«Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me»: un’introduzione alla libertà in Kant

«Il concetto della libertà ci permette di non uscire da noi stessi per trovare l’incondizionato e l’intellegibile per il condizionato e il sensibile» (K.p.V. A 190). La libertà è, in Kant, «chiave di volta di tutto l’edificio del sistema della ragion pura» (K.p.V. A 5) poiché è, allo stesso tempo, scopo della ragione e condizione trascendentale dell’azione morale; in tal modo, essa funge da ponte tra il mondo fenomenico e il mondo noumenico.

La libertà, inconoscibile e indimostrabile in virtù del suo carattere esclusivamente noumenico, si impone come un fatto della ragione pratica la cui ratio cognoscendi è la legge morale. Essa è fondamento della moralità, del dover essere: dove tutto è regolato dalla causalità delle leggi di natura, infatti, «il dover essere perde assolutamente ogni significato» (K.r.V. B 576) e, ugualmente, perde ogni significato l’idea di un agire morale. Kant ammette così che la libertà è «ratio essendi della legge morale» (K.p.V A 5 nota a), la sua condizione a priori.

L’opposizione tra libertà e leggi di natura genera il terzo conflitto delle idee trascendentali, conflitto analizzato da Kant nella dialettica della ragion pura; l’importanza di quest’antinomia per l’agire umano è notevole, giacché dalla sua soluzione dipende lo stabilire «se io sia libero nel mio agire, oppure, alla stessa stregua degli altri esseri, sia legato al filo della natura e del destino» (K.r.V. B 492). La serie dei fenomeni, come ci è data nell’esperienza, risponde unicamente alla causalità naturale, risulta, cioè, «regolare e uniforme» e priva di libertà: questa, infatti, rappresenterebbe uno scompaginamento delle leggi naturali, comportando un’anarchia certamente inammissibile agli occhi di un illuminista. L’antitesi della terza antinomia, pertanto, dichiara che «non c’è libertà alcuna ma tutto nel mondo accade esclusivamente in base a leggi di natura» (K.r.V. B 473).
Tuttavia «la critica […] ci insegna a prendere l’oggetto in un duplice significato, cioè o come fenomeno o come cosa in sé» (K.r.V. B XXVIII). I fenomeni, infatti, non sono le cose in sé ma il modo in cui ce le rappresentiamo, un modo che può essere allo stesso tempo soggettivo (perché dipendente dalle categorie del soggetto) e oggettivo (perché valido per tutti gli esseri razionali): tali modalità «debbono avere, a loro volta, fondamenti che non sono fenomeni» (K.r.V. B 565). Ecco perché, come sostiene la terza tesi, «si rende necessaria l’ammissione anche d’una causalità mediante libertà»: la validità delle leggi di natura sarebbe assoluta solo nel caso in cui si pensasse che il fenomenico esaurisca l’ambito del reale.
È così che Kant, scindendo il piano fenomenico da quello noumenico, introduce una causalità per libertà distinta da quella naturale: «ma quando la necessità naturale è riferita soltanto ai fenomeni e la libertà soltanto alle cose in sé, non risulta alcuna contraddizione» (cfr. Prolegomeni ad ogni futura metafisica). È necessario, cioè, che all’origine della serie dei fenomeni vi sia un inizio assoluto nel tempo; lo stato di cose a cui si dà inizio tramite un’azione libera agirà, poi, nel mondo fenomenico, in base alle leggi di natura, determinando a sua volta una serie di conseguenze, in quanto «i suoi effetti si manifestano fenomenicamente e possono esser determinati da altri fenomeni» (K.r.V B 565). Infatti, poiché Kant respinge, al pari di Aristotele, il regresso all’infinito nella serie delle cause, è necessario ammettere «una spontaneità assoluta delle cause» (K.r.V. B 476), una libertà. La libertà, pertanto, non solo non è in contrasto con le leggi universali della necessità naturale ma è, inoltre, in un certo senso, richiesta da esse, in quanto necessaria a spiegare l’origine assoluta della serie dei fenomeni. L’importanza della libertà va anche oltre gli scritti critici, estendendosi a quelli di diritto, storia e politica: nella Risposta alla domanda: cos’è illuminismo Kant definisce illuminismo «l’uscita dell’uomo dalla minorità» e «libertà di fare in tutti i campi pubblico uso della propria ragione».
Tale libertà è, però, soltanto «un’idea trascendentale», proprio in virtù del suo carattere esclusivamente intellegibile: non è possibile avere esperienza del suo carattere empirico, carattere che la renderebbe intuibile tramite le categorie della sensibilità e successivamente conoscibile mediante quelle dell’intelletto. Dopo aver argomentato a favore dell’esistenza di tale tipo di causalità, Kant afferma infatti che «non abbiamo voluto mostrare la realtà della libertà» (K.r.V. B 586) poiché questo non sarà mai possibile.

In quanto essere razionale, tuttavia, ogni uomo è dotato di una volontà libera e deve agire «in base a massime che possano nello stesso tempo valere come leggi universali». In questo senso, la libertà èratio essendi della legge morale, giacché la volontà, propria dei soli esseri razionali, nel determinare l’azione, esprime la libertà, intesa come capacità di sottrarsi ad ogni influsso empirico: «l’autentico ed inestimabile valore di una volontà assolutamente buona consiste proprio in ciò che il principio dell’azione sia libero da ogni influsso di cause contingenti, che solo l’esperienza può fornire». La libertà, sebbene inconoscibile, si impone così come un fatto della ragion pratica. (cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, sez. III)

È la stessa determinazione razionale della volontà che implica la libertà: pertanto, Kant arriva a dire che «una volontà libera e una volontà sotto leggi morali sono lo stesso» (cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, p. 129). Razionalità, libertà e moralità vengono quindi a saldarsi in un unico essere, l’uomo, a cui è connaturato il tentativo di superare il limite del fenomenico; un limite che l’uomo vede fuori di sé, ma che scompare nel momento in cui egli considera se stesso autore e soggetto di una legge morale che trova il suo unico fondamento in una volontà razionale libera.

La spinta alla libertà è connaturata all’uomo – che viene in tal modo ad essere il vero centro del sistema filosofico kantiano – esattamente come la spinta alla metafisica: egli tende a uscire dall’isola in cui è costretto a causa della limitazione del conoscibile all’esperibile e a navigare il mare della metafisica (cfr K.r.V. B295). Filosofia kantiana, dunque, come filosofia del limite, ma anche e soprattutto del superamento del limite. Dimostrazione effettiva di questa tendenza dell’uomo all’incondizionato è la legge morale: scontrandosi con l’affermazione della libertà dell’uomo, l’etica kantiana non ha infatti trovato esseri che agiscano necessariamente per il giusto ma, per mezzo della ragione, ha creato un ambito in cui la libertà possa assumere, per tutti gli esseri razionali, la necessità universale delle leggi di natura. La grandezza dell’uomo sta quindi nell’avere limiti, nello scoprirli e tentare di superarli, pur sapendo che questo tentativo è destinato a fallire: i limiti, infatti, non risultano valicabili dal punto di vista teoretico e possono essere annullati unicamente dall’agire morale, espressione di una volontà libera.

Possiamo collocare Kant al centro di una lunga tradizione filosofica che esalta l’uomo come plastes et fictor sui: dai rinascimentali Ficino e Pico fino alla romantica esaltazione della grandezza titanica dell’uomo. In Kant, tuttavia, il riconoscimento della capacità umana di autodeterminarsi risulta più problematico: esso è passato al vaglio di un pensiero critico che, figlio dell’età dei Lumi e dell’empirismo humiano, ha voluto ridurre le pretese della metafisica di dare una risposta alla ricerca dell’assoluto, ma non è riuscito a negarle. Eloquente è, in tal senso, il seguente passo della celebre conclusione della Critica della ragion pratica: «[La legge morale] innalza infinitamente il mio valore, come proprio di un’intelligenza, attraverso la mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile, almeno per quanto si può arguire dalla determinazione secondo fini che questa legge conferisce alla mia esistenza, determinazione che non si restringe alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito» (K.p.V. A 290).

La Bianchezza della Balena

Nota bibliografica: I. Kant Prolegomeni ad ogni futura metafisica, a cura di P. Carabellese, Laterza, Roma-Bari, 2005; I. Kant Critica della Ragion pura (K.r.V.), a cura di P. Chiodi, UTET, Torino, 2005; I. Kant Critica della Ragion pratica (K.p.V.), a cura di P. Chiodi, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, UTET, Torino, 2006; I. Kant Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari, 2007; I. Kant Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari, 2009.

1 commento:

  1. Cari voi, talvolta volate proprio alto....Kant era uno dei miei preferiti.
    Il concetto di LIBERTA' si è molto evoluto nei secoli.
    Personalmente ritengo che uno dei primi ad intuirne la valenza esplosiva sia stato Cartesio, con il suo "Cogito, ergo sum = penso, dunque sono".
    Oggi però affermerebbe: "Garrio, ergo sum = chiacchiero , dunque sono" , infatti stanno nascendo delle applicazioni che consentono, su base prettamente casuale, di contattare perfetti sconosciuti all'unico scopo di "fare 4 chiacchiere con NON sappiamo chi!".
    Personalmente, per rimanere pragmatici, arricchirei quanto di cui sopra con altre 3 affermazioni categoriche:
    > L'altrui libertà deve finire dove cominci la mia!
    > Libertà significa anche petere vivere tra i prori simili, evutando gli alieni!
    > Nessuno può esere lasciato libero di produrre solo spermatozoi, la nostra libertà deve consentirci di evirarlo, castrarlo, vasectomizzarlo o sterilizzarlo, in conformità alla snsibilità dei singoli.
    Cordisli Saluti
    Massimo Giuliano
    P.S. Cari Voi, anch'io ho chiuso bottega e sarò libero per 3 settimane, senza p.c. e senza cellulare d'ordinanza, appunto.....libero.....

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