Teano dunque, o Taverna Catena, o Vairano Patenora, ché sono molte le località che, come avveniva nella Grecia antica per Omero, si contendono l’onore di avere ospitato un atto così carico di significati. Quello che si percepì subito da tutti fu la conseguenza geo-politica dell’incontro, conseguenza del resto già scontata dopo l’esito del plebiscito napoletano di cinque giorni prima: respinta ogni richiesta di convocazione di una Assemblea avanzata dai democratici raccolti attorno a Mazzini e a Cattaneo, Garibaldi aveva lasciato che il pro-dittatore Pallavicino preparasse il passaggio dei poteri dal governo dittatoriale al sovrano; e con esso l’annessione dell’intero meridione al Regno sardo. “Salute al re d’Italia”: queste le parole che l’uomo dei Mille avrebbe rivolto a Vittorio Emanuele II nella ricostruzione lasciataci da Giuseppe Cesare Abba. Non molto diversa la versione di un altro memorialista, Alberto Mario, che riferisce un breve scambio di convenevoli concluso da Garibaldi con una esclamazione rivolta al suo seguito: “Ecco il re d’Italia!”. Comune a questi, e ad altri testimoni diretti, è la sottolineatura del clima finto-festoso in cui i due personaggi si vengono incontro a cavallo e si salutano sotto gli occhi poco partecipi e poco convinti dei rispettivi stati maggiori: tant’è che nel riprendere il cammino, mentre Garibaldi invitava i contadini ai lati della strada ad applaudire il re e quelli invece si ostinavano a gridare “Viva Calibardo”, gli ufficiali del seguito, dopo aver provato a mescolarsi, “a poco a poco si separarono”, tornando ciascuno “al proprio centro di gravità; in una riga le umili camicie rosse, nell’altra a parallela superbe assisi lucenti d’oro, d’argento, di croci e di gran cordoni”: due mondi separati e distinti che gli anni avvenire avrebbero ancor più allontanati malgrado gli sforzi compiuti da Garibaldi perché l’annessione, ossia la conquista e lo spirito in cui si compiva, non fosse tale almeno nei rapporti umani.
Nella sua simbolicità l’incontro di Teano aveva un protagonista invisibile, ed era Cavour, trionfatore su tutta la linea: distrutto politicamente nel 1859 dalla sospensione delle ostilità decisa a Villafranca, nel 1860 aveva domato in un colpo solo Napoleone III, cui aveva fatto digerire la riduzione dello Stato pontificio; Garibaldi, che era riuscito a tenere lontano da Roma e verso il quale a cose fatte poteva anche mostrarsi cavalleresco; la Sinistra mazziniana, alla quale aveva negato la convocazione dell’Assemblea costituente ossia del consesso che avrebbe dovuto discutere le modalità dell’annessione; Vittorio Emanuele II, che ancora una volta aveva dovuto rassegnarsi all’idea che le decisioni supreme sul futuro del paese dovessero passare attraverso il Parlamento. Va detto che per arrivare a cogliere tutti questi risultati Cavour, quando era stato necessario, non aveva esitato a dimenticare di essere Cavour. “Garibaldi – gli scriverà il giorno dopo Teano l’ultramoderato Farini, eccitatissimo per avere assistito anche lui all’evento – ne ha dette e fatte delle grosse: ma noi facciamo le garibaldaggini politiche meglio di lui”. Solo così, rubando qualcosa ai rivoluzionari e facendo anche lui le sue “garibaldaggini”, Cavour era riuscito a non essere più lo statista esitante e incerto del 1859, il primo ministro di un piccolo regno soggetto alle manovre della diplomazia internazionale. Per quanto potesse dir male del Duce dei Mille a uso e consumo dei rappresentanti stranieri a Torino, l’impresa garibaldina con le sue caratteristiche di movimento volontario sostenuto dal consenso delle popolazioni e di gran parte dell’opinione pubblica dell’Occidente gli aveva messo in mano una carta assai utile, da spendere nel difficile confronto con le Potenze. Ciò voleva dire che il diritto pubblico europeo stava subendo una significativa trasformazione: non era più materia esclusiva della diplomazia ma era diventato un teatro sul quale protagonisti diversi da quelli tradizionali erano in grado di far sentire la loro voce.

Il terzo motivo simbolico dell’iconografia dell’incontro è legato alla composizione sociale del seguito. Sono aiutanti di campo, ufficiali di stato maggiore, ministri anche, e li si è già visti nella descrizione che ce ne ha dato Alberto Mario: da un lato i militari piemontesi tutti tronfi nelle loro divise tirate a lucido e scintillanti d’oro, dall’altro i garibaldini vestiti in modo assai meno vistoso ma, si suggerisce, tanto più di loro decorati dalle imprese appena compiute. L’incontro è anche questo: due mondi e le rispettive mentalità e ideologie che entrano a contatto e si uniscono in funzione dello stesso obiettivo ma senza nessuna possibilità di integrarsi. Sono stati d’animo che né i pittori né i disegnatori per quanto abili riescono a rendere nel momento in cui raccontano lo storico episodio. Ma è da questa lontananza che nasce la freddezza che si percepisce dietro i toni festosi e su cui i democratici, con Mazzini alla testa, si soffermano, quasi affidando a questa sensazione le residue speranze di staccare dalla monarchia il Dittatore vittorioso: il quale, anche in un momento come questo, si veste di umiltà per chiedere a Vittorio Emanuele di non dimenticarsi dei suoi volontari. Sia Alberto Mario che G.C. Abba che ne utilizza la testimonianza diretta mettono l’accento sulla mestizia del generale che attribuiscono al fatto che insieme col potere sul territorio conquistato Garibaldi aveva ceduto anche il comando delle future operazioni militari: “Voi – gli aveva spiegato Vittorio Emanuele – vi battete da troppo tempo, tocca a me adesso; le vostre truppe sono stanche, le mie fresche: ponetevi alla riserva”. Era una frase che non ammetteva repliche. “Ci hanno messo alla coda”, dirà Garibaldi a Jessie White Mario; lui stesso, in un brano mai pubblicato delle Memorie, annoterà con amarezza: “L’esercito settentrionale, comandato dal re, subentrava alla conclusione della guerra, e ben presto si poté capire, che non si desiderava il nostro contatto”.
Secondo Giuseppe Guerzoni, fu questo il punto d’arrivo di una strategia partita con l’invasione dello Stato pontificio ad opera dei Piemontesi e finalizzata a togliere di mezzo il guerriero prima che diventasse troppo potente: “Garibaldi aveva vinto troppo: bisognava che la partita di quell’indiscreto donatore di regni fosse chiusa; bisognava dimostrare che si potesse vincere senza di lui, dovesse la vittoria costare a cento doppi più cara; bisognava […] che il futuro Re d’Italia potesse presentarsi ai suoi nuovi popoli, non già nelle umili sembianze d’un sovranello protetto e patteggiato, ma di un vero Re soldato e conquistatore”. E così fu.

Così dicendo non si vuol mettere in discussione l’importanza storica della giornata del 26 ottobre 1860, ma richiamare l’attenzione sul peso che avrebbe avuto sul futuro del paese quello che con qualche cedimento alla tentazione del revisionismo si potrebbe definire “il mancato incontro di Teano”. Ma è ancora corretto parlare di Teano come della località in cui il re d’Italia e l’ormai ex dittatore delle Due Sicilie si incontrarono?