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6. Italiano - Massa e Folla nella Lettaratura: Manzoni e Verga

L’importanza della rivoluzione Francese è quasi unanimemente ritenuta tale da rappresentare per molti storici la fine dell’età moderna e l’inizio di quella contemporanea: tale rilevanza è conferita all’evento dalla drastica rottura fra l’Ancient règime ed il nascente stato moderno - sia a livello sociale che a livello politico- istituzionale, dall’affermazione di principi fondanti dello stato moderno, quali la separazione dei poteri e l’uniformità fiscale e legislativa in tutto il territorio, ma soprattutto dalla comune riflessione alla quale l’evento in questione ha costretto storici, politici, sociologi e romanzieri.
La condivisa visione della Rivoluzione nel XIX secolo – poi parzialmente ridimensionata dalla storiografia a noi contemporanea – definiva tale evento un “evento di massa”; in una pubblicazione uscita in Italia nel 1977 Gyorgy Lukàcs corregge definitivamente questa definizione, riuscendo tuttavia a mantenere centrale il ruolo della massa, così come era emerso per la prima volta negli eventi a partire dal 1789: il filosofo ungherese definisce infatti la Rivoluzione Francese innanzitutto come “un’esperienza vissuta dalle masse”. Presa coscienza di questo suo aspetto fondamentale, la Rèvolution ha costituito dunque per i pensatori del XIX secolo l’impossibilità di sottrarsi al dovere di giudicare questo nuovo protagonista dei fenomeni storico-culturali, di esprimere un giudizio che non può non avvicinare i due opposti rappresentati da un’idea di folla irrazionalmente bestiale e di una semplice somma di razionalità individuali espressione dunque di una coscienza collettiva. Eventi storici come la Comune parigina del 1870 o i moti del pane di fine 800 in Italia hanno fomentato entrambe le posizioni, consolidando la paura di una folla-folle e aumentando la considerazione delle sue stesse potenzialità: e tuttavia ambedue le posizioni – anche se considerate nelle rispettive forme più “moderate” – rappresentano degli stereotipi, privi di ogni realtà fisica, quasi come se non fossero aggregati di uomini e donne in carne ed ossa.


Se da una parte la disputa sulla folla può aver rappresentato per tutti i più grandi pensatori degli ultimi due secoli semplicemente l’accostarsi ad un’idea preesistente o al massimo proporne di nuove, per i romanzieri del XIX e XX secolo la questione è andata ben oltre una più o meno sterile contrapposizione fra opinioni: autori come Scott, Manzoni, Nievo e Verga non hanno potuto circoscrivere la questione a confini puramente teorici, ma si sono dovuti confrontare con interrogativi dal risvolto pratico, su come rappresentare, descrivere e far muovere uno dei protagonisti dei propri romanzi, affrontando così il campo fino ad allora vergine della rappresentanza della folla in quanto tale nella letteratura.

La folla trova dunque rappresentazione nella letteratura a partire dalla prima metà del XIX secolo, e vede una delle prime e più fortunate rappresentazioni ne I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, con cui lo scrittore lombardo riesce a realizzare un modello fortunato e duraturo non solo per l’800 ma anche per alcuni autori del secolo scorso. Alla rappresentazione manzoniana segue quella di Ippolito Nievo, più democratica e progressista, che tuttavia non raggiungerà nemmeno la già scarsa fama delle Confessioni dell’autore padovano. Le idee manzoniane – e in parte quelle di Nievo – passano in seguito attraverso il filtro storpiante dell’influenza di Emile Zola, che le deforma, le modifica e le complica: il risultato di tale processo furono da una parte le conclusioni scapigliate di Cletto Arrighi, dall’altra la ben più fortunata rappresentazione del personaggio-folla di Giovanni Verga; a inizio XX secolo infine la folla trova nuove forme nelle opere di Gabriele D’Annunzio, che ne da una rappresentazione tanto chiara quanto stereotipata: essa è pericolosa, ambigua e seducente.

La risposta della letteratura da Manzoni in poi si è caratterizzata per l’assoluta impersonalità della folla rappresentata: essa – come si diceva – non è resa come un insieme di esseri umani, ma sono un’entità astratta, priva di alcuna consistenza umana. La folla non riuscirà quindi mai a diventare un vero personaggio, né tantomeno i singoli personaggi saranno rappresentati in mezzo alla folla come in mezzo a propri simili, ma quasi come in un qualsiasi spazio fisico, con caratteristiche tutt’altro che umane. La folla fa il suo esordio nell’opera manzoniana alla fine del capitolo XI, quando Renzo entra in contatto per la prima volta gli ambienti milanesi che tanto incuriosiscono il giovane montanaro: 
“Attarversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichio era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. “Andiamo a vedere” disse tra sé; tirò fuori il suo pezzo di pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte „ 
A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XI 

La descrizione della folla avverrà solo qualche pagina dopo ma già due termini ci consentono di individuare chiaramente il giudizio dell’autore: “brulichio” e “vortice” consentono immediatamente di intuire come Manzoni consideri la folla appartenente ad un mondo animale ostile al protagonista prima ancora di essere toccata con mano. Renzo rimarrà sempre uno spettatore di questo vortice, nonostante non solo vi entrerà, ma contribuirà anche notevolmente perché gli avvenimenti prendano una certa piega dando il suo valido contributo. Il capitolo XII si apre con una digressione di carattere storico che puntualizza le cause della carestia che aveva esacerbato la folla, per poi descrivere il celebre assalto al forno delle grucce: la protagonista, tanto della digressione quanto della narrazione, è la folla, con i suoi umori e le sue reazioni istintive. L’assalto al forno e alla casa del vicario consentono a Manzoni di esprimere pienamente il proprio giudizio, spesso ironico, che lascia trasparire tanto la pena quanto la condanna nei confronti di uomini che, persa ogni razionalità, seguono solamente il proprio istinto. Dopo aver esposto con gusto tutto manzoniano le cause storiche della grave carestia, Manzoni introduce la folla, delineandola con tratti di subumana ottusità ed irrazionalità, ancora più stridente se affiancata alla scientifica oggettività della precedente digressione: l’obiettivo della folla è “far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornare l’abbondanza […] ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva”.

Assumono dunque un significato ben preciso le metafore presenti nel capitolo XII, tanto quella della tempesta (“si riunivano come gocciole sparse sotto lo stesso pendio”, “spinti e incalzati da quelli di dietro, spinti anch’essi da altri, come flutti da flutti”; “nella tempesta delle grida”) quanto quelle zoomorfe (“Uh, che formicolaio!”; “Questi merlotti…”). Si tratta di un giudizio espresso già solo nella forma: le suddette metafore hanno la funzione di far condividere al lettore la posizione dell’autore, la costruzione del periodo prevalentemente paratattica sottolinea magistralmente l’irrazionalità dei gesti: “Chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverio che per tutto si posa, per tutto si solleva e tutto vela e annebbia”. 


La soluzione verghiana non potrà limitarsi alla divertita ironia del narratore nieviano, ma porterà lo scrittore ad abbandonare il terreno puramente stilistico e a sperimentare nuove soluzioni basate su una diverso rapporto con le caratteristiche storico-sociali del personaggio e del suo ambiente. Verga tuttavia per buona parte del romanzo non riesce ad andare al di là di un sottile gioco di riferimenti storico-ideologici fra passato ricordato, passato narrato e presente della scrittura: non vi è in conclusione alcuna evoluzione reale da I Malavoglia al Mastro Don Gesualdo, in cui si rende solamente più chiaro il pessimismo sia nel senso del destino individuale, sia nel senso di un’interpretazione sociale. Andrea Matucci, professore associato di letteratura italiana presso l’università di Siena, conclude un’accurata analisi sulla massa in verga affermando che in Mastro Don Gesualdo “di nuovo, come nei Malavoglia e in Libertà, un intero mondo di personaggi si stravolge, diviene esso stesso massa, folla tumultuante, e così il vecchio mostro irrazionale e inconoscibile dei Promessi sposi ancora una volta diventa personaggio agente, e ancora il disordine non viene dall’esterno, perché non è che una potenzialità del quotidiano”.

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