La storia della Polonia rappresenta per molti di noi un
grande punto interrogativo, nonostante questo paese svolse un ruolo
fondamentale nella storia dell’Europa nel secondo dopoguerra. La dominazione
comunista che seguì la guerra e che si protrasse fino al 1989 non solo ha
dilaniato - o quantomeno tentato di dilaniare - il tessuto sociale e culturale
di un intera nazione, ma ha dimostrate esso stesso la propria incapacità a
livello politico e soprattutto economico.
Nel dicembre 1970 la Polonia fu oggetto di grandi movimenti,
sorti dalle classi operaie e proletarie: la rivolta, scoppiata a Varsavia, fece
pagare alla Polonia un altissimo tributo di sangue e raggiunse il suo apice
nella città di Gdynia, sul mar Baltico, dove il 17 dicembre avvenne la più
sanguinosa delle stragi causate dalla feroce repressione del governo. A Danzica
e a Stettino sussistevano già da diversi giorni scioperi operai per ottenere
aumenti salariali, ma il motivo contingente fu l’improvviso aumento dei prezzi
del 20%, che causava una repentina perdita di valore del salario reale.
La rivolta non coinvolse le classi medio-alte né la
borghesia, e assunse i caratteri tipici di una rivolta popolare mirata alla
lotta proletaria: per due settimane in ogni città della Polonia si cantava
l’Internazionale, si attaccavano gli uffici pubblici e la polizia e gli
scioperi erano all’ordine del giorno. E tuttavia la rivolta non può essere
definita una “sommossa della fame”: si tratta di una delle manifestazioni più
evidenti delle contraddizioni interne di un paese in forte sviluppo economico
ed industriale (all’epoca 11° paese industrializzato del mondo) dominato da un
ferreo regime comunista, che cerca di divincolarsi dal social-imperialismo
russo per trovare spazio nell’economia capitalista occidentale.
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