“Vostra Eccellenza ha carta bianca,
l'autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente,
ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non
costituirà problema, noi faremo nuove leggi”. Con questo telegramma, il
duce d’Italia, Benito Mussolini, dava la propria benedizione al nuovo prefetto
di Palermo, Cesare Mori. E’ l’ottobre del 1925, e l’ex prefetto di Trapani
arriva nel capoluogo siciliano, con poteri estesi a tutta la regione con un
fine ben preciso: stroncare la mafia.
Classe
1872, Mori, riconosciuto dai propri genitori naturali solo all’età di nove
anni, dopo il matrimonio di essi, ed educato presso l’Accademia Militare di
Torino, aveva mostrato nel quarto di secolo precedente quel piglio inflessibile
e ligio al dovere, tale da renderlo la persona più adatta a tale incarico, non
solo per le competenze – l’aspetto cui si guarda nel mondo di oggi – ma anche
per la capacità concreta di riscontrare un risultato positivo. Le sue qualità
di solido e ferreo attaccamento ai valori, era già emersa quando aveva
presentato le proprie dimissioni dall’esercito a causa del rifiuto di
concedergli il permesso delle nozze con l’amata Angelina Salvi, compagna di una
vita, conosciuta a Taranto nel 1895.
Dopo
alterne vicende, durante la crisi di fine secolo, si rivelò energico
controllore di anarchici e repubblicani, ottenendo sei encomi e due gratifiche.
Coraggioso uomo d’azione ma anche prolisso scrittore di rapporti e di
relazioni, pronto a esporsi in prima persona nelle situazioni difficili,
attento alla psicologia popolare e dotato di una certa dose di arrogante
incoscienza, si fece notare per i modi energici, ai limiti dell’illegalità,
adoperati nella repressione delle manifestazioni politiche. A seguito di una
perquisizione illegittima in un caffè frequentato da repubblicani, nel dicembre
1902, fu costretto al trasferimento. A sua richiesta fu mandato in Sicilia e il
5 marzo 1903 si stabilì a Castelvetrano, in provincia di Trapani.
A
Trapani si distinse sia per l’azione energica contro le bande di briganti, sia
per l’accortezza politica, tanto che, già a qualche settimana dall’arrivo, il
15 agosto 1907, ricevette un encomio del ministero per la sua opera nel corso
delle gravi agitazioni seguite a Trapani e Palermo all’arresto disposto dal
Senato (costituitosi in Alta Corte) dell’ex ministro della Pubblica Istruzione
Nunzio Nasi, trapanese, avversario di Giovanni Giolitti e accusato di gravi
irregolarità amministrative, che i suoi sostenitori consideravano vittima
innocente di un complotto politico da parte dei suoi avversari. Dopo una breve
parentesi fiorentina, in seguito ad una recrudescenza della mafia in Sicilia,
in corrispondenza con l’inizio della I Guerra Mondiale, venne nominato nel maggio 1916, alla direzione delle
squadriglie di Caltanissetta e Agrigento. Mori mise subito a segno alcune
importanti operazioni come la cattura dei latitanti Diego Tofalo e Francesco
Carlino; si dedicò poi alla caccia di Paolo Grisafi, altro noto bandito
dell’Agrigentino. Organizzò in questa occasione grandi retate di protettori e
manutengoli, suscitando la reazione locale, ma con l’appoggio delle autorità
centrali attivò una rete di informatori, riuscendo a individuare Grisafi, ormai
isolato, e a provocarne la resa nel febbraio del 1917.
Durante
la lunga agonia della democrazia del biennio nero, Mori, ottenuti poteri
straordinari su tutta la Padania dal ministro Facta (ultimo premier prima del
duce), si mostrò così intransigente con lo squadrismo, benché esso volesse
avere la parvenza di mantenere l’ordine pubblico, che non appena Mussolini
prese il potere, pensò bene di sospendere il “prefetto socialista” Mori. La campagna repressiva contro la mafia,
voluta da Mussolini dopo un viaggio in Sicilia nel maggio 1925, trovò il proprio
zelante ed energico attuatore nel prefetto a disposizione, sostenuto anche da
ambienti vicini alla Corona e dal ministro dell’Interno Luigi Federzoni: Mori
fu richiamato in servizio, nominato prefetto di Trapani nel giugno 1924, e
trasferito quindi a Palermo nell’ottobre del 1925, dove rimase fino al giugno
del 1929. Iscrittosi al Partito nazionale fascista il 21 febbraio 1926, enunciò
i principî della sua azione: ripristinare l’autorità dello Stato, ottenere il
sostegno delle popolazioni, distinguere fra una presunta omertà «pura» e
un’omertà degenerata. Di fatto, egli stesso riconobbe che le sue operazioni si
concretizzarono in «autocarri carichi di
sciagurati avviati alla espiazione di un passato di colpe».
Un
esempio di una tipica operazioni di Mori fu l’assedio di Gangi, nel gennaio del
1926, e la cattura dei banditi che vi trovarono rifugio con la complicità delle
autorità locali. La tattica fu quella già sperimentata, durante la guerra,
nella cattura del bandito Grisafi. Mori riconobbe esplicitamente che la propria
azione repressiva includeva momenti di arbitrarietà, ma sostenne che tale
comportamento era giustificato dagli eccessi cui la mafia era giunta. Dal punto
di vista repressivo, l’azione di Mori si esplicò in una serie di retate nei
comuni in provincia di Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Enna, condotte
soprattutto nel 1926, con migliaia di arresti, seguite da grandi processi per
associazione a delinquere, a partire dall’ottobre 1927.
Sul
terreno giudiziario, trovò la piena collaborazione del nuovo procuratore
generale di Palermo Luigi Giampietro. Le armi principali della campagna
repressiva contro i mafiosi furono così lo spregiudicato uso del confino e
dell’accusa di associazione a delinquere: bastò spesso la sola testimonianza
dei funzionari di Pubblica Sicurezza per essere condannati. Più difficile fu,
anche durante il fascismo, trovare i colpevoli dei singoli reati: molti omicidi
rimasero, anche in quegli anni, senza responsabile.
Gangi |
Dal
punto di vista sociale, in base ad una visione polare della società in
contadini e proprietari, le classi dirigenti dell’Isola furono assolte
dall’accusa di essere conniventi con i banditi e si individuò nei gabellotti e
campieri il ceto medio mafioso da isolare e colpire, in tal modo diminuirono
drasticamente i reati comuni come furti e omicidi (giacchè i braccianti
impararono a non individuare più nei proprietari terrieri gli autori dei
soprusi, vittime, come erano, anch’essi dei ricatti del ceto medio mafioso) e
il “prefetto di ferro” riuscì ad imporre lo Stato Fascista come unico mediatore
tra le due entità.
Mori
acquisì una enorme popolarità, in Italia e all’estero, alimentata anche dalla
propaganda del regime, che sottolineava il successo del fascismo là dove lo
Stato liberale aveva fallito: la sconfitta della mafia. Il 10 gennaio 1928
l’Università di Palermo gli conferì la laurea honoris causa in
giurisprudenza.
Il
22 dicembre 1928 fu nominato senatore. Pochi mesi dopo, il 24 giugno 1929, gli
giunse inaspettato un telegramma di Mussolini che lo collocava a riposo per
anzianità di servizio a partire dal 16 luglio di quello stesso anno.
Il
5 luglio 1942, pochi mesi dopo la dipartita della moglie, il “prefetto di
ferro”, uomo devoto ad una legge, avvertita in prima istanza come risposta al
senso del dovere presente nel nostro cuore - in interiore hominis habitat Veritas
– se ne andava per poter finalmente rispondere a quell’antico interrogativo, riemerso
tra i suoi autografi, se la morte sia un
punto o una virgola…