovrano la corona del regno del Sud. Varianti della stessa scena sono meno solenni, da quella che raffigura Garibaldi come un capataz sudamericano che va incontro a Vittorio Emanuele sventolando il cappello, a quella che molto più realisticamente raffigura Garibaldi che per proteggersi dall’umidità ha, sotto il berretto, la testa avvolta in un fazzoletto di seta annodato sotto il mento come quello di una qualunque vecchietta.
Il terzo motivo simbolico dell’iconografia dell’incontro è legato alla composizione sociale del seguito. Sono aiutanti di campo, ufficiali di stato maggiore, ministri anche, e li si è già visti nella descrizione che ce ne ha dato Alberto Mario: da un lato i militari piemontesi tutti tronfi nelle loro divise tirate a lucido e scintillanti d’oro, dall’altro i garibaldini vestiti in modo assai meno vistoso ma, si suggerisce, tanto più di loro decorati dalle imprese appena compiute. L’incontro è anche questo: due mondi e le rispettive mentalità e ideologie che entrano a contatto e si uniscono in funzione dello stesso obiettivo ma senza nessuna possibilità di integrarsi. Sono stati d’animo che né i pittori né i disegnatori per quanto abili riescono a rendere nel momento in cui raccontano lo storico episodio. Ma è da questa lontananza che nasce la freddezza che si percepisce dietro i toni festosi e su cui i democratici, con Mazzini alla testa, si soffermano, quasi affidando a questa sensazione le residue speranze di staccare dalla monarchia il Dittatore vittorioso: il quale, anche in un momento come questo, si veste di umiltà per chiedere a Vittorio Emanuele di non dimenticarsi dei suoi volontari. Sia Alberto Mario che G.C. Abba che ne utilizza la testimonianza diretta mettono l’accento sulla mestizia del generale che attribuiscono al fatto che insieme col potere sul territorio conquistato Garibaldi aveva ceduto anche il comando delle future operazioni militari: “Voi – gli aveva spiegato Vittorio Emanuele – vi battete da troppo tempo, tocca a me adesso; le vostre truppe sono stanche, le mie fresche: ponetevi alla riserva”. Era una frase che non ammetteva repliche. “Ci hanno messo alla coda”, dirà Garibaldi a Jessie White Mario; lui stesso, in un brano mai pubblicato delle Memorie, annoterà con amarezza: “L’esercito settentrionale, comandato dal re, subentrava alla conclusione della guerra, e ben presto si poté capire, che non si desiderava il nostro contatto”.
Secondo Giuseppe Guerzoni, fu questo il punto d’arrivo di una strategia partita con l’invasione dello Stato pontificio ad opera dei Piemontesi e finalizzata a togliere di mezzo il guerriero prima che diventasse troppo potente: “Garibaldi aveva vinto troppo: bisognava che la partita di quell’indiscreto donatore di regni fosse chiusa; bisognava dimostrare che si potesse vincere senza di lui, dovesse la vittoria costare a cento doppi più cara; bisognava […] che il futuro Re d’Italia potesse presentarsi ai suoi nuovi popoli, non già nelle umili sembianze d’un sovranello protetto e patteggiato, ma di un vero Re soldato e conquistatore”. E così fu.
La simbologia di Teano racchiude in sé un altro aspetto – forse nemmeno l’ultimo – che potremmo definire geografico, visto che vi è rappresentato l’incontro tra il Nord e il Sud e, con esso, l’inizio della continuità territoriale del Regno d’Italia non più spaccato in due dallo Stato pontificio. Al di là del dato geografico, a contare è il rapporto difficile che si profila tra un’Italia settentrionale avviata sia pure da poco a passi sicuri verso la modernizzazione e un’Italia meridionale che molti sia italiani che stranieri, e dunque non soltanto il solito, citatissimo Farini, descrivono ben al di là dei confini della civiltà pur quando ne apprezzano la bellezza e le ricche tradizioni culturali (si è parlato in proposito di razzismo trascurando volutamente il tono dolente e allarmato di tali osservazioni). Anche in questo caso, anzi soprattutto in questo, la scena di Teano così come ci è stata tramandata è ingannevolmente oleografica, pare inaugurare un’epoca di collaborazione tra le varie forze del paese e invece è solo il preannunzio di una sottomissione, di una subalternità destinata a durare a lungo. Come confidava al suo Diario politico Giorgio Asproni uno degli esponenti più perspicaci dello schieramento democratico, “gli Italiani della Italia meridionale impareranno a conoscere a spese proprie la politica implacabile dei Piemontesi, che sono e saranno eternamente mentitori, ingannatori e ladri”. La frase era scritta quattro giorni dopo le votazioni del plebiscito e dunque sgorgava da uno stato d’animo comprensibilmente amareggiato e deluso: ma quel che conta è che vi era già prefigurato un futuro di netto squilibrio a danno del Sud, così come sia in Mazzini che in Cattaneo era chiara la premonizione che molta parte di questo squilibrio sarebbe stata resa più sensibile dall’imminente esclusione dei democratici dal tavolo delle decisioni.

Così dicendo non si vuol mettere in discussione l’importanza storica della giornata del 26 ottobre 1860, ma richiamare l’attenzione sul peso che avrebbe avuto sul futuro del paese quello che con qualche cedimento alla tentazione del revisionismo si potrebbe definire “il mancato incontro di Teano”. Ma è ancora corretto parlare di Teano come della località in cui il re d’Italia e l’ormai ex dittatore delle Due Sicilie si incontrarono?

La Battaglia di Balaclava, quando la sconfitta diventa vittoria



Il 25 ottobre 1854 si combatteva in una spianata a Nord di Sebastopoli la battaglia di Balaclava, fra l’impero russo e la coalizione di inglesi, francesi ed ottomani: la Guerra di Crimea - alla quale prenderà parte in seguito anche il Regno Sabaudo - rappresenta una svolta decisiva della storia europea ottocentesca, perché si conclude con il Congresso di Parigi, al quale il Conte di Cavour fece di tutto per poter essere presente. La Battaglia di Balaclava precede l’entrata in guerra dei Savoia (1855) e dimostra come una battaglia assolutamente inutile per gli equilibri di una guerra possa divenire oggetto di celebrazione popolare: la battaglia in questione difatti riporterà le due parti ad un ritorno allo status quo, e nonostante ciò ebbe una notevole fama fra i sudditi di Sua Maestà Vittoria. In particolare la storiografia d’oltremanica, al pari dei giornali dell’epoca, celebrarono la battaglia come una vittoria decisiva: il motivo di tutto ciò sta nelle cronache del tempo, secondo le quali le truppe inglesi dimostrarono nell’occasione un indubbio coraggio ed un ardito disprezzo del pericolo.
Il corrispondente del Times - tale William Russel - fu il primo a coniare il termine “sottile linea rossa” con il quale è passato alla storia il singolare schieramento delle truppe inglesi: Sir Colin Campbell, comandante inglese, ordinò di allungare lo schieramento, riducendo lo spessore della linea da quattro a due uomini pur di coprire l’intero accampamento. “Un sottile nastro rosso da cui spuntavano punte d'acciaio” - così fu descritto sul Times - riuscì a rompere la carica dei Russi.
Immediatamente prima lo stesso 93° Highlander rimase saldo nella sua posizione davanti alla carica di oltre 3 000 uomini della cavalleria russa: nonostante 360 perdite fra gli inglesi e oltre 600 fra i russi ed un esito tutt’altro che soddisfacente, una tale propaganda circa lo scontro - dalle chiare tinte epiche, quasi romanzate - garantì alla Regina ed ai comandi dell’esercito grande fama e riconoscenza da parte della popolazione.

Il Casto Monarca



09/01/1878. A Roma muore il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Si spegne ad appena 58 anni, dopo, però, aver visto coronato il suo sogno di unificare l’Italia sotto lo stemma Sabaudo. Gli vengono conferiti anche i sacramenti, dopo autorizzazione del papa stesso, quel Pio IX cui aveva tolto il potere temporale ma che sempre lo aveva considerato come un figlio, come dimostrò, ad esempio, permettendo la regolarizzazione del suo rapporto con la contessa Mirafiori. Una delle tante storie affettive di una vita da Casanova… In occasione della solenne messa di trigesimo nel Pantheon, dove il re è seppellito, il ministro dell’Interno Francesco Crispi aveva ritenuto opportuno far conoscere in Vaticano il testo delle iscrizioni funerarie che si intendeva porre al lato del catafalco. L’inviato speciale, barone Monti, aveva riferito che, attesa la delicatezza della questione, era stato accompagnato presso lo stesso Sommo Pontefice trovandolo molto stanco, ma vivace e polemico (nemmeno un mese dopo anche lui sarebbe morto, dopo 32 anni di regno). Con qualche disagio il barone aveva annotato i pungenti commenti di Pio IX alle singole lodi: «“Amò la libertà”: infatti disse il Papa noi siamo prigionieri; “Amò la giustizia”: infatti ha preso quello che non è suo». E così via. Ma il finale era stupendo: «Richiesta Sua Santità di un giudizio globale ha detto di ringraziare il signor ministro per l’attenzione usatagli e ha proposto una piccola aggiunta per farne
un monumento di verità: dilexit castitatem». 
Il Senatore di diritto nella prima legislatura come ex parlamentare non compromesso (1909-1929) e dal 1957 alla morte senatore a vita per dieci anni, l’anziano onorevole Giuseppe Paratore, una miniera di ricordi personali e, più tardi, segretario particolare ed esecutore testamentario di Crispi, conservava gelosamente una copia di questo rapporto…
Per amor di cronaca, occorre precisare che si ebbe il buon gusto di evitare di porre alcuna iscrizione così come ogni altro simbolo politico stante l’ostilità tra l’autorità secolare e quella ecclesiastica, per la recentissima onta di Porta Pia. Tuttavia, il Pantheon conserva ancora le spoglie mortali di Vittorio Emanuele II così come del suo successore e figlio, Umberto I, benché egli abbia molte più cose in comune con un altro ospite illustre del tempio che Adriano consacrò alle divinità universe: Raffaello Sanzio…A buon intenditor poche parole…
da “30 giorni” di Giulio Andreotti ©

Google e la privacy pubblica



Google si apre al mondo, Nel cuore di Google e altri titoli simili sono comparsi nei giorni scorsi sui nostri giornali e telegiornali per commentare la scelta del colosso di Mountain View di rendere visibili al pubblico alcune delle sue sedi tramite Google Maps, mostrando i suoi immensi database. Sicuramente una bella iniziativa, quantomeno dal punto di vista pubblicitario. O forse, solo dal punto di vista pubblicitario. La trasparenza è tutto per un'azienda moderna, e mostrare alcuni dei propri database è stata sicuramente una scelta azzeccata.
Peccato che, proprio negli stessi giorni, l'UE abbia comunicato che "le nuove regole privacy di Google non rispettino le ultime direttive europee", cosicché da Bruxelles è stato chiesto di rivederle entro pochi mesi. La questione, sollevata dalla Commissione Nazionale Francese sulla Libertà nell'Informatica, mira a chiarire una serie di controlli incrociati dei dati di cui entra in possesso Google - cronologia di ricerca del motore di ricerca, di YouTube, posta elettronica, Maps,... - che sembra rappresenti una violazione della normativa vigente in Europa. La Privacy Policy di cui Google si dice ancora orgogliosissima è - a parer loro - indice del continuo impegno di Google nel proteggere i dati dei propri utenti aggiornando continuamente le proprie informative a riguardo, sebbene - osservano ancora una volta da Bruxelles - tali informative non rendono l'utente veramente a conoscenza della legislazione che lo tutela in rete.
E allora, Google si è aperto su Maps o si è chiuso a riccio per accaparrarsi sempre più i dati delle nostre ricerche? Ai posteri l'ardua sentenza.

Marciare divisi per combattere uniti

C’è stato un uomo nella storia della nostra Repubblica che ha ricoperto quattro delle cinque maggiori cariche dello Stato, ovvero Presidente della Repubblica, del Senato, della Camera e della Corte Costituzionale: classe 1877, esponente del liberalismo in stile Cavour, l’uomo di cui sopra è Enrico De Nicola, primo Presidente della Repubblica Italiana. Frutto del Compromesso Costituzionale, origine dell’intero assetto provvisorio delle nostre istituzioni negli anni immediatamente successivi al 1946, la scelta di De Nicola fu presa dopo aver constatato l’impossibilità di coniugare destre e sinistre su nomi quali Orlando e Croce, grazie all’instancabile lavoro di mediatore che svolse diligentemente De Gasperi.
Lunedì 15 luglio 1946 Enrico De Nicola rivolge alla Nazione Italiana il suo primo discorso da Presidente, un discorso di insediamento letto nella neonata Assemblea Costituente dal suo presidente Saragat: si tratta del giuramento da parte di De Nicola di “di servire con fedeltà e lealtà il mio Paese” nei due anni di mandato che l’Assemblea stessa, “diretta e legittima rappresentanza del popolo italiano”, gli aveva conferito.

19 Luglio '43. Bombe su Roma


Roma 19 luglio 1943. Il cielo della Città Eterna viene oscurato dal carico di morte di 500 bombardieri americani che riversano, in tre ore, 4 mila bombe sulla capitale della cristianità, come nelle intenzioni di uno dei grandi protagonisti del secondo conflitto mondiale, Winston Churchill. Il primo ministro britannico, sbagliando, è convinto che la disfatta italiana possa significare la fine della guerra e a tale fine il bombardamento di Roma – che avrebbe, secondo quanto da lui stesso scritto il 17 luglio, stroncato la famiglia reale e Mussolini - in quanto mezzo, è machiavellicamente giustificato. Inizialmente ha addirittura pensato, con il suo stato maggiore, di bombardare casa Mussolini, rinunciando poi all’iniziativa per la duplice ragione che il duce certamente non si sarebbe fatto uccidere in tal modo e che, dunque, l’unico risultato sarebbe stato quello di distruggere il centro storico di una città, cui gli Inglesi erano particolarmente legati, come dimostravano visitandola, sempre per prima, nei viaggi in Italia, giacchè incarnazione di quel classicismo cui erano stati educati.
Veduta del bombardamento (fotografata da un aereo americano)
A seguire il bombardamento, dalle finestre del proprio appartamento, vi è un romano d’eccezione, Eugenio Pacelli, da 4 anni sul trono di Pietro con il nome di Pio XII. E’ molto scosso e chiede continuamente cosa stiano bombardando quei 500 aeroplani: ignora, infatti, che gli Americani hanno predisposto di colpire in modo “chirurgico” – cosa impossibile dato l’enorme numero di mezzi - le industrie e le ferrovie romane. Appena il lungo bombardamento termina, ordina una vettura (senza seguito) e tutto il denaro che sia reperibile. Viene preparata l’auto vecchia (tra le uniche due della "flotta" papale), essendo l’automobilista convinto che il papa voglia fare una passeggiata nei giardini, ma questi, in compagnia di Mons. Montini (il futuro Paolo VI, allora segretario) chiede di essere portato al quartiere San Lorenzo, fortemente colpito nella giornata. Quando scende dalla vettura, si inginocchia e prega per le vittime. Passa tra la gente e la talare bianca gli si sporca di quel sangue, il cui spargimento, già da molti mesi, temeva e aveva cercato di evitare.
Come racconta Sir Francy D’Arcy Osborne, Duca di Leed e ambasciatore britannico presso la Santa Sede, alla fine del 1942, pochi mesi dopo lo sbarco americano in Algeria che, di fatto, rendeva praticabili, sul suolo italiano, bombardamenti come quelli che già dal maggio di quell’anno avevano colpito il suolo tedesco, il papa aveva inoltrato all’ambasciatore americano la richiesta di fare di Roma una Città Aperta, ovvero non bombardabile in quanto inoffensiva militarmente. A tal fine aveva inviato anche al Governo Italiano una richiesta di smobilitare gli obiettivi militari nella Città Eterna, contando sul proprio ruolo di autorità morale. Ma i tempi rispetto a quel 1077 quando Gregorio VII si era permesso il lusso di far aspettare un imperatore come Enrico IV a piedi nudi nella neve di Canossa, sono cambiati parecchio e persino le preghiere del Vicario terreno di Cristo e i validissimi argomenti di natura spirituale nel senso più lato della parola circa l’inopportunità del bombardamento della città depositaria della cultura antica e culla della Cristianità, nulla possono contro effimeri interessi militari.
Pio XII tra la folla a San Lorenzo
Come scrive lo stesso Sir Osborne, che pure era un anglicano, il Vaticano aveva una “concezione quadridimensionale” - ovvero atemporale - di Roma, considerandola come centro della Cristianità e non come accidentale capitale d’Italia o di un ancor più transitorio stato fascista. A queste ragioni si aggiungeva per Pio XII, lo speciale legame che ognuno ha con la propria città natale e l’attenzione, umana ancor prima che pastorale, per le molte persone giunte nella Città Eterna, dopo l’inizio della Guerra, convinte di trovarvi riparo dalle bombe. Come già detto, simili argomenti a nulla valsero contro la volontà categorica di Churchill di dare presto fine alla guerra, nell’erronea convinzione che la sconfitta italiana coincidesse con quella dell’Asse (a tal proposito risultò sicuramente più lungimirante la strategia di Roosevelt di attaccare la Germania dal fronte occidentale). A discapito della “Open City Question”, come la chiamarono gli Americani, furono decisive la non perdonata partecipazione dell’Italia alla Battaglia di Londra, benché i suoi aerei, con base in Belgio e autonomia di volo di appena 10 minuti, non avessero, di fatto, sganciato nemmeno una bomba sul suolo britannico, e la paura che l’Italia, in quanto “paese egemone” – le virgolette sono d’obbligo – nel Mediterraneo, nei piani di Hitler, potesse spezzare i rifornimenti inglesi in tale bacino marittimo e dunque compromettere la sopravvivenza britannica in Egitto.
Il risultato del bombardamento nel Quartiere San Lorenzo
Il bombardamento del 19 luglio, da tutti avvertito come fortemente stridente con ogni sentimento di ciceroniana humanitas e le cui ripercussioni sull’opinione pubblica furono così forti da far riacquistare simpatia, da parte della popolazione, nei tedeschi occupanti, non sarà l’unico, ma il primo di addirittura 53, con un bilancio finale di 1060 tonnellate di bombe sganciate, 4 mila morti e 11 mila feriti. L’inferno finirà il 4 giugno 1944, quando nella Città entreranno gli Americani, sventando definitivamente l’ipotesi di una strenua difesa della posizione da parte dei nazifascisti, che avrebbe fatto di Roma una novella Stalingrado e, dunque, un cumulo di macerie.
Tuttavia, le bombe gettate sulla città, anziché sminuirne il carattere a contingente obiettivo militare, sottolineano ancora una volta l’impossibilità, da parte della storia, di prescindere da Roma: occorre sempre fare i conti con la Città Eterna e misurarsi con il vetusto timore che incute dall’alto di un ruolo che, se non politicamente, non ha mai abbandonato: quello di CAPUT MUNDI.

Addio a Fiorenzo Magni

Se n’è andato anche il “Terzo Uomo”. Fiorenzo Magni era chiamato così perché quando entrò fra i professionisti del ciclismo, nel 1940, le corse erano dominate da Gino Bartali e Fausto Coppi, i due grandi rivali del periodo eroico a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. «Se non ci fossero stati quei due, chissà quanto avresti vinto di più...» gli dicevano spesso. Ma lui, il Leone delle Fiandre come venne anche soprannominato dopo la fantastica tripletta consecutiva nel Giro delle Fiandre (1949-1950-1951), con la saggezza e l’arguzia che sempre lo accompagnarono nella sua vita di corridore era solito ribattere: «Al contrario, proprio grazie a Gino e Fausto le mie imprese acquistarono ancora più valore». Se n’è andato stamane a causa di un aneurisma che l’aveva colpito nella notte: il prossimo 7 dicembre avrebbe compuito 92 anni.
(da LA STAMPA®)

Si allegano i link di due begli articoli sulle imprese di questo mito del ciclismo italiano.

Meucci, l'inventore negato



Nel lontano 1889 in un giorno come oggi si spegneva in una sperduta isoletta di New York l’uomo al quale dobbiamo ogni forma di comunicazione moderna - compresa quella telematica grazie alla quale abbiamo la possibilità di essere letti - Abbiamo l’onore di ricordare in questa settimana un’altra grande figura che ha reso celebre l’Italia nel mondo, con il suo genio e le sue invenzioni: dopo il recente anniversario degli esperimenti di Guglielmo Marconi, ricorre oggi l’anniversario della morte di Antonio Santi Giuseppe Meucci, noto semplicemente come Antonio Meucci.
Meucci è stato universalmente riconosciuto come inventore del telefono e tuttavia tale riconoscimento non è giunto che l’11 giugno 2002, quando il Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto che se Meucci nel 1874avesse avuto i soldi per pagare il brevetto, Alexander Graham Bell non avrebbe potuto depositare il proprio brevetto e che dunque il contributo di Antonio Meucci nell'invenzione del telefono doveva essere riconosciuto.
L’invenzione del telefono fu difatti attribuita per secoli allo scozzese Bell che, grazie alle sua maggiori disponibilità economiche, riuscì a brevettare la propria invenzione: le varie produzioni televisive hanno in parte diffuso la verità per tanti secoli celata, rappresentando la vita stentata che condusse l’inventore sino alla morte, sopraggiunta dopo che lo scienziato fiorentino aveva dovuto sperimentare la dura vita in fabbrica per guadagnarsi da vivere.
La vita di Meucci è sicuramente intensa e piena di aspetti più o meno interessanti e più o meno encomiabili (basti citare il rapporto con Garibaldi e la massoneria...) e tuttavia nessun giudizio critico - anche i più fondati - potranno mai cancellare il genio di quest’uomo.

Papa Luciani a 100 anni dalla nascita




Cade oggi il centesimo anniversario della nascita di Albino Lucani, l’indimenticato Giovanni Paolo I che fu Pontefice per soli 33 giorni. Una ricorrenza importante non solo per la cifra tonda ma soprattutto perché proprio oggi si compie a Roma un gesto importante nel cammino che potrebbe portare, forse anche in tempi brevi, il "Papa del sorriso" all’onore degli altari. Alla vigilia di questo evento Avvenire ha intervistato il vescovo Enrico dal Covolo, rettore della Lateranense e postulatore della causa di papa Luciani.

Eccellenza in che cosa consiste la cerimonia odierna?
Si tratta di un evento semplice ma significativo, della consegna del Summarium, cioè della prima parte dell’intera Positio, al prefetto della Congregazione delle cause dei santi, il cardinale Angelo Amato. Come è noto, la Positio è il dossier che dimostra al meglio l’eroicità della vita e delle virtù della persona di cui si parla. Il Summarium è una sorta di sintesi delle testimonianze offerte al riguardo dai testimoni interrogati. Nel caso di Luciani, si tratta di 167 testimoni. Alla cerimonia parteciperanno da una parte i superiori del dicastero; dall’altra io stesso, la mia collaboratrice per la causa, la dottoressa Stefania Falasca e un rappresentate del vescovo di Belluno-Feltre, don Davide Fiocco.

Quando è prevista la consegna della Positio completa?
La seconda parte della Positio, quella che raccoglie i documenti e, in generale, le questioni storico-biografiche, è quasi pronta. Così avremo due grossi volumi, elegantemente rilegati in tela rossa, come vuole la prassi, ed entro la fine dell’anno la Congregazione dei Santi avrà a sua disposizione la "Positio" completa per gli esami di rito.

Quali saranno i passaggi successivi della Causa?
Gli esami di rito sono due: uno da parte dei Consultori della Congregazione, l’altro da parte dei cardinali e vescovi membri del dicastero. Se, come speriamo, l’esito sarà positivo, il Santo Padre darà ordine alla Congregazione di preparare il Decreto sull’eroicità, il che comporterà per Luciani il titolo di "Venerabile".

Si può fare una previsione di tempi?
Se intende alludere alla beatificazione, devo aggiungere che - dopo l’approvazione della Positio - occorrerà ancora concludere il processo parallelo sul presunto miracolo. Come si vede, si tratta di un iter alquanto complesso. Nella migliore delle ipotesi, ci vorranno ancora quattro o cinque anni.

Benedetto XVI per la causa del suo predecessore Giovanni Paolo II oltre a concedere una deroga per l’inizio del processo ha disposto anche che l’iter seguisse una corsia preferenziale. Prevede che lo stesso potrà accadere con Giovanni Paolo I accorciando così sensibilmente i tempi per vedere papa Lucani salire all’onore degli altari?
Naturalmente è ciò che io spero. Ma questo appartiene alla libera decisione del Papa...

La Positio affronta questioni che hanno particolarmente solleticato il nostro mondo mediatico, come le circostanze della morte di Giovanni Paolo I, o i suoi colloqui con suor Lucia a Fatima o la sua famosa frase su Dio "padre" e anche "madre"?
Sì, tutte le questioni vengono affrontate. Posso anticipare che verrà dissipato ogni dubbio su una presunta "morte indotta" di Luciani; che l’attribuzione di una sorta di profezia sull’elezione di Luciani a papa e sulla sua rapida morte, da parte di suor Lucia, non ha fondamento alcuno; che la famosa frase su Dio padre e madre, ricondotta al suo contesto proprio, risulta perfettamente ortodossa.

Al termine dell’udienza generale dello scorso 26 settembre lei, insieme al vescovo Giuseppe Andrich di Belluno-Feltre, ha avuto modo di parlare a Benedetto XVI della causa di beatificazione di papa Luciani. Cosa ci può dire di quel colloquio?
Abbiamo aggiornato il Papa sull’andamento della causa e gli abbiamo anticipato l’evento del 17 ottobre. Il Papa si è mostrato molto interessato. Egli non ha mai nascosto la sua grande ammirazione per Giovanni Paolo I. Basti pensare a quanto disse nel 2003 l’allora cardinale Joseph Ratzinger alla rivista 30Giorni. «Personalmente - spiegò in quella intervista - sono convintissimo che era un santo. Per la sua grande bontà, semplicità, umiltà. E per il suo grande coraggio. Perché aveva anche il coraggio di dire le cose con grande chiarezza, anche andando contro le opinioni correnti. E anche per la sua grande cultura di fede. Non era solo un semplice parroco che per caso era diventato patriarca. Era un uomo di grande cultura teologica e di grande senso ed esperienza pastorale. I suoi scritti sulla catechesi sono preziosi. Ed è bellissimo il suo libro Illustrissimi, che lessi subito dopo l’elezione. Sì, sono convintissimo che è un santo».

Qual è la cifra della santità di Giovanni Paolo I, che ha retto il soglio di Pietro per appena 33 giorni, e qual è il messaggio che la sua testimonianza può dare alla Chiesa di oggi?
Sono convinto che se - come speriamo - Giovanni Paolo I giungerà all’onore degli altari, questo sarà perché egli incarna il modello del buon pastore, che dà la vita per il suo gregge. L’accettazione stessa del supremo impegno pastorale fu un gesto di autentico eroismo, come apparirà chiaramente dalla Positio.

Eccellenza, lei ha avuto modo di conoscere personalmente Albino Luciani. Che ricordo ne ha?
L’ho già raccontato più volte, quindi non mi dilungo sui dettagli. Posso dire che quel giovane prete (eravamo nei primi anni Cinquanta: lui aveva poco più di quarant’anni, e io molti, molti anni di meno...) mi affascinava. Col senno di poi, direi che mi sembrava un salesiano. Non escludo che la sua testimonianza sacerdotale possa aver avuto un peso non indifferente nella mia storia di vocazione.

Gianni Cardinale
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Gregorio XIII, il Papa del tempo



Tutta la nostra vita si basa su un computo di minuti, ore, giorni, mesi e anni che sembra essere la cosa più naturale della nostra esistenza; eppure c'è stato un periodo in cui tale ripartizione non esisteva e se oggi esiste bisogna renderne merito ad una persona, il Papa Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni, 226o successore di Pietro. E tuttavia sarebbe ingiusto - a dire il vero anche difficile a credersi - che una riforma di tale portata vada riconosciuta al volere di una sola persona, seppure di indiscutibili doti intellettuali e innegabili potere.
Se ci fu un giorno in cui il domani era 16 ottobre e ieri appena 5 ottobre - questo accadde nel 1582 con l'introduzione del Calendario Gregoriano - bisogna rendere merito alle attenzioni rivolte dal Pontefice all'astronomia ed alle sue considerazioni sull'inesattezza del oramai obsoleto calendario Giuliano: per una serie di imprecisioni di tale calendario il 21 aprile cadeva addirittura 10 giorni dopo l'equinozio primaverile, calcolando che la Pasqua sarebbe dunque caduta in estate.
Riuniti intorno a sé i più rinomati esperti in ambito astronomico, Gregorio XIII tramutò in fatti quel dibattito che si trascinava stancamente dal lontano Concilio di Nicea (325): con la bolla papale Inter Gravissimas del 24 febbraio 1582, i lavori del medico calabrese Giuseppe Lillio, del matematico ed astronomo siciliano Giuseppe Scala e del matematico perugino Ignazio Danti, coordinati dal Pontefice stesso, trovarono la propria conclusione con l'esortazione a tutti i paesi di adottare il nuovo calendario.
Si tratta indubbiamente di uno dei contributi maggiori che la Chiesa Cattolica abbia dato al mondo intero, considerato che Italia, Francia, Portpgallo, Polonia, Lituania, Olanda, Belgio e Lussemburgo adottarono il muovo calendario il 15 ottobre 1582, seguite a ruota da tutti gli altri paesi del mondo; l'unico tentativo di abbandonare questo calendario fu quello bolscevico del 1923, ma già nel 1940 l'URSS tornò al calendario di papa Boncompagni.

Duce, mi avete commosso!


Facciamo seguito alla dichiarazione di guerra di Mussolini del 10 giugno 1940, commentata nel primo numero di questa rubrica, con un altro documento di quel giorno, il telegramma che Adolf Hitler scrisse al Duce e che fece leggere alla radio a reti unificate. I ripetuti riferimenti di Mussolini a Hitler e l’ostentato orgoglio di scendere in guerra al fianco dell’alleato tedesco non poteva avere risposta diversa: il telegramma si apre indirizzandosi al Duce, ma è destinato a tutti gli italiani, cui sono rivolti i pensieri dell’intera nazione tedesca.

L'Impero Asburgico. L'ultimo su cui tramontò il sole


Stemma del Sacro Romano Impero
A E I O U, le cinque vocali, nell’ordine, rigorosamente alfabetico, in cui il sovrano Federico III d’Asburgo ordinò di scriverle su ogni oggetto ed edificio del proprio casato, facendone il motto della dinastia imperiale. Un acronimo, i molteplici significati attribuibili al quale e il silenzio in merito dell’imperatore del Sacro Romano Impero che, pure, lo coniò, ne rendono oscura l’interpretazione, declinabile secondo le varianti latine “Austriae Est Imperare Orbi Universo” (Trad. “Spetta all’Austria governare il mondo intero”) oppure la più suggestiva e controversa “Austria Erit In Orbe Ultima” - l’Austria sarà l’ultima (a sopravvivere) al mondo - la quale, priva del verbo sottinteso, potrebbe essere letta – così come fecero i suoi nemici - come una maliziosa allusione alla decadenza dell’Impero Asburgico. Certamente, la seconda variante darebbe all’acronimo coniato nel XV secolo da Federico III, il carattere profetico di compendiare, in appena cinque vocali, le sorti dell’ultima istituzione, nata nel Medioevo, a crollare sotto le spinte della modernità.
L'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo - Este
Un Impero, quello Austriaco, nato come spada secolare della Cristianità nella notte di Natale del 800, divenuto, grazie ad abili politiche matrimoniali, possedimento, pressoché esclusivo, degli Asburgo nonché espressione di un potere il cui carattere universale venne magistralmente espresso, da Carlo V, nella celebre massima “Sul nostro impero non tramonta mai il sole”, data la sua estensione ultracontinentale. Eppure il sole, sull’impero asburgico, un giorno tramontò: il 10 settembre 1919, quasi cinque secoli dopo che Carlo pronunziò quest’aforisma, quando il Trattato di Saint-Germain, firmato con le potenze dell’Intesa, ridusse quello che era stato il Sacro Romano Impero a nulla più di una modesta entità regionale, quale lo stato austriaco odierno. Non le recrudescenze nazionalistiche ma più propriamente le trame della massoneria cosmopolita fagocitarono un Impero, inviso alle potenze occidentali e, soprattutto, ai poteri occulti che manovravano tali potenze, più che per il carattere reazionario della propria politica, per ciò che rappresentava. L’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Sua Altezza Reale Apostolica Francesco Giuseppe, il cui dramma esistenziale resta, di per sé, una vicenda dai caratteri esemplari, meritevole di venir rappresentata in una tragedia sofoclea, serba dei caratteri inquietanti che sarebbe giusto porre in rilievo. Troppo spesso si liquida l’attentato del 28 giugno ‘14, senza ulteriori considerazioni sulla personalità politica dell’erede al trono: ebbene, Francesco Ferdinando, era l’interprete di una politica interna aperta alla questione nazionalistica e decisa a fare dell’Impero una sorta di confederazione sul modello europeo ante litteram, in grado di risolvere la questione balcanica e sottrarre, di conseguenza, alle potenze occidentali, l’espediente per intraprendere una guerra volta alla ridefinizione dei rapporti di forza in Europa. 
Inoltre l’Impero Asburgico era l’ultimo baluardo di una concezione della politica come mandato divino e spada temporale della Chiesa Cattolica contro i suoi nemici, una presenza, dunque, inaccettabile per le brame massoniche, le quali si erano già industriate a polverizzare entità confessionali quali il Regno delle Due Sicilie e, soprattutto, gli Stati Pontifici. Ciononostante gli straordinari ritratti degli uomini che fecero grande l’Austria, primo tra tutti il principe Metternich, sontuoso ed amabilissimo ospite del Congresso di Vienna, sono in grado di dare a noi, attraverso il vetusto sapore della loro immortale visione del mondo, un modo più profondo di approcciarci alla realtà, senza incorrere nella cecità dell’equazione, tanto diffusa, per la quale la novità corrisponde alla verità o al progresso. Sulle leggiadre note del valzer, dolcemente cullati dalla malinconia del “bel Danubio blu”, l’Austria Felix con la gloria dei propri geni quali Mozart, Mendel, Beethoven, Listz, Schubert, Wittgenstein, Freud e Klimt continua ad affascinarci, trasmettendoci la poesia di un mondo e di un’epoca, di cui fu ultima, sublime, espressione.

Un popolo di scienziati: l'Italia di Guglielmo Marconi



Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori di trasmigratori”. A 60 metri dalla strada svetta fra i palazzi dell’EUR a Roma la celebre frase con la quale Mussolini volle definire gli italiani, a conclusione della costruzione del Palazzo della Civiltà Italiana, meglio noto come Colosseo Quadrato. Le 28 statue che ornano il monumento vogliono rappresentare l’Italia che lavora, rappresentando infatti i mestieri tipici del nostro Paese, compreso il genio inventivo. Quando nel 1938 il Duce approvò il progetto degli architetti Guerrini, Lapadula e Romano, la sua mente non poté non andare a quel 12 ottobre di otto anni prima, quando Guglielmo Marconi diede dimostrazione al mondo della genialità italiana illuminando il Cristo Redentore a Rio de Janeiro da una frazione in provincia di Pisa a migliaia di chilometri di distanza.
Guglielmo Marconi e Pio XI all'innaugurazione della Stazione Radio Vaticana.
La figura di Guglielmo Marconi ha rappresentato per decenni il genio italiano in un periodo storico - il Ventennio - in cui il regime necessitava di tali figure per la propria propaganda: Marconi si prestò ben volentieri a questo genere di azione, dichiarando fieramente la propria piena adesione agli ideali dell’Italia proletaria e fascista creata da Mussolini. In un intervento in Senato nel 1937 il Duce in persona ostentò con orgoglio patriottico: “Nessuna meraviglia che Marconi abbracciasse, sin dalla vigilia, la dottrina delle Camicie Nere, orgogliose di averlo nei loro ranghi”. Lo stesso Marconi non negò mai tale passato nei ranghi delle Camice Nere, avanzando un confronto del proprio operato con le azioni di Mussolini: difatti come quest’ultimo aveva avuto la geniale intuizione “di riunire in fascio le energie sane del Paese per la maggiore grandezza d'Italia”, così allo stesso modo il fisico bolognese fu il primo a riunire in fascio i raggi elettrici.
Marconi incarna alla perfezione l’italiano fascista, eroe della Grande Guerra, dall’innegabile genialità, alimentato da sincero amor di patria, cattolico sincero servitore della Chiesa di Roma: Pio XI nel 1927 gli affidò la gestione della prima stazione radio in territorio vaticano, che nel 1931 darà origine a Radio Vaticana. Nel pomeriggio del 12 febbraio 1931 papa Ratti pronunciò il primo discorso radiofonico di un Pontefice, dopo una breve introduzione di Marconi stesso: “Per circa venti secoli il Pontefice Romano ha fatto sentire la parola del suo divino magistero nel mondo, ma questa è la prima volta che la sua viva voce può essere percepita simultaneamente su tutta la superficie della terra”.
Guglielmo Marconi morì il 20 luglio 1937 per una crisi cardiaca, in seguito alla quale, appena si riprese, chiese di confessarsi e comunicarsi. Senatore a vita sin dal 1914, fu Nobel per la fisica nel 1909.