Era l’11 dicembre 1991 quando a Maastricht,
città olandese al confine con la Germania ed il Belgio, veniva raggiunto lo
storico accordo ratificato il 7 febbraio dell’anno successivo che sanciva, di
fatto la nascita dell’Unione Europea. In un periodo in cui la politica
comunitaria e i rapporti diplomatici con il resto dell’Europa sono oggetto di
dibattiti quotidiani, sembra quantomeno opportuno ripercorrere i primi passi dell’unione
continentale, andando alla ricerca dei motivi e delle promesse sancite nella
città sulla Mosa. Le basi su cui è fondato l’accordo di Maastricht sono tre: la
nascita di una Comunità europea come risultante delle tre precedenti istituzioni
(CEE, CECA ed EURATOM), la creazione di una politica estera e di sicurezza
comunitaria e la Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale.
E tuttavia ciò che ha conferito
all’accordo il carattere di evento storico che lo contraddistingue ancora oggi
è la proclamazione dell’Unione Europea, la cui realizzazione fu prevista
tramite tre fasi: la liberalizzazione dei capitali, la creazione dell’Istituto
monetario europeo (IME) e la fissazione di tassi di cambio definitivi tra le
monete della Comunità.
Dal Corriere della
Sera dell’11 dicembre 1991
Il Trattato di Maastricht dovrà essere ratificato dai
parlamenti nazionali dei Paesi della Cee: Danimarca e Irlanda, l’una perplessa
sull’impegno a una politica di sicurezza e poi difesa comune, l’altra
condizionata dal suo status neutrale, subordineranno la ratifica all’esito di
un referendum popolare; al Parlamento britannico sono attese accese discussioni
sull’unione monetaria; in Francia il difficile clima politico fa temere
sorprese, il presidente François Mitterrand ha già accennato alla possibilità
di un referendum. Nonostante il cancelliere tedesco Helmut Kohl parli di
«un’importante tappa intermedia in direzione dell’unità europea», dalla
Germania, locomotiva economica della nuova Europa, potrebbero arrivare gli
ostacoli più impegnativi: Egon Klepsch, presidente del Parlamento europeo,
rileva che il trattato contiene debolezze, insufficienze ed aspetti poco
chiari; Helmut Schlesinger, presidente della banca centrale tedesca, conferma
un «sì di principio» ma non nasconde l’inquietudine sui tempi e i modi in cui i
Dodici si avviano alla svolta (troppa fretta e scarse preoccupazioni). Più del
compiacimento per alcune caratteristiche della futura Banca europea
(indipendenza dal potere politico, priorità della lotta all’inflazione secondo
il modello tedesco, responsabilità nella politica dei cambi dei Paesi membri
nei confronti delle monete esterne), nel comunicato della Bundesbank colpisce
l’elenco delle perplessità sul futuro dell’Europa, innanzitutto riguardo
all’agenda che fissa il cammino verso l’unione monetaria totale (moneta unica e
banca centrale entro il 1999): la banca centrale tedesca teme che per
rispettare il calendario si facciano concessioni ai severi criteri che ogni
Paese dovrà rispettare per entrare nell’ultima fase dell’Unione («avremmo
preferito un calendario più morbido»), e sottolinea che il limite del ’99 è
stato adottato «nell’ultima notte di negoziati» in una riunione alla quale «i
ministri delle Finanze non erano presenti». Altra preoccupazione, le competenze
dell’Istituto monetario europeo, che sarà creato nel ’94 come primo passo verso
la Banca centrale europea col compito di ricevere una parte delle riserve
monetarie delle banche nazionali e di promuovere e sorvegliare lo sviluppo
dell’Ecu: il timore di Francoforte è che queste due attività «possano suscitare
conflitti con la politica monetaria di ogni Paese». Infine il controllo
dell’inflazione nei Paesi più deboli, con implicito riferimento all’Italia:
l’unione monetaria richiederà «grossi sforzi» in questo campo», la politica
monetaria «non potrà, da sola, raggiungere gli obiettivi voluti», e sarà dunque
necessaria un’unione politica della quale il Trattato non consente una visione
chiara. Conclusione: i governi dovranno osservare «la necessaria disciplina finanziaria»,
gli aiuti all’interno della Cee non dovranno diminuire la responsabilità dei
singoli Paesi e «non dovranno pesare sulle finanze pubbliche tedesche, che già
si trovano in una situazione difficile».
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