25 Dicembre 800. Il regalo di Leone III a Carlo Magno


San Pietro. Messa di Natale del 800 d.C. Al termine della propria preghiera dinnanzi l’altare dell’Apostolo, Carlo Magno, già Re dei Franchi, viene incoronato “Imperatore dei Romani” da papa Leone III con la formula «Carlo Augusto, grande e pacifico imperatore dei Romani». E’ l’atto fondativo del Sacro Romano Impero, destinato,  insieme e in concorrenza con il Papato, a decidere le sorti d’Europa per ben 500 anni, fino a quando, cioè, un re regionale, Filippo IV il Bello, non si permetterà, in quel di Anagni, di mettere le mani addosso a Bonifacio VIII, sancendo, non solo metaforicamente, la fine dell’universalismo medievale.
La storiografia ha spesso sottolineato l’assoluta arbitrarietà del gesto del pontefice - volto a dimostrare la subordinazione del potere temporale a quello spirituale, secondo la teoria per la quale le spade temporale e spirituale appartengono entrambe al Vicario terreno di Cristo, il quale semplicemente delega la prima all’autorità secolare - e la furia con cui Carlo abbandonò la basilica, sussurrando a denti stretti, che, avesse saputo, non sarebbe nemmeno entrato in chiesa, nonostante la solennità religiosa. In realtà, questa versione, presente nella “Vita Karoli”, redatta da Eginardo tra l’814 e l’830, non sarebbe altro che una ricostruzione affatto veritiera, architettata con il fine politico di redimere l’immagine di Carlo agli occhi dell’Imperatore Bizantino, legittimo depositario delle insegne imperiali a partire dal 476 d.C., data di deposizione dell’ultimo imperatore occidentale Romolo Augustolo. 
Da allora in poi, i sovrani di Italia avevano esercitato tale ufficio con il semplice titolo di prefetti dell’imperatore bizantino, senza alcuna pretesa di esser riconosciuti forieri di un titolo attribuito, ormai, alla “seconda Roma”, Bisanzio. La falsità di tale rivisitazione, volta a stemperare post eventum l’irritazione bizantina, oltre ad esser suggerita dalla data di redazione di essa, una trentina di anni dopo i fatti, è confermata dalle testimonianze parallele degli “Annales Regni Francorum” e del “Liber Pontificalis” i quali riportano la grande cordialità tra il papa e il sovrano, il carattere festante della folla accorsa numerosa in San Pietro, nonché i numerosi regali portati in dono al pontefice da parte di Carlo, in occasione di una cerimonia, organizzata – non di certo improvvisata – al fine di innalzare Roma ai fasti dell’antica grandezza. La continuità con l’Impero Romano, garantita dal pontefice, rimasto dall’Editto di Costantino in poi, fermo governatore de facto della città, come sarà per un altro millennio e simboleggiata dal vestiario di Carlo il Grande - non le solite braghe e stivali barbarici usati usualmente dai Franchi, ma tunica bianca e calzari ai piedi, tradizionali vesti dei patrizi romani – si riscontrerà nel fasto di un’istituzione universale e teocraticamente legittimata, il cui carattere, tuttavia, sostanzialmente barbarico, non riporterà ai fasti del cesareo splendore un popolo, quello italiano, il cui dramma in un passivo passaggio da una dominazione ad un’altra è ben compendiato da Manzoni nel coro dell’Adelchi.


“Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de’ padri la fiera virtù:
Ne’ guardi, ne’ volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra sema e desire, s’avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De’ crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.


E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D’un volgo disperso che nome non ha.”




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