Fascismo: la redenzione piccolo borghese


« Proclamate e dimostrate per la gloria dell'Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l'epiteto medesimo ch'egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio ma non degne di levarsi per sancire una legge nell'assemblea».



Con tali parole Gabriele D'Annunzio, poeta vate dell'Italia fascista, in un passo chiave de "Le Vergini delle Rocce" ironizzava sulla legittimità delle rivendicazioni operaie, esprimendo, in uno stile altisonante, peculiare della retorica nazionalista, un sentimento ben radicato nello spirito della media-piccola borghesia italiana: la viscerale avversione verso il movimento socialista, le cui proteste non meritavano epiteto più alto di quello di meri disordini sociali. Ed è proprio in tale disprezzo verso la classe operaia e la minaccia ad opera di questa del proprio ruolo e dei propri diritti, che i ceti medi accompagnarono con crescente assenso l'ascesa al potere di Benito Mussolini, abile, come sempre nella sua vita politica di spregiudicato opportunista, a definire, nel 1919, base del Movimento dei Fasci di Combattimento l'"aristocrazia dei cavalli di Frisia", ovvero i reduci appartenenti al ceto medio. 

Infatti a differenza della borghesia industriale il cui appoggio allo squadrismo fascista è da leggersi in chiave economica come la scelta del male minore rispetto al pericolo bolscevico, l'attivismo e il cameratismo fascisti effettivamente offrirono a uomini piccolo e medi borghesi, che, come descrive Emilio Lussu in "Un anno sull'altopiano", in tempo di pace, non avrebbero certo accettato di tornare a vivere la monotonia dei propri incarichi impiegatizi e saputo che farsene delle terre (comunque mai concesse dallo Stato), l'orizzonte di poter continuare a vivere"l'idillio" di un'esistenza militaresca, resa loro appetibile dal prestigio dei gradi conseguiti in guerra che ora perdevano. 
Una simile garanzia di realizzazione non era certamente assicurata dalla classe dirigente liberale, resa ad essi invisa non solo dalle non mantenute promesse, fatte in guerra per mobilitare l'esercito all'indomani di Caporetto, come quelle dei titoli o delle terre, ma soprattutto dal modo, a dir poco grottesco, in cui aveva permesso la mutilazione della vittoria da parte degli alleati, mostrando in sostanza di non aver a cuore i diritti dei ceti medi che ad essa avevano concorso, con quarantun mesi di enormi sacrifici in vite umane e in buoni del tesoro. 
Il distacco di tali classi dall'immobilismo liberale è dunque da leggersi nel modo in cui il sacro egoismo che aveva condotto in guerra l'Italia era stato puntualmente disatteso, dal punto di vista militare, mediante le modalità già descritte e poi esasperate dal cannoneggiamento di Fiume il giorno di Natale del 1920, nell'ambito economico invece, l'iperbolica inflazione aveva colpito soprattutto gli annosi risparmi della media-piccola boghesia e svalutato il valore reale dei loro stipendi, in misuta ben maggiore rispetto agli operai, soprattutto quelli specializzati, nei confronti delle cui rivendicazioni lo Stato pur mostravasi assolutamente passivo e dunque apparentemente accondiscendente. La frustrazione derivante dal ridimensionamento del proprio stile di vita ad un livello addirittura inferiore a quello della classe operaia, la quale manifesta un più generale smarrimento della propria identità di classe intermedia e la nostalgia reducista, spinse dunque il ceto medio, desideroso di riaffermare la propria aristocratica superiorità rispetto ad un movimento socialista la cui forza era costituita dall'organizzazione, che ad esso invece mancava, ad individuare un proprio strumento di tutela dei tradizionali diritti di proprietà e volontà d'ordine sociale (spinto fino alla militarizzazione) proprio nel Movimento di Mussolini. Esso, inoltre, recuperando i temi cari al nazionalismo d'anteguerra, delle cui chimere i ceti medi erano ancora intimamente persuasi, permetteva ad essi, come eminentemente affermato da Norberto Bobbio, di riscattare vite, mai grigie come nel Dopoguerra, nell'attivismo "ardito", nel recupero di uno spiritualismo ancestrale della forza sul quale si basò poi anche la dialettica della propaganda del Duce. D'altro canto, è impensabile analizzare l'influenza dei ceti medi sulla nascita del fascismo, senza menzionare l'opportunismo di Mussolini nell'intuire la possibilità di sfruttare a suo vantaggio la frustrazione dei ceti medi e l'avversione alle rimostranze socialiste, intuendo che il nuovo ordine auspicato da essi, improntato all'attivismo di carsica memoria, poteva essere quello della sua dittatura.

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