Nella notte del 7 dicembre 1970, la vita democratica italiana
è minacciata da un oscuro pericolo: è in atto un complotto pianificato nei
minimi dettagli per l'assalto ai centri nevralgici del potere, un colpo di
Stato. I ministeri dell'Interno e della Difesa, la sede della RAI, le centrali
di telecomunicazione e le caserme sono presidiate in attesa dell'ordine di
attacco, ma quando scatta l'ora decisiva tutte le forze mobilitate per il golpe
sono richiamate a rientrare nei ranghi.
Gli insorti si apprestavano ad occupare le principali città
italiane, su tutte Milano, Venezia, Reggio Calabria, ma soprattutto le
istituzioni con sede a Roma. L'operazione architettata dai golpisti,
chiamata “Tora Tora” per la ricorrenza dell'attacco giapponese a PearlHarbor, sarebbe partita a Roma dai cantieri edili di Orlandini nel
quartiere Montesacro, dalla palestra dell'Associazione Paracadutisti in via Eleniana, dal quartiere universitario dove si erano
riuniti i gruppi dei congiurati, affiliati ai movimenti neofascisti e membri
dell'Esercito. Mentre un commando
sarebbe penetrato nel ministero degli Interni, sottraendo mitragliatori
dall'armeria, una colonna di automezzi della Guardia Forestale di Città Ducale,
agli ordini del colonnello Luciano Berti, si sarebbe fermata poco distante
dalla sede della RAI in via Teulada.
Al momento decisivo
però, un inspiegabile contrordine avrebbe interrotto improvvisamente
l'attuazione definitiva del piano.
Il Paese, ignaro degli avvenimenti che si sono
susseguiti nella notte dell'Immacolata, scopre quale rischio abbiano corso le
istituzioni repubblicane soltanto il 17 marzo 1971, quando il quotidiano “Paese
Sera” rivela l'esistenza di un progetto eversivo dell'estrema destra.
L'opinione pubblica, scioccata, si interroga su
chi siano i protagonisti della cospirazione, quali gli obiettivi e soprattutto
come e perché il piano sia giunto così vicino alla concreta attuazione, sebbene
senza essere coronato dal successo.
Le prime ipotetiche risposte iniziano ad
arrivare dalla magistratura: il 18 marzo 1971, il sostituto procuratore di Roma
Claudio Vitalone emette gli ordini di cattura, per il
tentativo di insurrezione armata contro lo Stato, verso gli esponenti della
destra extraparlamentare Mario Rosa e Sandro Saccucci, l'affarista Giovanni De Rosa, l'imprenditore edile Remo Orlandini, ed il giorno successivo è raggiunto da un
mandato anche Junio Valerio Borghese, rampollo della nobile
casata romana, annoverante tra i suoi membri pontefici, cardinali, nonché il
cognato di niente meno che Napoleone, distintosi come ufficiale di Marina
durante la Seconda Guerra Mondiale al comando del sommergibile Scirè, per l'affondamento delle corazzate inglesiValiant e Queen Elizabeth nel
porto di Alessandria d'Egitto il 18 dicembre 1941.
Dopo l'armistizio
del 1943, aderisce alla Repubblica di Salò continuando l'attività nella Decima
Flottiglia MAS, ricostituita come reparto indipendente di volontari, di cui
diviene il comandante.
La formazione, che
gode di una singolare autonomia e di un regolamento particolare, collabora con
l'occupante tedesco nella guerra agli Alleati e nella spietata repressione
della Resistenza partigiana, ma ancora prima della fine del conflitto allaccia
rapporti con i servizi segreti americani (l'OSS, da cui nascerà nel 1947 la CIA) in funzione anticomunista ed antislava.
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Junio Valerio Borghese, negli anni '40 |
Dopo una condanna per collaborazionismo scampata,
grazie alla protezione americana (in particolare dal responsabile del
controspionaggio dell'OSS, James Jesus Angleton), per Borghese si avvia la carriera politica e
ottiene nel 1951 la presidenza onoraria del Movimento Sociale Italiano, da cui
però presto si scosta per avvicinarsi alle posizioni più estremiste della
destra extraparlamentare.
Nel settembre 1968,
mentre tutta la penisola è attraversata dalla contestazione, fonda il Fronte
Nazionale nel tentativo di coagulare attorno a sé i movimenti più radicali,
compreso Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, che non si riconoscono nella politica
istituzionalizzata e parlamentare dei partiti.
Dichiarando un'aperta
e violenta ostilità per la sinistra italiana, insistendo sul pericolo di una
“deriva rossa”, Borghese entra in contatto con diversi settori delle Forze
Armate, con il comando militare americano e della NATO, allaccia rapporti con
numerosi esponenti dell'industria e della finanza per raccogliere così i fondi
necessari all'organizzazione di gruppi armati.
La procura della Repubblica di Roma, costretta
ad archiviare l'indagine del 1971 per mancanza di prove, riapre l'istruttoria
il 15 settembre 1974, quando il ministro della Difesa Giulio Andreotti consegna
uno scottante rapporto del servizio segreto militare (SID) che getta nuova luce sul piano eversivo.
Il dossier, redatto
dal generale Gianadelio Maletti, si basa sulle dichiarazioni del costruttore Remo Orlandiniregistrate dal capitano Antonio La Bruna, e
coinvolge tra i cospiratori anche il direttore del SID Vito
Miceli: i vertici militari, risultando (nonostante quanto fino ad allora
sostenuto) in realtà consapevoli del tentato golpe, sono scossi da un terremoto
da cui lo stesso Miceli esce destituito.
La magistratura spicca nuovi arresti ed avanza formulando ulteriori
accuse, sulla presunta avvenuta occupazione del Viminale, sul progetto di rapimento del Presidente della
Repubblica e sulla marcia verso la capitale intrapresa dalla Guardia Forestale.
Il processo è
inaugurato il 30 maggio 1977, ma dei 78 imputati i più compromessi, tra cui
Remo Orlandini ed il
medico reatino Adriano Monti, sono latitanti. Il 14 luglio 1978, la sentenza di
primo grado si risolve in trenta assoluzioni, ma anche per i condannati cadono
i più gravi capi d'accusa, come l'insurrezione armata, e resta solo il reato,
relativamente attenuato, di cospirazione politica. Sono dunque comminati dieci
anni a Remo Orlandini, otto a Rosa, De Rosa e al colonnello dell'Aeronautica
Giuseppe Lo Vecchio, cinque anni a Stefano Delle Chiaie e al
colonnello dell'Esercito Amos Spiazzi, quattro a Sandro Saccucci; escono invece assolti “perché il fatto non
sussiste” Vito Miceli, Luciano Berti, Adriano Monti.
Il 29 novembre 1984, dopo due giorni di camera
di consiglio, la Corte d'Assise d'Appello assolve tutti gli imputati,
derubricando il programma golpista come un “conciliabolo di quattro o cinque
sessantenni”, ed anche la Cassazione conferma tale interpretazione il 24 marzo
1986.
Il 7 novembre 1991, il giudice milanese Guido
Salvini, entrato in possesso dei nastri originali delle registrazioni
effettuate da Antonio La Bruna, scopre che le versioni consegnate durante gli
anni alla magistratura risultano tagliate nei numerosi passaggi in cui
compaiono i nomi di esponenti politici e militari di primo piano, come
l'ammiraglio Giovanni Torrisi, Capo di Stato Maggiore dal 1980 al 1981.
Rispetto alla
versione integrale dei nastri, veniva inoltre omesso ogni riferimento a Licio
Gelli e alla loggia massonica P2, che avrebbe dovuto provvedere al sequestro
del Presidente Saragat, e restava sottaciuto anche il coinvolgimento della
mafia siciliana, incaricata di eliminare il capo della polizia Angelo Vicari,
come poi sarà confermato anche da Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Luciano
Leggio. Grazie al Freedom of Information Act deciso dal presidente americano
Clinton, è inoltre emerso che i servizi segreti statunitensi conoscevano il
complotto eversivo di Borghese, e che Adriano Monti, designato come ministro
degli Esteri del governo golpista, sarebbe stato il tramite dei contatti tra i
cospiratori e Ugo Fenwich, impiegato presso l'ambasciata americana a Roma.
Lo stesso, nel 2005, ha dichiarato il proprio diretto coinvolgimento nella
trama cospirativa, in qualità di mediatore deputato a sondare le disponibilità
della classe dirigente americana allora facente capo a Nixon. A questo
scopo si sarebbe incontrato a Madrid con Otto Skorzeny, già protagonista con un
commando di SS della liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso nel
1943, assoldato dalla CIA nel dopoguerra.
Sebbene alcuni
settori marginali della CIA avrebbero dimostrato interesse e garantito il
necessario appoggio per il colpo di Stato, ponendo come condizione la nomina di
Giulio Andreotti a capo del Governo, tuttavia, la risposta conclusiva si
sarebbe risolta in un parere di sarcastica ostilità ad eventuali mutamenti
nell'equilibrio dell'area mediterranea.
Il Golpe Borghese falliva così, ancor prima di iniziare, non perchè scoperto,
ma in quanto ridotto ad uno sterile ed oscuro “conciliabolo di sessantenni” dal suo stesso patrono americano, a
dimostrazione del fatto che, in un periodo come la Guerra Fredda, nemmeno i
rivoluzionari possono fare ciò che vogliono.