La “virtus derelicta” di Francesco di Marchia

Francesco di Marchia, teologo attivo presso l’Università di Parigi nella prima metà del Trecento, fu probabilmente il primo esponente della Scolastica a prospettare una teoria della forza impressa.

Lo studioso si confrontò con la spiegazione aristotelica del moto violento nel suo commento alleSentenze di Pietro Lombardo. La discussione sulla forza impressa è sviluppata, in particolare, nel libro IV: un contesto squisitamente teologico. La quaestio con cui si apre il libro, infatti, recita: Utrum in sacramentis sit aliqua virtus supernaturalis insistens sive eis formaliter inhaerens. Si trattava di comprendere se il potere di produrre la grazia conferita mediante i sacramenti risiedesse nei sacramenti stessi o provenisse da Dio in maniera diretta. La questione della forza impressa, quindi, è introdotta in analogia al problema della causalità sacramentale. Questa impostazione del problema non ci stupisce: è tipico dei pensatori della Scolastica spiegare questioni di natura teologica con paragoni attinti dalla filosofia naturale. L’analogia tra sacramenti e proiettili è la seguente: in entrambi c’è una certa potenza residua, la quale può produrre degli effetti.

Il pensatore francescano, riflettendo sulla spiegazione aristotelica del movimento, si chiede quale sia la causa della continuazione del moto violento e giunge alla seguente conclusione: il moto violento deriva da una qualche forza abbandonata nel proietto dal primo motore che effettua il lancio. L’espressione utilizzata dal francescano è ab aliqua virtute derelicta. La causa della continuazione del moto è dunque una virtus derelicta: una forza residua, abbandonata dal motore iniziale. Questo stesso concetto viene ribadito in un altro passo, a proposito del lancio di una pietra verso l’alto; scrive di Marchia: «Unde est sciendum, quod est duplex virtus movens aliquod grave sursum, quaedam motum inchoans sive grave ad motum aliquem determinans et ista virtus est virtus manus; alia virtus est motum exequens inchoatum et ipsum continuans et ista est causta sive derelicta per motum a prima» (cfr. In Sent., IV, 1). Ci sono dunque due forze: una è quella iniziale dovuta alla mano, l’altra è quella abbandonata dalla forza precedente. Occorre ora stabilire da cosa esattamente venga accolta tale forza. Essa viene lasciata, dal primo motore, nel mosso o nel mezzo? La seconda opzione coincide con la posizione aristotelica e viene descritta nei dettagli da Francesco di Marchia per poi essere rifiutata. La virtus derelicta, sostiene il francescano, si trova nel mosso e non nel mezzo (scrive infatti il pensatore medievale: «sed contra hoc [contro la posizione aristotelica] arguo et ostendo, quod huiusmodi virtus prius sit in lapide vel in quocumque alio gravi moto, quam in medio», cfr. In Sent., IV, 1). Nell’affermarlo, Francesco di Marchia adduce due motivazioni interessanti. Innanzi tutto, è preferibile collocare la forza abbandonata nel mosso piuttosto che nel mezzo per seguire il principio di economia: è inutile fare col più ciò che si può fare col meno («tum quia frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora», cfr. In Sent., IV, 1). È più semplice, sostiene il francescano, spiegare la continuazione del moto violento se la si attribuisce ad una forza impressa nel corpo stesso piuttosto che nel mezzo; non c’è alcuna necessità di coinvolgere nella descrizione del funzionamento del moto violento anche il mezzo quando sono sufficienti a spiegarlo il motore, il mosso e la forza che passa dall’uno all’altro. In secondo luogo, la spiegazione che esclude il mezzo come recettore della forza impressa sembra rispettare meglio le apparenze dei fenomeni: «tum secundo quia hoc ponendo melius et facilius salvantur omnia apparentia […]» (cfr. In Sent., IV, 1).

Nonostante Francesco di Marchia sostenga che sia più credibile la teoria per la quale la virtus derelicta sia abbandonata nel mosso, c’è un passo in cui il francescano sembra ammettere che ci sia anche una virtus abbandonata dal proiciente nel mezzo. Di Marchia scrive «non enim nego virtutem huiusmodi recipit etiam in medio» (cfr. In Sent., IV, 1). Ci sono due moti che concorrono, quindi, allo spostamento violento di un corpo: il moto del corpo stesso, derivato dalla forza abbandonata, e il moto dell’aria il quale contribuisce in maniera secondaria al movimento del proietto («Ex quo sequitur quod, quando lapis vel aliquod grave sive etiam leve movetur in medio, quod concurrunt ibi duo motus, videl. motus ipsius lapidis, qui est immediate a virtute derelicta in lapide, et etiam motus aeris, qui etiam facit licet non immediate ad motum lapidis […]», cfr. In Sent., IV, 1).

Francesco di Marchia ci fornisce anche una descrizione della virtus derelicta: ci spiega, cioè, qualis sit huiusmodi virtus, di che tipo sia questa forza. Essa viene descritta come dotata di una certa durata, ma non permanente. La virtus derelicta, quindi, non è né imperitura né fluente (cioè non è neppure destinata a dissiparsi quasi immediatamente); essa è una forza intermedia che perdura a tempo determinato. Per spiegare questa qualità precipua della virtus derelicta, Francesco di Marchia la paragona al calore generato da un fuoco nell’acqua. Scrive il francescano: «potest dici quod nec est forma simpliciter fluens, sed quasi media, quia per aliquod tempus permanens, sicut caliditas ab igne genita in aqua non habens esse permanens simpliciter sicut in igne, nec simpliciter etiam fluens ut calefactio ipsa, sed habet esse permanens ad determinatum tempus» (cfr. In Sent., IV, 1).

Francesco, inoltre, suggerisce che la virtus derelicta potrebbe essere introdotta dalle intelligenze angeliche nei corpi celesti garantendo la prosecuzione del loro moto per qualche tempo, anche dopo l’interruzione del movimento celeste da parte dell’intelligenza. Scrive infatti il francescano: «Ex equo sequitur ulterius quod intelligentia cessante movere caelum quod adhuc caelum moveretur sive revolveretur ad tempus per huiusmodi virtutem circularem motum exequentem et continuatem, sicut patet de rota figuli, quae revolvitur ad tempus cessante primo motore movere» (cfr. In Sent., IV, 1).

Francesco di Marchia, pur non portando alle estreme conseguenze le sue riflessioni sulla virtus derelicta (e pur non giungendo, dunque, a formulare conclusioni acute tanto quanto quelle buridaniane), testimonia, al pari di Buridano, la presenza di una secolare indagine critica sul movimento, alternativa a quella aristotelica.


Nota bibliografica:

per approfondire la teoria della virtus derelicta in Francesco di Marchia si consulti Clagett, M., La scienza della meccanica nel Medioevo, Feltrinelli, Milano, 1972.

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