Il dittatore licenziato: la fine del sogno fascista

 
Roma, 25 luglio 1943 ore 2.40 del mattino. Il sonno della Città Eterna è scosso in quel di Palazzo Venezia, dall’approvazione da parte del “Gran Consiglio del Fascismo” (19 voti contro 8) dell’”Ordine del giorno Grandi”. Dopo 4 anni Mussolini si era persuaso a convocare, per le ore 17 del giorno precedente, sabato 24, l’assemblea da lui stesso istituita nel lontano 1922, ben sapendo che quello sarebbe stato l’ultimo atto del suo ventennale dominio sull’Italia. La volontà del duce e quella della nazione, non erano più un cuor solo e un’anima sola come nei decenni precedenti: la guerra, con i morti assiderati in Russia, i caduti dell’Africa e, infine, il dramma dello sbarco in Sicilia degli Alleati appena due settimane prima la riunione, aveva decretato la fine del sodalizio.
E’ stato Dino Grandi, delfino di Mussolini, nonché ministro degli Esteri nel fiorente periodo precedente la Guerra in Abissinia, quando il duce giocava a far l’Uomo della Provvidenza sulla scena internazionale, a presentare in tre punti l’ordine del giorno con il quale la Storia ha messo il punto e a capo al Fascismo. Il progetto è quello di ritornare allo Statuto Albertino, riponendo tutti i poteri nelle mani proprio di quel re, Vittorio Emanuele III, che il 28/10/1922 aveva fatto di una sparuta marcia, una Rivoluzione, affidando il governo del Paese all’anarchico Mussolini. Primo ministro nelle ore successive, dopo le dimissioni del duce, sarà nominato il Maresciallo Pietro Badoglio, il quale non si era fatto scrupolo, nella Guerra di Etiopia, di utilizzare i gas asfissianti, vietati dalla Società delle Nazioni, contro le agguerrite truppe del Negus. Come Napoleone all’Elba, anche per Mussolini l’esilio è su un’isola, quella di Ponza, poi sarà il Gran Sasso la prigione dello statista romagnolo, prima del ritorno alla ribalta: prelevato dai paracadutisti di Hitler (12/09), in borghese, sarà liberato per dar vita a quel canto del cigno nazi-fascista che sarà la Repubblica di Salò. Nel frattempo, dopo aver precisato che la guerra sarebbe continuata al fianco dell’alleato tedesco, il 3 settembre a Cassibile, in gran segreto, il Maresciallo firma l’armistizio, l’8 sarà proclamato alla nazione con l’enigmatica frase “L’armistizio è firmato, la guerra continua”. Per i chiarimenti non c’è tempo, Badoglio e Sua Maestà fuggono nel Meridione, lasciando l’Italia Centro-Settentrionale in balìa di una guerra fratricida tra partigiani e fascisti, che continuerà per altri 18 mesi. Il 25 luglio, quale fine della dittatura, può essere considerato il primo atto della rinascita della democrazia in Italia e, in quanto tale, ne manifesta tutti i caratteri contrad-ditori. Certo preferibili alla drammatica fine del Nazismo in Germania, le grottesche vicende seguite a questa data palesano già quel dualismo proprio della politica italiana del Dopoguerra. I controversi personaggi del Re, di Badoglio, di Grandi, la malinconica figura di Mussolini in borghese sul Gran Sasso, il tragicomico annuncio dell’armistizio, le contraddizioni di una guerra al contempo Civile e di Liberazione, non sono altro che  tutte espressioni del medesimo Limbo politico italiano, un Purgatorio che, troppo spesso, anziché aprire le porte del Paradiso, spalanca quelle dell’Inferno.

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