30 novembre 1786: l'umanità della Toscana



Ricorre oggi il 226° anniversario dell’abolizione della pena di morte nel Granducato di Toscana, sotto Pietro Leopoldo, primo sovrano europeo ad accogliere in toto le idee allora diffuse contro questa barbara usanza, espresse magistralmente nel nostro Paese dal pensiero di Cesare Beccaria.


«Non è l'intensione della pena che fa il maggior effetto sull'animo umano, ma l'estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L'impero dell'abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l'uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l'idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell'efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l'idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza.»
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
PROEMIO: «Con la più grande soddisfazione del Nostro paterno cuore Abbiamo finalmente riconosciuto che la mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le reazioni, e mediante la celere spedizione dei Processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri Delinquenti, invece di accrescere il numero dei Delitti ha considerabilmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci, e quindi Siamo venuti nella determinazione di non più lungamente differire la riforma della Legislazione Criminale, con la quale abolita per massima costante la pena di Morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla Società nella punizione dei Rei, eliminato affatto l'uso della Tortura, la Confiscazione dei beni dei Delinquenti, come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto, e sbandita dalla Legislazione la moltiplicazione dei delitti impropriamente detti di Lesa Maestà con raffinamento di crudeltà inventati in tempi perversi, e fissando le pene proporzionate ai Delitti, ma inevitabili nei respettivi casi, ci Siamo determinati a ordinare con la pienezza della Nostra Suprema Autorità quanto appresso.»
ART. 51: «Abbiamo veduto con orrore con quanta facilità nella passata Legislazione era decretata la pena di Morte per Delitti anco non gravi, ed avendo considerato che l'oggetto della Pena deve essere la soddisfazione al privato ed al pubblico danno, la correzione del Reo figlio anche esso della Società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi, la sicurezza nei Rei dei più gravi ed atroci Delitti che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il Pubblico esempio, che il Governo nella punizione dei Delitti, e nel servire agli oggetti, ai quali questa unicamente diretta, è tenuto sempre a valersi dei mezzi più efficaci col minor male possibile al Reo; che tale efficacia e moderazione insieme si ottiene più che con la Pena di Morte, con la Pena dei Lavori Pubblici, i quali servono di un esempio continuato, e non di un momentaneo terrore, che spesso degenera in compassione, e tolgono la possibilità di commettere nuovi Delitti, e non la possibile speranza di veder tornare alla Società un Cittadino utile e corretto; avendo altresì considerato che una ben diversa Legislazione potesse più convenire alla maggior dolcezza e docilità di costumi del presente secolo, e specialmente nel popolo Toscano, Siamo venuti nella determinazione di abolire come Abbiamo abolito con la presente Legge per sempre la Pena di Morte contro qualunque Reo, sia presente, sia contumace, ed ancorché confesso, e convinto di qualsivoglia Delitto dichiarato Capitale dalle Leggi fin qui promulgate, le quali tutte Vogliamo in questa parte cessate ed abolite.»
Legge di riforma criminale del 30 novembre 1786, n. 59

I soliti noti

Lionel Messi, Cristiano Ronaldo e Andres Iniesta. Sono questi i tre giocatori che si contenderanno il Pallone d'oro 2012. Lo ha annunciato oggi la Fifa a San Paolo. Nulla da fare, dunque, per Andrea Pirlo, inserito insieme a Buffon e Balotelli nella lista dei 23 candidati, oggi ridotta a soli tre nomi.
Il c.t. della Spagna Vicente Del Bosque, l'ex tecnico del Barcellona Pep Guardiola e l'allenatore del Real Madrid José Mourinho, sono, invece, i tre finalisti del premio "Coach of the Year" assegnato annualmente dalla Fifa. Il vincitore, come per il Pallone d'oro, sarà annunciato nella serata di gala del Pallone d'oro a Zurigo il 7 gennaio.
Sempre quel giorno, sarà reso noto il Top 11 Fifa: l'italiano Mario Balotelli con gli argentini Lionel Messi e Sergio Aguero, il portoghese Cristiano Ronaldo, il colombiano Radamel Falcao ed il brasiliano Neymar sono tra i 15 attaccanti scelti per la formazione ideale dell'anno, insieme (tra gli altri) agli uruguaiani Luis Suarez ed Edinson Cavani e allo svedese Zlatan Ibrahimovic.

Dalla Cina una piccola speranza per la famiglia

Il governo cinese teme un invecchiamento della popolazione e vuole rivedere la politica del figlio unico, introdotta per la prima volta nel 1979. La proposta, secondo quanto riferisce il China Daily, è stata avanzata dalla commissione nazionale sulla popolazione e sulla pianificazione familiare, la quale sarebbe disponibile a consentire la nascita di un secondo figlio per le coppie residenti nei centri urbani, anche se uno dei genitori non è figlio unico.
Attualmente il secondo figlio è consentito solo per le coppie urbane in cui entrambi i genitori non hanno fratelli o sorelle. Nelle campagne le restrizioni sono meno rigide. Zhang Weiqing, responsabile della commissione, fa sapere che la proposta di allentare il controllo delle nascite, che partirebbe dalle regioni economicamente più avanzate, è stata sottoposta all'esame del governo. La Cina ha una popolazione di 1,3 miliardi di persone, ma probabilmente altre 500mila persone non sono registrate all'anagrafe.

Senza Chiese l'Europa non esisterebbe


Roger Scruton, 68 anni, intellettuale conservatore, tra i più brillanti filosofi inglesi in attività, è stato uno dei protagonisti del convegno su Dio organizzato dal Progetto culturale della Cei nel 2009. Non sarà presente al prossimo forum del Progetto culturale, intitolato «Processi di mondializzazione, opportunità per i cattolici italiani», però il suo ultimo libro è un contributo a distanza alla discussione, seppur da una prospettiva non cattolica. Si chiama Our Church, la nostra Chiesa, edito da Atlantic Books, ed è una personale rivisitazione di quella confessione che Scruton, figlio di genitori atei, abbracciò in gioventù. E che oggi si trova, nella patria che ha plasmato, in una condizione di sofferta minoranza. 

Professore, in Europa l’Inghilterra rappresenta dal Cinquecento a oggi il Paese di punta nei processi di globalizzazione. La Chiesa anglicana è uscita però fortemente ridimensionata da questi ultimi decenni, quasi schiacciata dai cambiamenti. Perché secondo lei? È la forma della "Chiesa di Stato" che ha esaurito la sua funzione storica?
«La Chiesa anglicana rappresenta un compromesso storico, un tentativo di conciliare una visione essenzialmente cattolica del cristianesimo, fondata sull’Eucaristia, con l’obbedienza al potere temporale. Questo potere temporale ha nutrito ed è stato nutrito dallo Stato durante i secoli della costruzione dell’impero e attorno alla Chiesa anglicana è cresciuta una cultura notevole, intrecciata con le tradizioni e i rituali dello stile di vita inglese. Una tale Chiesa è inevitabilmente vulnerabile alla secolarizzazione del potere temporale e all’affermarsi di una visione dell’ordine politico di tipo liberal-socialista. È anche vulnerabile per il declino della sovranità nazionale e la posizione incerta della monarchia in un’età egualitaria come la attuale. Ma la Chiesa anglicana resta qualcosa di più di una Chiesa di Stato: è una Chiesa cattolica legata a doppio filo a una cultura vivente (ma anche morente) e parla ancora a tutti coloro che la condividono».

Nel recente travaglio dell’anglicanesimo tutto o quasi sembra vertere attorno a questioni di etica sessuale (l’apertura all’omosessualità) o di genere (l’episcopato delle donne): perché né il richiamo alla Bibbia, né alla Tradizione riescono a mettere un punto fermo su queste questioni?
«Il problema è che, in parte anche per l’influenza americana, le questioni della sessualità e del genere sono arrivate a dominare la vita politica dei Paesi anglosassoni. I cristiani sono costretti a ritirarsi ed è pericoloso cercare di far sentire la propria voce in ogni ambito in cui gay o femministe rivendichino dei diritti. L’osservazione antropologica elementare, ossia che le religioni sono connesse a riti di passaggio e perciò hanno la sessualità tra i propri principali interessi, non cambia il fatto che sono le autorità secolari più di quelle religiose che cercano di definire ciò che dobbiamo credere riguardo a questi temi».

Il suo libro si presenta come un’elegia del patrimonio anglicano: il sottinteso è che bisogna rassegnarsi a vederlo come "una storia da museo" o può continuare a essere di ispirazione per la società inglese?
«Non si tratta di una storia da museo. Nel mio libro parlo di una storia che riguarda il passato e il suo significato. La Chiesa anglicana è una comunione che vive ed è ancora importante per molte genti di lingua inglese, e in un certo senso ancor più per le persone che non credono al suo messaggio che per quelle che vi credono. Perché dentro di essa è racchiuso il continuum dell’esperienza storica di un Paese, il suo importantissimo sistema giuridico e la sua grande cultura».

Lei conosce bene la cultura europea e l’Italia: c’è una lezione inglese, o anglicana, che le altre chiese europee possono imparare, nel rapporto con i processi di globalizzazione e di secolarizzazione?
«Penso che tutte le Chiese europee debbano trasmettere il messaggio che, senza di loro, la l’Europa non esiste. Le nostre società sono creazioni cristiane, che dipendono su ogni singolo punto da una rivelazione che è stata mediata dalle Chiese e che ha assunto una dimensione sacramentale. Negare questo vuol dire eliminare ogni barriera rispetto a quell’entropia globale che minaccia anche l’Europa. Affermarlo, vuol dire iniziare a riscoprire le cose per cui dobbiamo lottare e che dobbiamo difendere dalla corruzione».

Quando lei si convertì, in gioventù, cosa l’affascinò di più della tradizione anglicana e cosa la affascina di più oggi?
«Rimasi affascinato soprattutto dalla sintesi di valori estetici, morali e spirituali e dalla presenza di fronte all’altare di una comunità in pace con se stessa e in contatto con il proprio passato. E’ esattamente quello che continua ad affascinarmi oggi».
da Avvenire.it

Preoccupazioni sì, ma con la fiducia nel popolo italiano


Discorso di fine anno del Presidente della Repubblica



Vi confesso che non volevo introdurmi nell'intimità delle vostre case in questo giorno in cui festeggiate il sorgere dell'anno nuovo, ma il mio silenzio sarebbe stato male interpretato.
Ho deciso quindi di presentarmi a voi attraverso il video per augurarvi buon anno.
Io non mi rivolgo, come è stato fatto nel passato, prima agli Italiani che sono all'estero e poi agli Italiani che sono in Italia ma contemporaneamente agli uni e agli altri perché gli Italiani che sono all'estero, gli emigrati, non vi sono andati per diporto, bensì perché spinti dalla miseria e dalla fame per trovare un lavoro che purtroppo non hanno trovato in Italia.
Ebbene, gli Italiani che sono all'estero - io lo so per esperienza personale, perché sotto il fascismo fui costretto ad emigrare in Francia e per vivere onestamente facevo il manovale-muratore - sentono acutamente la nostalgia della patria, sono sempre spiritualmente vicini alla terra natia, direi quasi più degli Italiani che vivono qui in Italia: ecco perché mi rivolgo contemporaneamente agli uni e agli altri.
Se facciamo un breve bilancio dell'anno che sta morendo dobbiamo purtroppo ammettere che non è un bilancio confortante: abbiamo ancora molta disoccupazione, e specialmente quella giovanile mi preoccupa, la disoccupazione dei giovani che escono dalle scuole con un diploma o con una laurea persuasi di potersi incamminare verso la vita sicuri e invece trovano subito dinanzi a sé il muro della disoccupazione. questo è un grave problema che ci angoscia.
Vi sono, tuttavia, indici di una ripresa economica del nostro paese. ma io soprattutto ripongo la mia fiducia nel popolo Italiano, popolo generoso che si è trovato in circostanze più difficili delle presenti, eppure ha saputo superarle come al termine della seconda guerra mondiale.
Io sono certo che riusciremo a risalire la china se non si spezzerà quella unità nazionale che è stata voluta da un uomo politico, dal cuore puro e dal forte ingegno, legato a me da amicizia fraterna, spietatamente assassinato, Aldo Moro. penso in questo momento alla tristezza della compagna dei la sua vita e dei suoi figli.
Ma purtroppo dobbiamo constatare come la nostra Italia sia ancora turbata dalla violenza, dai sequestri e dal terrorismo. di recente è stato sequestrato un ragazzo di dodici anni, sono spietati questi criminali! l'ondata di terrorismo si è abbattuta su funzionari, impiegati, direttori di aziende, giornalisti, magistrati e forze dell'ordine.
Di recente, a Torino, due giovani agenti di P.S. sono stati assassinati. orbene, bisogna riconoscere con franchezza che non siamo sufficientemente attrezzati per affrontare il terrorismo e forse i nostri servizi di informazione non funzionano a perfezione. dobbiamo attrezzare validamente le forze dell'ordine, dobbiamo attuare la riforma di pubblica sicurezza e dobbiamo in modo particolare cercare di accertare chi sono questi terroristi e chi sono i loro mandanti, coloro che li manovrano.
Nel 1978, proprio nel dicembre dell'anno che sta terminando, si è celebrato il trentennale della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. orbene, sicuro di non compiere alcuna interferenza, protesto con fermezza perché in molti stati vi sono ancora uomini che soffrono in carcere, che sono torturati e che vengono perseguitati per le loro idee. nessuna interferenza da parte mia, ma il diritto di protestare in di fesa di questi uomini che intendono vivere liberi.
Io sono orgoglioso di essere cittadino Italiano, ma mi sento anche cittadino del mondo, sicché quando un uomo in un angolo della terra lotta per la sua libertà ed è perseguitato perché vuole restare un uomo libero, io sono al suo fianco con tutta la mia solidarietà di cittadino del mondo.
Nel 1979 vi saranno le elezioni del parlamento europeo. considero questo evento un fatto di grande importanza. l'unità europea potrà così realizzarsi in modo più concreto. le nazioni d'Europa si persuadano che esse sono legate allo stesso destino e se vi sarà tra di loro una salda solidarietà io ritengo che l'Europa potrà conoscere un domani migliore ed essa potrà svolgere opera di mediazione e di pace tra le due superpotenze.
Bastano alcuni dati per persuaderci dell'importanza di questo compito: oggi si spendono per le armi nucleari quattrocentomila miliardi all'anno; le due superpotenze posseggono dodicimila testate nucleari che corrispondono a circa un milione e cinquecentomila bombe uguali a quelle che hanno distrutto Hiroshima ed Hiroshima è là ad ammonire tutta l'umanità: la tragedia che ha conosciuto Hiroshima potrebbe conoscerla domani l'umanità intera:eppure vi sono seicento milioni di creature umane che mentre io parlo stanno lottando contro la fame.
Lo ripeto qui a voi, Italiani e Italiane, quello che ebbi a dire innanzi al parlamento quando fui insediato come presidente della repubblica: "si svuotino gli arsenali di guerra sorgente di morte, si colmino i granai sorgente di vita per milioni di creature umane che stanno lottando contro la fame'.
Dico questo con accento accorato, perché penso soprattutto alle nuove generazioni, ai giovani. e a loro mi rivolgo. io credo nella nostra gioventù anche se vi è una frangia di giovani smarriti. la stragrande maggioranza della gioventù, a mio avviso, è moralmente sana.
Io ho avuto un'esperienza interessante come presidente della camera dei deputati prima e adesso come presidente della repubblica: ho ricevuto e ricevo molte scolaresche di ogni grado della scuola, dalle eleméntari all'università, di ogni regione, dalla Sicilia al Friuli.
Quando ero presidente della camera ho ricevuto 55.000 studenti e adesso la stessa consuetudine ho ripreso qui al Quirinale. a questi giovani io non ho mai fatto dei discorsi, ho intrecciato con loro un dialogo come fossimo vecchi amici e mi sono sempre visto porre delle domande molto serie.
Io credo quindi in questa nostra gioventù.
I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo.
E' con questo animo quindi, giovani che mi rivolgo a voi: ascoltatemi vi prego: non armate la vostra mano. armate il vostro animo. non armate la vostra mano, giovani, non ricorrete alla violenza, perché la violenza fa risorgere dal fondo dell'animo dell'uomo gli istinti primordiali, fa prevalere la bestia sull'uomo ed anche quando si usa in stato di legittima difesa essa lascia sempre l'amaro in bocca.
No, giovani, armate invece il vostro animo di una fede vigorosa: sceglietela voi liberamente purché la vostra scelta, presupponga il principio di libertà, se non lo presuppone voi dovete respingerla, altrimenti vi mettereste su una strada senza ritorno, una strada al cui termine starebbe la vostra morale servitù: sareste dei servitori in ginocchio, mentre io vi esorto ad essere sempre degli uomini in piedi, padroni dei vostri sentimenti e dei vostri pensieri. se non volete, che la vostra vita scorra monotona, grigia e vuota, fate che essa sia illuminata dalla luce di una grande e nobile idea.
Ecco, Italiani e Italiane, con quale animo io mi sono presentato a voi, umilmente, senza alcuna stolta arroganza di potere. mi sono presentato a voi con molte preoccupazioni, ma anche con la fede nel popolo Italiano.
A voi tutti i più fervidi auguri per l'anno che sta sorgendo: possa il 1979 recare tranquillità al nostro popolo e costituire l'inizio della sua rinascita economica e sociale.
E sia il 1979 l'anno di una pace sicura per il mondo.

Il Grande Torino. La squadra che solo la morte fermò


Torino, 21 novembre scorso. La via adiacente il nuovo Juventus Stadium, costruito sul sito ove sorgeva il vecchio “Delle Alpi” è stata re-intitolata all’indimenticato Gaetano Scirea, capitano bianconero nel ciclo dei grandi successi degli anni ’70-’80, scomparso in Polonia nel 1989 a causa di un incidente stradale e della conseguente esplosione del proprio veicolo. Il nuovo “Viale Scirea” prende il posto di “Corso Grande Torino”, intitolato nel 1990 alla mitica formazione anni ’40, letteralmente cancellata dall’incidente aereo di colle Superga (a Torino) il 4 maggio 1949. Alla squadra verrà intitolato, come sorta di riparazione, lo spazio adiacente il Comunale, proprio davanti Torre Maratona, nome caro alla tifoseria granata che ha mal digerito questa “profanazione”, dovuta ad una nuova decisione spiccatamente filo- bianconera del sindaco Piero Fassino, il quale aveva già permesso la costruzione dello Juventus Stadium svendendo l’area della Continassa alla potente società degli Agnelli per appena 0,58 € al mq, mentre i tifosi del Toro da 15 anni chiedono, invano, la riconversione del vecchio Filadelfia in cittadella granata.
L'ultima partita Benfica-Torino del 3.V.1949
Conformemente al valore simbolico, connaturato all’intitolazione delle strade, non può che lasciar riflettere il forte significato di cui tale iniziativa di sostituzione di nomi è foriera: è un atto certamente di cattivo gusto che non può che addolorare pensando a ciò che il Grande Torino ha vinto, è stato e ha rappresentato per lo sport italiano e l’Italia in quella drammatica uscita dal secondo conflitto mondiale, senza omettere la memoria da tributarsi ad una tragedia quale quella di Superga.
La leggenda della squadra in grado di conquistare 5 titoli nazionali consecutivi, entrando così nell’Olimpo del calcio al pari del Bologna (“lo squadrone che tremar il mondo faceva” come diceva il presidente felsineo Dall’Ara) e della Juventus anni ’30, e più tardi del Real di Di Stefano, del Barcellona di Cruijff, del Milan di Rocco e della mitica Inter di Herrera, cominciò alla fine degli anni ’30 quando venne acquisita dal presidente Ferruccio Novo. Fu lui a costruire lo squadrone che dominò il palcoscenico del calcio italiano negli anni ‘40, forte in ogni reparto e zoccolo duro della nazionale maggiore: basti pensare che occasione della gara Italia-Ungheria del 11 maggio 1947, vinta dagli azzurri per 3-2, ben 10 titolari su 11 erano giocatori del Torino.
Il primo acquisto fu il centravanti Franco Ossola, prelevato diciottenne dal Varese, seguirono Ferraris II, punto inamovibile della due volte campione del mondo Italia di Pozzo, Menti, Gabetto, Bodoira, Borel, Loik e soprattutto Mazzola, il capitano. Dopo aver sgambettato con la maglia del Venezia, il Toro in corsa scudetto con la Roma nella stagione ‘41-42, il grande Valentino, papà di Sandro, fuoriclasse dell’Internazionale di Herrera, passò per la clamorosa cifra di 1.250.000 lire, ai granata nel campionato 1942-43, vinto al photo-finish con il Livorno, proprio grazie ad un suo gol nella partita finale con il Bari. Quell’anno il Torino, aggiudicandosi la Coppa Italia, divenne  la prima squadra a conseguire, nella medesima stagione, la doppietta scudetto-coppa nazionale. Nel famoso “Sistema” (simile ad un 3-4-3) modulo tattico subentrato all’ultradifensivo “Metodo” (adatto alla vecchia regola del fuorigioco che perscriveva almeno 3 giocatori tra l’attaccante e la porta anziché 2), adottato quasi per primo dal Toro, Mazzola mezzala sinistra, in una coppia già sperimentata in Nazionale e con il Venezia con Enzo Loik, mise a segno ben 118 gol in 195 presenze, laureandosi capocannoniere nella stagione ’46-47.
Allenamento del Toro al Filadelfia ( i primi due da sinistra sono Loik e Mazzola)
La guerra, che inizialmente non aveva arrestato il campionato come imposto dallo stesso Mussolini il quale aveva asserito che i calciatori servivano più sui prati che nell’esercito, cancellò ben 2 stagioni, ’43-44 e ’44-45, che spezzarono il ciclo granata e tolsero ulteriormente alla squadra - oltre alla tragedia di Superga, ovviamente - la possibilità di allungare il primato di scudetti consecutivi (che saranno infine cinque). L’assoluta superiorità del Grande Torino è testimoniata dai record della stagione 1947-48 nella quale terminò 16 punti sopra il Milan secondo, vinse 29 partite su 40 (in un’epoca in cui i 2 punti a vittoria permettevano una maggiore percentuale di pareggi) mostrando di avere il miglior attacco (125 reti, media superiore ai 3 gol a partita) e la miglior difesa (appena 33 subiti, nemmeno uno a gara).  Lo strapotere tecnico-tattico dava luogo anche a momenti fortemente spettacolari quali i famosi “quarti d’ora granata” nei quali la squadra, fino ad allora quasi assopita, al triplice squillo di tromba del ferroviere Oreste Bolmida dalla tribuna del Filadelfia, aumentava vertiginosamente il ritmo in modo tale da chiudere il match in appena 15 minuti: un’occasione su tutte la rimonta da 0-3 a 4-3 a Torino contro la Lazio il 30 maggio 1948.
Valentino Mazzola con  il piccolo Sandro
Il carattere rivoluzionario dei Granata a livello tattico con il “sistema”, come già evidenziato, si accompagnava a quello logistico, dato che la squadra, nelle lunghe trasferte nelle quali veniva invitata per la propria forza, riconosciuta a livello internazionale, ad esempio la tournee in Brasile nel 1948 e l’inaugurazione dello stadio del Racing a Bruxelles nello stesso anno, utilizzava, per spostarsi, l’apparecchio, in modo di stancarsi meno e dare di sé un’immagine vivace ed innovativa.
Purtroppo, come tutti sanno, tale peculiarità fu fatale il 4 maggio 1949, quando l’aereo della squadra, di ritorno da una partita stellare con il Benfica, a causa di un errore del pilota cagionato della scarsa visibilità dovuta alle nubi dense e basse su Torino o ad un guasto all’altimetro, anziché virare in corrispondenza di Pino Torinese verso l’aeroporto, eseguì la medesima manovra più a nord, laddove sorgeva – e sorge – la Basilica di Superga, contro il terrapieno posteriore alla quale, si schiantò a 180 km orari. Morirono Bacigalupo (portiere), i fratelli Ballarin, Mazzola, Ossola, Loik, Rigamonti Menti, Operto, Grezar, Gabetto, Grava, Bongiorni, Castigliano, Schubert, Martelli, Maroso, tra i calciatori, i dirigenti, gli allenatori, i giornalisti al seguito e l’equipaggio di bordo (in totale 31 persone e il fiore del calcio italiano).
Finiva il ciclo del Grande Torino, sogno di un popolo, uscito sconfitto ed umiliato dalla guerra, riscattato oltre che dalle imprese di Coppi e Bartali in terra francese, dalle vittorie sportive di 11 giocatori con la maglia granata che, come recita una canzone dell’epoca, “solo la morte fermò”.
Come scrisse Indro Montanelli, il giorno dopo i solenni funerali celebrati il 6 maggio 1949 davanti la folla immensa di mezzo milione di persone che vollero dare l’ultimo saluto ai loro campioni,
Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto "in trasferta".


Il terremoto dell'Irpinia. 32° anniversario

Irpinia 23 novembre 1980. Quella sera si consumò la più grande tragedia del Sud Italia del secolo. Cadute le linee della luce ci dovemmo recare nei luoghi per vedere chi era vivo e chi era morto-Racconta Alberta De Simone, Presidente della Provincia di Avellino nel 2004. Cambia tutto, è peggio di un bombardamento.

Alle 19.35 di quel 23 novembre dell' '80, una magnitudo 6,9 della scala Richter, con epicentro nel comune di Conza della Campania (AV), causò circa 280.000 sfollati, 8.848 feriti e 2.914 morti. Quella scossa durò 90 secondi.Le tre provincie maggiormente sinistrate furono quelle di Avellino (103 comuni), Salerno (66 comuni) e Potenza (45 comuni). Quell'evento cambiò le sorti e la vita di milioni di persone tra Campania e Basilicata.. I primi telegiornali parlarono di 'una scossa di terremoto in Campania' dato che l'interruzione totale delle telecomunicazioni aveva impedito di lanciare l'allarme. Soltanto a notte inoltrata si cominciò ad evidenziarne la più vasta entità. 
All'alba del 24 novembre si iniziò a diffondere la notizia che l'Irpinia era uno dei centri più colpiti del terremoto. L'area del cratere era l'area dei comuni del disastro. E l'area a cavallo tra l'Irpinia e la Basilicata ed un pezzettino del Cilento contava 3000 morti e paesi rasi al suolo. Ma i soccorsi non arrivarono.
L'immagine memorabile di Pertini ch atterra in elicottero a Balvano, il paese più disastrato dal terremoto dell'80 è rimasta nell'immaginario di molti: "Vergognatevi, non sono ancora arrivati i soccorsi'. L'arrivo dell'allora Presidente della Repubblica segnò la svolta: "chi ha mancato deve essere colpito".
I mezzi, fortunatamente giunsero ma solo dopo cinque giorni.
L’aiuto più grande venne dai soldati che portarono tende. Quella pagina di solidarietà diede la speranza di potercela fare.
Ma la ricostruzione di quei luoghi fu uno dei peggiori esempi di speculazione su di una tragedia.
Si guarda al domani
All’inizio per i terremotati ci sono solo alloggi di fortuna: una vita quasi possibile ma anche una vita piena di disagi e privazioni. Eppure, paradossalmente, per qualcuno è anche una vita di scoperte e di libertà, come il modo di vivere dei bambini. “ Il terremoto ci ha costretti a vivere insieme”- racconta Paola Londero, abitante di Gemona (Ud). all'epoca ragazza.
C’è stato un grande moto di solidarietà tra la gente, un moto popolare che, man mano che la ricostruzione avanzava, poi è scemato perché ognuno era preso dai propri problemi.
Passata l’emergenza, tutti gli sforzi si indirizzano verso la ricostruzione: Messina, Gemona, Reggio Calabria…oggi tutti questi luoghi sono di nuovo abitati.
Una nuova vita che guarda al domani ma non dimentica la paura ed il terrore di quei pochi attimi che hanno cambiato tutto.
Molti paesi sono stati stravolti, non sempre sono stati ricostruiti nel modo migliore. Per molti il terremoto è un’esperienza lontana, un brutto ricordo con cui convivere nella speranza che non si verifichi mai più. Per altri è una realtà che non passa mai. Per gli scienziati rimane un fenomeno misterioso che si può comprendere ma che è impossibile prevedere con certezza. Per lo Stato rimane una delle sfide più grandi in termine di soccorso, di aiuto ed interventi per la ricostruzione.

da "LA STORIA SIAMO NOI"

Hollande, i sindaci e le nozze gay: le speranze dei francesi

In attesa di nuove grandi manifestazioni di piazza contro la bozza di legge sulle nozze e adozioni gay, il presidente francese François Hollande prova a giocare d’anticipo per frenare le parallele e crescenti rivedicazioni di migliaia di sindaci scettici o apertamente contrari. Le attuali possibilità di delega ad assessori o consiglieri municipali anche d’opposizione nella celebrazione civile dei matrimoni «possono essere allargate», ha assicurato nelle ultime ore il capo dell’Eliseo proprio davanti all’Associazione dei sindaci transalpini, ricordando che nel Paese «esiste la libertà di coscienza».
Al contempo, sollecitato di nuovo in proposito durante la conferenza stampa di ieri all’Eliseo al fianco del presidente Giorgio Napolitano, Hollande ha ribadito che «la legge si applicherà dappertutto, in tutti i Comuni». Ma secondo i primi riscontri della stampa francese, sarebbero già centinaia quelli in cui nessun membro delle giunte desidera celebrare nozze gay.
Assediato dalle richieste sempre più numerose di un «dibattito nazionale approfondito» nate nella scia delle iniziali e vigorose prese di posizione della Chiesa francese, il presidente appare ormai in visibile difficoltà. Proprio per questo, secondo molti osservatori, avrebbe deciso in extremis con i propri consiglieri un netto cambio di strategia, dopo il fallimento clamoroso del tentativo iniziale di prendere in contropiede l’opinione pubblica accelerando al massimo il varo del progetto di legge, già approvato in Consiglio dei ministri ma la cui discussione in Parlamento è slittata a fine gennaio.
«I dibattiti sono legittimi in una società come la nostra», ha anche detto Hollande. Affinata durante un decennio passato alla guida del rissoso Partito socialista, l’abilità di “conciliatore” di Hollande è divenuta quasi proverbiale ed anche il governo dichiara adesso di voler «rasserenare» gli animi. L’Eliseo ha deciso di aprire un “tavolo di concertazione” con i sindaci, ai quali continuano a giungere da mesi gli appelli pressanti da parte del multiforme e trasversale “fronte del no” che federa le buone volontà di laici e credenti, simpatizzanti di centrodestra così come della stessa sinistra.
Secondo l’Associazione dei sindaci, già «più di 17mila ufficiali di Stato civile di ogni orientamento, fra cui 14 presidenti di associazioni provinciali di sindaci e una trentina di parlamentari, hanno espresso i loro timori» e contrarietà verso la bozza di legge. Fra loro, gli oppositori più convinti hanno raggiunto il “Collettivo dei sindaci per l’infanzia”, che potrebbe lanciare appelli in tutto il Paese in vista della manifestazione unitaria di protesta del 13 gennaio.
Condotto in persona dalla guardasigilli e promotrice della bozza di legge, Christiane Taubira, il negoziato a marce forzate con i sindaci dovrebbe definire in particolare le modalità concrete dell’obiezione di coscienza.  
Intanto, le parziali concessioni verbali di Hollande sono state interpretate da Christine Boutin, alla guida del Partito democristiano, come «un primo passo verso un referendum». Al contempo, il presidente è stato aspramente criticato nelle ultime ore dalle frange più libertarie della sinistra e da diverse associazioni omosessuali. I rappresentanti della sigla più influente, Inter-Lgtb, sono stati ricevuti già ieri al palazzo dell’Eliseo
da Avvenire.it

Contro la sconfitta della politica

Contro la sconfitta della politica può suonare come un appello o, ancor meglio, un’esortazione rivolta a chi abbia “orecchie per intendere”, soprattutto se a pronunciare questa frase è qualcuno che, come Adriano Ossicini, ha fatto della politica stessa, intesa come azione svolta all’interno della società e per la società, il lungo e costante impegno sorretto dalla convinzione che «la politica non è qualcosa di opzionale, ma, sia nelle sconfitte che nelle vittorie, è qualcosa che comunque deve essere affrontato, perché non si può rinunciare ad un compito che qualcuno, sempre, porterà avanti, all’interno del quale, se saremo assenti, rischiano di prevalere proprio quei pericoli o quelle situazioni che sono inaccettabili e che dobbiamo combattere».
Un impegno, questo sostenuto da Adriano Ossicini, come testimonia il suo ultimo lavoro intitolato Contro la sconfitta della politica, pubblicato da Editori Riuniti, concepito come naturale prosecuzione del discorso intrapreso con il precedente volume, Il fantasma del catto-comunismo ed il sogno democristiano, condotto sempre sulla base di una motivazione cristiana, ma nel nome della laicità della politica. Laicità che significa rifiuto di ogni integralismo ma non certo rinuncia ad una motivazione cristiana a fare politica.
L’autore è anche stimolato in questa direzione da un recente dibattito avuto, poco prima della sua scomparsa, con Paolo Emilio Taviani, il quale sosteneva l’urgenza di pervenire ad una seria fondazione della laicità della politica, dettata dalle necessità, emerse dopo la caduta delle ideologie, di chiarire con determinazione quale debba essere oggi il rapporto tra motivazione cristiana ed agire politico, chiarimento sollecitato anche «dai drammatici problemi posti oggi di fronte a noi dalla bioetica».
Il suddetto rapporto deve, per Adriano Ossicini, configurarsi come difesa di alcuni valori di fondo, intorno ai quali i cristiani devono sapersi trovare uniti, senza per questo comportare l’obbligo, nella prassi politica, di militare in un partito unico o, ancor di più, riproporre vecchie tesi come quelle che vogliono rappresentare politicamente i cattolici, considerati, in quanto tali, nei termini di una forza moderata o di centro.
Tale lotta per la laicità e, come naturale conseguenza, per la deideologizzazione dei partiti politici, ha un’illustre e lontana origine, che affonda le sue radici nella concezione politica di Dante Alighieri, nell’elaborazione teorica del defensor pacis di Marsilio da Padova, nel pensiero di Niccolò Machiavelli e penetra nella personale esperienza di Adriano Ossicini, attraverso la prospettiva aconfessionale indicata da Luigi Sturzo per il suo Partito popolare, alla cui fondazione partecipò anche Cesare Ossicini, padre dello stesso Adriano.
Il tema della battaglia contro ogni forma di integralismo accompagnerà Adriano Ossicini nel corso della sua lunga ed importante esperienza politica, sempre condotta in parallelo ad un’altrettanto rilevante attività in campo clinico, psicologico e didattico, cosa perfettamente naturale per chi si è sempre definito sostanzialmente «un uomo di scienza prestato alla politica», sin dai tempi della lontana, ma sul piano dei contenuti filosofico-politici attuale, vicenda della sinistra cristiana, la cui lungimiranza si infranse proprio sullo scoglio della deideologizzazione nel confronto con gli allora nascenti partiti di massa, in particolar modo quello comunista e anche quello democristiano, che, in quanto costretto, anche dalla morsa della incipiente “guerra fredda”, difendeva in tutti i modi l’unità dei cattolici.
Anche le successive vicende personali non fanno che confermare la sostanziale fedeltà del professor Ossicini a questi valori di fondo. Difatti, egli divenne senatore nel 1968 in qualità di indipendente di sinistra raccogliendo un esplicito invito di Ferruccio Parri, e conservò questa carica, con brevi momenti di pausa, fino a quando divenne, con il cosiddetto “governo dei tecnici”, presieduto da Lamberto Dini, ministro della Famiglia e della Solidarietà sociale, incarico al quale ha fatto seguito, oltre ad una costante attività scientifica svolta in qualità di presidente del Comitato nazionale di bioetica, un fattivo impegno a sostegno dell’essenza politica dell’Ulivo. Tale impegno ha portato lo stesso Ossicini a ricoprire nuovamente la carica di senatore e di presidente della Commissione pubblica istruzione e ciò spiega la familiarità con Romano Prodi, il quale arricchisce questo volume con un’importante prefazione nella quale viene affermata la necessità di prendere le distanze da un’erronea identificazione del cristianesimo con il moderatismo politico, anche documentandone le radici storiche.
E proprio per questo Adriano Ossicini conduce il suo discorso su un doppio registro: quello della polemica politica, inevitabile in un momento di profonda difficoltà e di profondo disorientamento delle forze più progressiste dello scenario politico italiano, e quello del saggio storico, poiché questo lavoro costituisce anche una precisa ed attenta ricognizione degli avvenimenti politici italiani degli ultimi anni: pensiamo ad esempio alle vicende della fondazione e della piuttosto rapida crisi del progetto riformista portato avanti dall’Ulivo, alla contraddittorietà delle scelte politiche immediatamente successive alla caduta del governo Prodi, alla importante, anche se breve, esperienza della Commissione bicamerale.
Tutto il lavoro, estremamente documentato nei suoi progressivi snodi, risulta alimentato costantemente da quella centrale esperienza dell’autore verso una politica laica, ma profondamente legata a motivazioni etiche. Una tensione che ha costituito anche il punto di partenza dell’esperienza dell’Ulivo, il quale ha cercato un accordo politicamente vittorioso tra forze che, pur profondamente divise sul piano delle ispirazioni ideologiche o religiose, avevano in comune un progetto, che i fatti hanno per il momento dimostrato assai fragile, di azione sociale, oltrepassando la semplice dimensione di un accordo elettorale.
La vicenda costitutiva dell’Ulivo viene presentata come il punto di partenza di un itinerario storico-politico che affronta molti punti fondamentali della nostra storia contemporanea, riproponendoli all’attenzione del lettore in modo mai freddo ed impersonale, ma filtrandoli attraverso l’esperienza diretta e vissuta di un osservatore privilegiato che, di quegli accadimenti, è stato parte in causa. Il che consente ad Adriano Ossicini di mettere a fuoco le ragioni profonde di quella “sconfitta della politica” che dà il titolo al volume e che ha un’origine lontana nel tempo, precisamente nella mancata alleanza delle forze politiche democratiche italiane, in particolare popolari e socialcomuniste, degli anni Venti dello scorso secolo, attraverso la cui divisione ideologica il fascismo aveva potuto pervenire al potere.
Partendo da questa base l’autore ripercorre la storia dei tentativi, teorici e politici, di dare consistenza ad una solida alleanza delle masse popolari, sia pure di orientamento religioso diverso, che, a partire dalle posizioni sostenute dall’ala sinistra del Partito popolare di don Luigi Sturzo, rappresentata principalmente da Francesco Luigi Ferrari, Giuseppe Donati, e dall’esperienza del Domani d’Italia, arrivano, passando attraverso l’importante vicenda filosofico-politica della sinistra cristiana e attraverso quella del “compromesso storico”, e la stagione della solidarietà nazionale, con il ruolo determinante di Moro e Andreotti, e infine in un contesto socio-culturale profondamente mutato in cui è estremamente difficile parlare ancora di “masse popolari”, al progetto politico dell’Ulivo prima e al nascente programma della Margherita oggi, dalla cui concretizzazione viene fatta dipendere nel primo dopoguerra come nella più stretta attualità, la possibilità di una reale evoluzione in senso democratico della politica italiana.
L’analisi storica condotta da Adriano Ossicini non si ferma alle vicende politiche nazionali, ma allarga invece lo sguardo ai grandi e drammatici avvenimenti epocali che sconvolgono la nostra contemporaneità di fronte ai quali la politica se non vuole abdicare al proprio ruolo, deve «riaffermare il primato dell’etica e dei valori» e, soprattutto, cercare dei rimedi ai profondi guasti generati da una “globalizzazione” economica sempre più priva di freni, verso la quale, sottolinea l’autore, dopo il profondo mutamento di una sinistra che pure aveva avuto meriti non modesti nell’intuire gli attuali e gravissimi squilibri economici, tra le poche, troppo poche voci di protesta, «sembra addirittura levarsi isolata... la polemica del Papa». Senza per questo trascurare l’impegno profuso in tale direzione da molti cristiani, laici e sacerdoti.
Per fronteggiare problemi di così ampia portata, Adriano Ossicini sostiene la necessità odierna di costruire aggregazioni politiche fondate sulla condivisione di valori ed in grado, a loro volta, di riscoprire il “valore della politica”.
In estrema sintesi, quella che Adriano Ossicini affida alle pagine di questo libro è una testimonianza di lungimiranza politica, che trova conferma illustre nelle parole che, molti anni or sono, Alcide De Gasperi rivolse allo stesso Ossicini, il quale riteneva improponibile il progetto di un’unità politica dei cattolici fondata su basi metafische, nel corso di uno dei loro ultimi incontri. «Oggi hai torto» disse il trentino «ma la tua ragione si dimostrerà tra qualche decina di anni, ossia quando finirà la politica dei blocchi, finirà il bisogno dell’unità dei cattolici ed essi si scinderanno in cattolici conservatori e cattolici di sinistra». 
da 30giorni.it

La vita ignorata



In Italia tutti conoscono il cosiddetto Caso Englaro - pace all’anima sua. Se parli di Welby ti capiscono tutti. Ma la notizia di un tale canadese rispondente al nome di Scott Routley ha lasciato il tempo che trovava: Adrian Owen, scienziato inglese della Cambridge University, ha condotto una ricerca di nuove modalità per l’esplorazione di possibili elementi di coscienza in pazienti in stato vegetativo, affrontando fra gli altri casi anche quello di Scott, arrivando a dichiarare alla BBC che “Scott è riuscito a mostrare di essere cosciente, un mente pensante. Lo abbiamo sottoposto all’esame più volte e il pattern della sua attività cerebrale dimostra che lui stava chiaramente scegliendo di rispondere alle nostre domande. Riteniamo che lui sappia chi è e dove si trova”.
Tre anni fa i media inglesi riferirono di un altro malato in “stato vegetativo” dal 1983 che, nonostante fosse passato per le cliniche più rinomate ed all’avanguardia, non aveva ricevuto alcun apparente beneficio dai trattamenti ricevuti. Invece dopo 23 anni ha dato nuovamente segni di vita cerebrale, dimostrando di essere assolutamente consapevole e cosciente di tutto ciò che succedeva intorno a lui, affermando - tramite le dovute apparecchiature - il suo grido di dolore: “Gridavo, ma non mi potevano sentire. La frustrazione è una parola troppo debole per descrivere quello che provavo”.
I casi sono molti, e molte sono le considerazioni espresse a riguardo, tutte bene o male sintetizzate nelle parole di un rapporto della rivista di divulgazione scientifica New Scientist: “Se c’è una cosa peggiore del coma, è quando gli altri pensano tu sia in coma ma non è vero”. Il rapporto è estremamente ampio e dettagliato, ma per coglierne il senso basterebbe riflettere sul terribile dato statistico che ha calcolato: più del 40% delle persone con diagnosi di “stato vegetativo” sarebbe in realtà “minimamente cosciente. Ma in Italia siamo avanti, di queste non ci curiamo...

Dio benedica l'Italia


Era il 14 novembre 2002 quando Giovanni Paolo II varcava la soglia del Parlamento della Repubblica Italiana, il terzo parlamento da lui visitato oltre a quello Europeo nel 1988 e quello polacco nel 1999: il primo ministro era Berlusconi, al suo secondo governo, il presidente della Camera era Pier Ferdinando Casini, quello del Senato Marcello Pera.
La settimana scorsa, a 10 anni dallo storico evento, si sono succedute manifestazioni di commemorazione sia da parte della Santa Sede che da parte delle istituzioni dello Stato Italiano: il cardinal Bertone ha ricordato la fermissima volontà del Beato Giovanni Paolo II di realizzare l’incontro nonostante le sue già delicate condizioni di salute.

Il golpe Borghese. Un conciliabolo di quattro o cinque sessantenni



Nella notte del 7 dicembre 1970, la vita democratica italiana è minacciata da un oscuro pericolo: è in atto un complotto pianificato nei minimi dettagli per l'assalto ai centri nevralgici del potere, un colpo di Stato. I ministeri dell'Interno e della Difesa, la sede della RAI, le centrali di telecomunicazione e le caserme sono presidiate in attesa dell'ordine di attacco, ma quando scatta l'ora decisiva tutte le forze mobilitate per il golpe sono richiamate a rientrare nei ranghi.
Gli insorti si apprestavano ad occupare le principali città italiane, su tutte Milano, Venezia, Reggio Calabria, ma soprattutto le istituzioni con sede a Roma. L'operazione architettata dai golpisti, chiamata “Tora Tora” per la ricorrenza dell'attacco giapponese a PearlHarbor, sarebbe partita a Roma dai cantieri edili di Orlandini nel quartiere Montesacro, dalla palestra dell'Associazione Paracadutisti in via Eleniana, dal quartiere universitario dove si erano riuniti i gruppi dei congiurati, affiliati ai movimenti neofascisti e membri dell'Esercito. Mentre un commando sarebbe penetrato nel ministero degli Interni, sottraendo mitragliatori dall'armeria, una colonna di automezzi della Guardia Forestale di Città Ducale, agli ordini del colonnello Luciano Berti, si sarebbe fermata poco distante dalla sede della RAI in via Teulada.


Al momento decisivo però, un inspiegabile contrordine avrebbe interrotto improvvisamente l'attuazione definitiva del piano.
Il Paese, ignaro degli avvenimenti che si sono susseguiti nella notte dell'Immacolata, scopre quale rischio abbiano corso le istituzioni repubblicane soltanto il 17 marzo 1971, quando il quotidiano “Paese Sera” rivela l'esistenza di un progetto eversivo dell'estrema destra.
L'opinione pubblica, scioccata, si interroga su chi siano i protagonisti della cospirazione, quali gli obiettivi e soprattutto come e perché il piano sia giunto così vicino alla concreta attuazione, sebbene senza essere coronato dal successo.
Le prime ipotetiche risposte iniziano ad arrivare dalla magistratura: il 18 marzo 1971, il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone emette gli ordini di cattura, per il tentativo di insurrezione armata contro lo Stato, verso gli esponenti della destra extraparlamentare Mario Rosa e Sandro Saccucci, l'affarista Giovanni De Rosa, l'imprenditore edile Remo Orlandini, ed il giorno successivo è raggiunto da un mandato anche Junio Valerio Borghese, rampollo della nobile casata romana, annoverante tra i suoi membri pontefici, cardinali, nonché il cognato di niente meno che Napoleone, distintosi come ufficiale di Marina durante la Seconda Guerra Mondiale al comando del sommergibile Scirè, per l'affondamento delle corazzate inglesiValiant e Queen Elizabeth nel porto di Alessandria d'Egitto il 18 dicembre 1941.
Dopo l'armistizio del 1943, aderisce alla Repubblica di Salò continuando l'attività nella Decima Flottiglia MAS, ricostituita come reparto indipendente di volontari, di cui diviene il comandante.
La formazione, che gode di una singolare autonomia e di un regolamento particolare, collabora con l'occupante tedesco nella guerra agli Alleati e nella spietata repressione della Resistenza partigiana, ma ancora prima della fine del conflitto allaccia rapporti con i servizi segreti americani (l'OSS, da cui nascerà nel 1947 la CIA) in funzione anticomunista ed antislava.
Junio Valerio Borghese, negli anni '40
Dopo una condanna per collaborazionismo scampata, grazie alla protezione americana (in particolare dal responsabile del controspionaggio dell'OSS, James Jesus Angleton), per Borghese si avvia la carriera politica e ottiene nel 1951 la presidenza onoraria del Movimento Sociale Italiano, da cui però presto si scosta per avvicinarsi alle posizioni più estremiste della destra extraparlamentare.
Nel settembre 1968, mentre tutta la penisola è attraversata dalla contestazione, fonda il Fronte Nazionale nel tentativo di coagulare attorno a sé i movimenti più radicali, compreso Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, che non si riconoscono nella politica istituzionalizzata e parlamentare dei partiti.
Dichiarando un'aperta e violenta ostilità per la sinistra italiana, insistendo sul pericolo di una “deriva rossa”, Borghese entra in contatto con diversi settori delle Forze Armate, con il comando militare americano e della NATO, allaccia rapporti con numerosi esponenti dell'industria e della finanza per raccogliere così i fondi necessari all'organizzazione di gruppi armati.
La procura della Repubblica di Roma, costretta ad archiviare l'indagine del 1971 per mancanza di prove, riapre l'istruttoria il 15 settembre 1974, quando il ministro della Difesa Giulio Andreotti consegna uno scottante rapporto del servizio segreto militare (SID) che getta nuova luce sul piano eversivo.
Il dossier, redatto dal generale Gianadelio Maletti, si basa sulle dichiarazioni del costruttore Remo Orlandiniregistrate dal capitano Antonio La Bruna, e coinvolge tra i cospiratori anche il direttore del SID Vito Miceli: i vertici militari, risultando (nonostante quanto fino ad allora sostenuto) in realtà consapevoli del tentato golpe, sono scossi da un terremoto da cui lo stesso Miceli esce destituito.
La magistratura spicca nuovi arresti ed avanza formulando ulteriori accuse, sulla presunta avvenuta occupazione del Viminale, sul progetto di rapimento del Presidente della Repubblica e sulla marcia verso la capitale intrapresa dalla Guardia Forestale.
Il processo è inaugurato il 30 maggio 1977, ma dei 78 imputati i più compromessi, tra cui Remo Orlandini ed il medico reatino Adriano Monti, sono latitanti. Il 14 luglio 1978, la sentenza di primo grado si risolve in trenta assoluzioni, ma anche per i condannati cadono i più gravi capi d'accusa, come l'insurrezione armata, e resta solo il reato, relativamente attenuato, di cospirazione politica. Sono dunque comminati dieci anni a Remo Orlandini, otto a Rosa, De Rosa e al colonnello dell'Aeronautica Giuseppe Lo Vecchio, cinque anni a Stefano Delle Chiaie e al colonnello dell'Esercito Amos Spiazzi, quattro a Sandro Saccucci; escono invece assolti “perché il fatto non sussiste” Vito Miceli, Luciano Berti, Adriano Monti.
Il 29 novembre 1984, dopo due giorni di camera di consiglio, la Corte d'Assise d'Appello assolve tutti gli imputati, derubricando il programma golpista come un “conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”, ed anche la Cassazione conferma tale interpretazione il 24 marzo 1986.
Il 7 novembre 1991, il giudice milanese Guido Salvini, entrato in possesso dei nastri originali delle registrazioni effettuate da Antonio La Bruna, scopre che le versioni consegnate durante gli anni alla magistratura risultano tagliate nei numerosi passaggi in cui compaiono i nomi di esponenti politici e militari di primo piano, come l'ammiraglio Giovanni Torrisi, Capo di Stato Maggiore dal 1980 al 1981.
Rispetto alla versione integrale dei nastri, veniva inoltre omesso ogni riferimento a Licio Gelli e alla loggia massonica P2, che avrebbe dovuto provvedere al sequestro del Presidente Saragat, e restava sottaciuto anche il coinvolgimento della mafia siciliana, incaricata di eliminare il capo della polizia Angelo Vicari, come poi sarà confermato anche da Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Luciano Leggio. Grazie al Freedom of Information Act deciso dal presidente americano Clinton, è inoltre emerso che i servizi segreti statunitensi conoscevano il complotto eversivo di Borghese, e che Adriano Monti, designato come ministro degli Esteri del governo golpista, sarebbe stato il tramite dei contatti tra i cospiratori e Ugo Fenwich, impiegato presso l'ambasciata americana a Roma. Lo stesso, nel 2005, ha dichiarato il proprio diretto coinvolgimento nella trama cospirativa, in qualità di mediatore deputato a sondare le disponibilità della classe dirigente americana allora facente capo a Nixon. A questo scopo si sarebbe incontrato a Madrid con Otto Skorzeny, già protagonista con un commando di SS della liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso nel 1943, assoldato dalla CIA nel dopoguerra.
Sebbene alcuni settori marginali della CIA avrebbero dimostrato interesse e garantito il necessario appoggio per il colpo di Stato, ponendo come condizione la nomina di Giulio Andreotti a capo del Governo, tuttavia, la risposta conclusiva si sarebbe risolta in un parere di sarcastica ostilità ad eventuali mutamenti nell'equilibrio dell'area mediterranea.


Il Golpe Borghese falliva così, ancor prima di iniziare, non perchè scoperto, ma in quanto ridotto ad uno sterile ed oscuro “conciliabolo di sessantenni”  dal suo stesso patrono americano, a dimostrazione del fatto che, in un periodo come la Guerra Fredda, nemmeno i rivoluzionari possono fare ciò che vogliono.


Il calcio pulito che salva dalla camorra

​ Lo scorso agosto, pochi giorni dopo la rinascita della società, la prima avvisaglia: dallo spogliatoio spariscono gli scarpini dei calciatori, le maglie da gioco e i palloni. A settembre il secondo inequivocabile avvertimento: entrambe le reti delle porte bruciate. L’ultima ignobile incursione notturna nello stadio è del 1° novembre, quando le due panchine a bordo campo vengono distrutte.

C’è un avversario della “Nuova Quarto Calcio per la legalità” - il club alle porte di Napoli impegnato nel campionato di Promozione - che non accetta la sconfitta. Si chiama camorra. E agisce in modo scorretto, violento e tipicamente omertoso. Perché non sopporta che la riscossa del comune dell’area flegrea sia partita dal pallone. Ovvero proprio da quel sistema che le cosche tenevano in pugno fino a poco tempo fa. Negli ultimi anni, infatti, la società è stata controllata dal clan Polverino. Fino al maggio del 2011, quando nell’ambito dell’operazione della Procura denominata “Polvere”, anche la Quarto calcio è finita tra i beni confiscati. Il presidente del squadra, Castrese Paragliola, è stato arrestato con l’accusa di associazione di stampo mafioso. Un anno dopo il fallimento la società è ripartita nel segno della legalità. L’amministratore giudiziario ne ha affidato la gestione a chi si batte per contrastare il pizzo e la criminalità organizzata. «Gli atti vandalici non ci spaventano, anzi ci spingono a proseguire – spiega Luigi Cuomo, coordinatore nazionale di Sos Impresa e nuovo presidente del club –. Ci conforta il fatto che l’ultimo raid sia stato segnalato alle forze dell’ordine da alcuni cittadini residenti nei pressi dello stadio. In una terra dove per decenni non si è pronunciata la parola “camorra” nemmeno sotto tortura, vedere la protezione della gente è già una vittoria».

L’avvio del nuovo corso non è stato facile. A Quarto c’era un po’ di diffidenza. Che nelle zone limitrofe si trasformava in qualcosa di più, tanto che alcuni dirigenti dei club dell’hinterland campano avrebbero chiesto alla Federazione di non essere inseriti nello stesso girone della “Nuova Quarto”. «Forse per non ritrovarsi a giocare contro “la squadra degli sbirri”», aggiunge Cuomo. Ma con il trascorrere dei mesi qualcosa è cambiato. Gli abitanti di Quarto hanno cominciato a vedere la squadra come un bene collettivo. Allo stadio “Giarrusso” oggi ci sono circa mille tifosi a partita. Ai tempi della precedente proprietà la media era di 40. Un “attaccamento” cresciuto anche grazie alla formula dell’azionariato popolare. «Finora abbiamo raccolto 200 adesioni ma contiamo di moltiplicarle a breve - prosegue Cuomo -. Per contribuire basta una sottoscrizione minima di 10 euro per i cittadini e di 100 euro nel caso di imprese. Ovviamente solo quelle con regolare certificazione antimafia».
Lo spirito di legalità domina anche in campo. Allenatore e giocatori devono rispettare un codice etico preciso: contratti regolari (una rarità nel calcio dilettantistico), fedina penale pulita e nessuna lunga squalifica sportiva alle spalle. Proprio in virtù di questi requisiti la guida della squadra è stata affidata a Ciro Amorosetti, 41 anni, e già allenatore del Quarto nel 2007 ma - come emerso da un’intercettazione telefonica tra un esponente del clan e l’ex presidente - esonerato perché non eseguiva gli ordini. «L’essere richiamato mi ha riempito d’orgoglio», confida mister Amorosetti, scelto dopo una sorta di referendum popolare tra i quartesi. Persona perbene, ma anche tecnico preparato. Dopo 9 giornate la squadra è al secondo posto con 22 punti (a due lunghezze dalla capolista Frattese) e gioca con un 4-3-3 atipico: «Non è un modulo zemaniano – precisa l’allenatore –. Gli esterni devono rientrare. L’attenzione alla fase difensiva è determinante per ottenere risultati».
 Vincere, però, non è la priorità. «In palio c’è ben altro – spiega don Gennaro Guardascione, 38 anni, vicario della forania di Quarto, parroco alla Gesù Divino Maestro e tra i fondatori dell’associazione che affianca il club nelle attività extra campo –. Oggi andare allo stadio significa promuovere una cultura basata sulla convivenza pacifica e sul rispetto reciproco». Per queste ragioni nel progetto sportivo sono coinvolte famiglie e ragazzi in difficoltà. «Grazie a un’iniziativa del Napoli calcio – racconta il giovane sacerdote – per ogni partita che la squadra di Mazzarri gioca in casa 30 biglietti sono destinati ai giovani di Quarto». A guidare la carovana di macchine dirette allo stadio San Paolo è proprio don Gennaro: «Nelle prossime settimane verrà in visita il ct della Nazionale italiana, Cesare Prandelli – conclude –. Per il 2013 si cercherà di organizzare a Quarto un’amichevole degli Azzurri. L’attenzione del grande calcio è fondamentale per mantenere i fari accesi su questa realtà. Ci fa capire che è interesse di tutti vincere la partita per la legalità. E per farlo il gioco di squadra è indispensabile».
da Avvenire.it